Un'antica tradizione giapponese ci aiuta a guardare le nostre ferite (e le sofferenze passate) da un'altra prospettiva...
Inizierò questo articolo con un aneddoto. Si dice che quando san Girolamo era un novizio, in un momento di disperazione in cui sentiva di aver perso la comunione con Dio, gli apparì Gesù tra i rami di un albero. Avvicinandosi al giovane novizio, gli disse: “Girolamo, cosa puoi darmi?”. Il ragazzo elencò allora tutto ciò che gli veniva in mente: dalle cose che aveva fatto bene quel giorno, fino a ciò che possedeva, ma niente! Nulla di ciò che diceva era sufficiente. Gesù continuava a porgli la stessa domanda, ma Geronimo non poté dare una risposta convincete. Il ragazzo, preso da sconforto, ammise di aver già detto tutto ciò che poteva offrire. Poi si chiuse in un profondo silenzio, e nel “deserto” il Signore gli disse: “Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi i tuoi peccati in modo che io possa perdonarli”.
Ho preso questo racconto dal libro “A merced de su gracia” di André Louf (da cui prenderò altre citazioni. A proposito, è un libro che vale la pena leggere) per arrivare a dire che “nessuno può conoscere il proprio peccato senza conoscere nello stesso tempo Dio. Non prima, non dopo, ma nello stesso istante, in una stessa intuizione di grazia”.
Se preghiamo regolarmente e siamo relativamente vicini a Dio ci rendiamo conto, come San Girolamo, che la nostra disperazione ha radici nella perdita di grazia. È un momento profondamente doloroso. Ci siamo sforzati duramente per essere buoni e amare e non c’è nulla di significativo che abbiamo fatto che ci abbia messi in questa situazione; con un grande senso di impotenza e di frustrazione, quindi, iniziamo a ribellarci a Dio. Proviamo una forte necessità di fare qualcosa, ma non sappiamo cosa. Nei momenti di lucidità abbiamo un’intuizione e ci sentiamo bisognosi, ma purtroppo questa sensazione scompare rapidamente e improvvisamente, e noi torniamo a occuparci degli stessi impegni quotidiani: andare avanti, soddisfare noi stessi ed essere attivi. Succede sempre così, perché ci viene naturale pensare che, se vogliamo recuperare la grazia perduta, dipende da noi e dai meriti nostri. Raramente, se non mai, offriamo al Signore il nostro “nulla”, la nostra miseria e il nostro peccato.
“Quando facciamo di tutto per contrastare la nostra debolezza, la potenza di Dio non può lavorare dentro di noi. Possiamo sforzarci per correggere, anche se solo un po’, la nostra fragilità, ma a essere sinceri non serve a nulla. Perché la meraviglia del potere di Dio e della nostra conversione non è alla nostra portata. Cerchiamo di risolvere i nostri problemi con buona volontà e generosità. Facciamo del nostro meglio per vivere una vita virtuosa e giusta… Tutto questo dura fino al momento in cui stiamo per perdere tutto, in cui siamo sul punto di affondare. Grazie a Dio, perché senza questo non ci saremmo potuti convertire e saremmo rimasti al servizio delle nostre illusioni, ignorando la vera fede, anche se piccola come un granello di senape. Arriverà un momento in cui dovremo perderci, affinché possiamo sperimentare concretamente la nostra debolezza, la debolezza in cui la potenza di Dio può manifestarsi”.
Toccare il fondo, essere feriti, avere cicatrici, essere fragili… tutto ciò è esattamente il contrario dell’ideale di santità che spesso ci troviamo a imporre. Per quanto ci sembra naturale cadere (perché su, è umano!), insistiamo ostinatamente a nascondere le ferite, perché dimostrano la nostra sconfitta. Ma arriva un momento in cui non è più possibile farlo, e noi stiamo male dentro. Chi può vantarsi di aver sempre vinto? Chi può dire che non è mai stato ferito? Chi può, essendo in frantumi, voler apparire superbamente intatto?
Dobbiamo accettare il fatto che noi abbiamo delle ferite (molte). Alcune dipendono dai nostri peccati, altre invece dalla nostra stessa umanità: ferite che non chiediamo, ferite che abbiamo ereditato, abbiamo anche delle ferite “buone” come le ferite causate dall’avere amato. Vi potreste chiedere dove sto andando a parare. Tutto ciò mi continuava a ronzare in testa, fino al giorno in cui mi sono imbattuto in questo:
Quella che si vede in questo vaso è un antica arte giapponese chiamato kintsugi (Èáë Á∂ô „Åé) in giapponese “riparare con l’oro”. È l’arte di ricomporre dei vasi in ceramica rotti con della vernice in resina miscelata con oro, argento o platino. Fa parte della filosofia che afferma che la rottura e le riparazioni sono parte della storia di un oggetto e vanno mostrate, invece che tenute nascoste. Devono essere inoltre incorporate all’oggetto stesso in modo da abbellirlo e rivelarne la sua trasformazione e la sua storia.
Una volta letto questo e non potevo fare a meno di parlarne. Abbiamo bisogno di “vantarci” delle nostre ferite, che ci permettono di essere infranti, ci permettono di avere bisogno di riparazione.
Poi ho letto questo tweet: “La ferita è il luogo in cui entra la luce” e ho detto: “Dio, questo è uno dei tuoi scherzi, no?!”. Lui voleva che il concetto fosse chiaro. Voglio condividere ora alcune delle conclusioni a cui sono giunto:
È soltanto nell’umile e pieno riconoscimento della nostra miseria che la grazia di Dio può entrare nella nostra vita; è soltanto quando piangiamo con lacrime amare per il dolore di aver perso il Signore che Lui viene con tutta la sua grazia per guarirci e, con le sue dolci mani, ci ripara rendendoci brillanti come oro e argento. Ci unisce, ci riconcilia e dona bellezza alle nostre ferite. Ma il suo lavoro non finisce qui… la cosa più sorprendente (almeno per me) è che la ferita rimane. Ma non è aperta, non è purulenta. Gesù la lascia visibile nella sua bellezza, ricordandoci quando sia umano essere feriti e quanto sia necessario, ogni giorno, mostrargli quelle ferite, quel desiderio di un amore che si prenda cura di noi, che ci tenga per mano, che ci guarisca, che ci salvi e che renda visibile in noi la storia della nostra vita. Sigillata e profondamente segnata, come la ferita che ci ha infranti, per l’immeritato amore di Dio.
Luisa Restrepo [Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]
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