In classe il metodo, a casa le conoscenze

A casa si affronta il percorso da soli ed è il momento in cui si impara «personalmente»...

 

del 27 maggio 2015

 

 

"Molte famiglie si lamentano, da tempo, dei troppi compiti a casa assegnati da molti insegnanti.

 

L’esercitazione a casa è l’integrazione della lezione a scuola, della spiegazione della materia ricevuta durante le ore trascorse a scuola. Un po’ come l’atleta che prova il gesto che deve migliorare, a volte anche per intere ore. La verità è che il lavoro grosso dovrebbe essere quello fatto in aula, tutti insieme. Ecco, forse il punto è proprio questo. Bisognerebbe poter valorizzare il lavoro svolto in classe dagli insegnanti.

 

Mi spingo oltre. Bisognerebbe poter valutare meglio quei docenti che riescono a coinvolgere gli allievi in aula, evitando che si distraggano, che disturbino, non punendoli ma semplicemente catturando il loro interesse. Anche durante le interrogazioni dei compagni, dovrebbero «costringere» tutti a seguire e intervenire se sono in grado.

 

È il compito più difficile per un insegnante. Molti lo fanno, ma per la maggior parte è molto difficile «tenere» la classe.

 

Forse ci vorrebbe un voto agli allievi che valuti il loro interesse durante le lezioni.

 

Può darsi che molte scuole lo adottino già, in modo autonomo, come risorsa interna, io lo proporrei, servirebbe anche a dare una valutazione al docente.

 

Marco Gambella,

 

Torino"

 

 

 

 

Gentile Marco,

 

noi abbiamo una scuola eccellente dal punto di vista dei percorsi, proprio perché richiedono lavoro autonomo a casa. In altri Paesi sono più abituati al “problem solving” e al “dibattito”, ma il nostro stile è diverso: la nostra capacità di approfondimento è un valore raro, anche se sarebbe ora di scrollarsi alcuni provincialismi (studiare Dostoevskij anziché Carducci, Cervantes anziché i petrarchisti minori...). Non dobbiamo sfornare piccoli storici della letteratura italiana, ma persone capaci di decodificare il mondo e identificare ciò che è vero-bello-buono rispetto a ciò che non lo è o lo è meno, e questo si fa solo acquisendo la giusta unità di misura: i migliori (come suggerito dal teorico delle intelligenze multiple H. Gardner in Verità, bellezza, bontà. Educare nel ventunesimo secolo).

 

In questi anni ho visto molti alunni delusi da esperienze all’estero, proprio sotto questo aspetto: dicevano impietosamente, dopo tre, sei, nove mesi in una scuola straniera: «si fa poco». Si riferivano al tipo di percorsi frammentari (anche se qualche «opzionalità» farebbe bene anche a noi) e alla carenza di lavoro a casa.

 

Mentre in classe si impara un metodo (cioè la strada da percorrere osservando attentamente la mappa) e il sapere ha presa sul mondo, a casa si affronta il percorso da soli ed è il momento in cui si impara «personalmente», e il sapere ha presa su me.

 

In classe si svolge gran parte del lavoro in termini qualitativi: ti spiego la mappa di un territorio sconosciuto per darti gli strumenti necessari a orientarti da solo; ti spiego i fondamentali, ma poi sei tu che li acquisisci con l’esercizio e l’errore (l’uso dell’errore come fonte di conoscenza e non solo di frustrazione è un punto debole della formazione dei docenti). Lei poi usa la parola «interesse»: puntiamo tutto sulle conoscenze e meno sui metodi (non parlo di trucchetti digitali, il digitale è aiuto non soluzione). L’alternativa a una scuola noiosa non è una scuola divertente, con effetti speciali (la buona vecchia «parola» rimane la tecnologia più avanzata), ma una scuola «interessante», cioè in cui l’essere (-esse) dello studente è afferrato e messo dentro (inter-) qualcosa che lo aiuta a vivere meglio.

 

Gli insegnanti capaci di creare questo collegamento tra «mondo» e «materia», abituati a trasformare ciò che insegnano in segnaletica orientativa per la vita del ragazzo, non hanno problemi di disciplina, perché il ragazzo si aggrappa a quelle parole, come bussola. Ne sono esempio i docenti che riescono in scuole delle periferie nostrane (C. Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca e S. Dai Pra’, Quelli che però è lo stesso) o francesi (D. Pennac, Diario di scuola o F. Bégaudeau, La classe ), o americane (F. McCourt, Ehi prof!). Sono «i migliori» e ha ragione a dire che questo è un parametro essenziale di valutazione, perché sulle conoscenze siamo già stati esaminati nei concorsi ma, come «costruttori di un ambiente» di lavoro e scoperta, capaci, come postini, di recapitare l’argomento in questione proprio a quell’alunno con quelle caratteristiche, possiamo essere giudicati solo «in classe». In questo sono veri maestri i bravi insegnanti di scuole professionali, istituti tecnici, o collocate in ambienti socialmente più complessi, e sono i primi da sostenere in un progetto di riforma.

 

Valutateci in classe: è lì che diamo il meglio (o il peggio) di noi stessi.

 

 

Alessandro D'Avenia

http://www.lastampa.it

 

 

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