Attraverso la breve esistenza di Tha√Øs, malgrado la sua malattia, ho scoperto che la vita poteva essere bella, anche se difficile. Ho pianto tanto, ma non mi sono mai ribellata, perché non mi sono mai posta la questione del 'perché'. Ho sempre mirato a sapere come procedere. La fede ha illuminato tutta questa prova come una lampada.
L’editore francese ha esitato a pubblicare la storia autobiografica della giornalista Anne-Dauphine Julliand, turbato non soltanto dalla vicenda in sé, la malattia e la morte di una bambina di tre anni, ma anche per l’atteggiamento della madre, autrice del racconto, che poteva sembrare quasi allucinato nella scelta di vedere il lato migliore delle cose, nella caparbia costruzione di occasioni di gioia per la piccola Thaïs. Eppure questa guerra d’amore contro la disperazione ha conquistato il cuore dei lettori, e Due piccoli passi sulla sabbia bagnata (Bompiani, pp.242, euro 16,00) è diventato un best seller.
Ecco la storia: Anne-Dauphine e Loic, una solidissima coppia, hanno un figlio di quattro anni, Gaspard, e una figlia di due, Thaïs, che si scopre affetta da una rara e fatale malattia genetica, proprio mentre aspettano un’altra figlia, che alla nascita risulta anch’essa malata. Ferventi cattolici entrambi, non cedono alla disperazione e riorganizzano la loro vita attorno a continui ricoveri ospedalieri, per assicurare a Thaïs cure palliative che rendano meno dolorosa la breve esistenza che le rimane, e per sottoporre a terapie precoci la neonata Azylis, nel tentativo d’impedire lo sviluppo della malattia. Una situazione tragica, ma vissuta da tutta la famiglia in una sorta di cerchio magico al cui interno c’è posto soltanto per la luce dell’amore. Thaïs è morta dopo un anno e mezzo, avendo perso ad uno ad uno tutti i sensi, ma non la capacità di amare. E i genitori hanno avuto il coraggio di cercare un altro figlio, Arthur, fortunatamente nato sano. Ma di questo, e della sopravvivenza di Azylis sebbene con un handicap motorio, Anne-Dauphine non parla nel suo libro. «Non ho scritto questo libro per raccontare la tragedia di una famiglia» ci spiega « ma per condividere un’esperienza di vita, per proporre una certa visione della vita. Attraverso la breve esistenza di Thaïs, malgrado la sua malattia, ho scoperto che la vita poteva essere bella, anche se difficile. Ho voluto parlare di tutte le belle cose che si possono fare per amore». Scrive: «Devo avere fiducia, facendo leva sugli elementi positivi in nostro possesso». Questa sua capacità di pensare sempre positivo è innata, o ha dovuto svilupparla per ragioni di sopravvivenza?
«Ho sempre avuto un’attitudine alla felicità, sono naturalmente ottimista, ma non sarebbe stato sufficiente per attraversare una tale prova. Apprendendo la malattia di Thaïs, mio marito ed io abbiamo deciso che non avremmo subito la vita che ci si prospettava, ma che l’avremmo vissuta a fondo. Abbiamo promesso a Thaïs che avrebbe avuto una bella esistenza e avremmo fatto di tutto perché fosse felice. Per mantenere questa promessa abbiamo dovuto imparare a pensare in un modo diverso, per vedere la vita in modo diverso. Abbiamo fatto nostra la frase del professor Bernard: 'Bisogna aggiungere vita ai giorni, quando non si possono aggiungere giorni alla vita!' Ci siamo fissati sull’essenziale: la vita stessa. Le semplici gioie quotidiane, la felicità dello stare insieme. Abbiamo vissuto questo periodo senza proiettarci nell’avvenire, ma avanzando un passo dopo l’altro. E, grazie a Thaïs, abbiamo capito che una vita, per breve che sia, non è mai piccola». Questa vostra forza può apparire sovrumana, e in effetti nasce dalla fede. Ma una fede messa così a dura prova, può non vacillare?
«Ho pianto tanto, ma non mi sono mai ribellata, perché non mi sono mai posta la questione del 'perché'. Ho sempre mirato a sapere come procedere. La fede ha illuminato tutta questa prova come una lampada che faceva luce sul ripido sentiero di montagna sul quale dovevo arrampicarmi. Credere in Dio non attenua la sofferenza umana, ma permette di vedere ciò che accade da un altro punto di vista, conferendo una dimensione in più. Non ho mai pensato che Dio mi abbia imposto una disgrazia, ma che mi proponesse di accompagnarci, di essere insieme a noi nel viverla. E in quel doloroso percorso abbiamo sempre percepito la compassione di Dio». Qualcuno vi avrà accusato di egoismo, perché avete fatto nascere dei figli ad alto rischio di vivere nella sofferenza: qual è la sua risposta?
«È una questione molto delicata. La sofferenza di un bambino è una delle cose più difficili da accettare, secondo Dostoevskij rende il mondo un’assurdità. Ma la vita di Thaïs ci ha portato a vedere le cose diversamente, perché i bambini di fronte al dolore hanno una reazione che ci supera. Thaïs aveva crisi dolorose, ma piangeva soltanto durante le crisi, per il resto viveva l’istante presente, senza compiangersi. È uno dei più begli insegnamenti che abbiamo tratto dalla sua vita. L’insufficienza dei farmaci nel toglierle il dolore mi faceva sentire impotente, finché abbiamo capito che le medicine non sono l’unico analgesico: c’è sempre la forza dell’amore. Ogni madre, quando un figlio si fa male, non si limita a disinfettarlo, ma lo prende in braccio e lo coccola. Noi con Thaïs abbiamo amplificato questo comportamento istintivo: più soffriva, più la consolavamo con il nostro amore. Perciò in nessun momento noi abbiamo sofferto a causa di Thaïs, ma insieme a lei, questo è l’amore vero che abbiamo sperimentato. E oggi posso dire che il dolore e la felicità non sono incompatibili. Questa felicità è accessibile a tutti perché si appoggia sull’amore, quello che si riceve e quello che si dà».
Daniela Pizzagalli
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