Quando il relitto è stato pronto a partire, le sirene dei rimorchiatori hanno suonato: una nota lunga e scura, che è parsa saluto ai vivi, e cordoglio per i morti...
Quando il relitto è stato pronto a partire, le sirene dei rimorchiatori hanno suonato: una nota lunga e scura, che è parsa saluto ai vivi, e cordoglio per i morti. Quando la prua, lentissimamente, si è mossa, per un istante la Concordia è sembrata ancora viva. Illusione, certo, giacché la nave non ha più timone, né motori che la spingano. Eppure chi guardava ha sentito in quel momento qualcosa muoversi nel cuore, qualcosa di difficilmente dicibile.
Poi il viaggio è iniziato, e a vederla su uno schermo la nave è parsa una rugginosa elefantessa; o, più gentilmente, una vecchissima dama sorretta per le braccia da due nerboruti maggiordomi. 180 miglia a Genova, a 2 nodi all’ora, è il passo dolente di un corteo funebre; e in effetti la Concordia va a morire. Ma perché allora quell’emozione in chi stava a guardare, perché ingegneri e tecnici abituati a lavorare d’algebra faticavano a non mostrarsi commossi? È una storia di morte quella del naufragio in una notte d’inverno, con i naufraghi in fila come formiche sul gran corpo della nave accasciata, a cercare salvezza. 32 vittime, l’ultima delle quali non è stata ritrovata, e un naufragio sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Dunque, che c’è ora da commuoversi?
Il fatto è che una nave, intanto, non è semplicemente una massa di lamiere; non sapremmo dire come, ma istintivamente una nave, più che materia, sembra qualcosa di vivo. Tanto che la benedizione del relitto, prima della partenza, ci è parsa naturale: quella nave come una casa di vita e di morte, di viltà e di coraggio estremo. Ma il colosso di 72 mila tonnellate che, squarciato, corroso, ora dirige la prua verso nord, tocca in noi, col suo maestoso incedere, altre note segrete. Perché l’epopea del gigante caduto, oltre che di morte, parla di riscatto, e solidarietà, e tenacia umana.
Già lo si è visto quella notte al Giglio, quando 400 isolani, d’istinto, spalancarono le case a 4.000 sconosciuti atterriti. Poi, una gran macchina di gru, catene, casse galleggianti è andata crescendo come una selva intorno a quel corpo inanimato. Pareva impossibile, ma la elefantessa si è finalmente, lentamente rialzata. E chissà quale perseveranza e ostinazione si sono intrecciate per due anni sulla piccola isola, attorno alla mole mastodontica che il mare andava corrompendo. Un giovane sub della squadra sotto alla Concordia ha lasciato la vita. Poi, l’altro giorno, le foto degli interni del relitto, e soprattutto quel pianoforte abbandonato, hanno echeggiato ombre di Titanic; di sciagura senza riscatto, di vittoria, su tutto, della morte. Così come la inutile, finora, ricerca del corpo dell’ultima vittima, portava in sé il sapore di un destino cattivo, che neanche dopo la sua vittoria restituisce gli uomini ai loro affetti.
Ma, appunto, ieri la nave, trainata da cavi possenti, scortata da 14 imbarcazioni, si è mossa, verso un insidioso viaggio. Nulla restituirà le 32 vittime a chi li amava; ma se quella notte d’inverno era stata di dolore e di morte, gli stridii aspri di lamiere con cui la Concordia si è rimessa a navigare dicevano altro: che gli uomini sbagliano, anche tragicamente, ma poi sempre cercano di ricominciare. Insieme, come questa volta, con una squadra arrivata da tutto il mondo, ostinata attorno alla balena di acciaio; dubitando, forse, nei giorni grigi di mare grosso e di inverno, dell’esito di quella sfida così grande. Allora perché dunque ieri ingegneri e tecnici, frequentatori della severa logica dei numeri, faticavano a soffocare in sé una tuttavia percepibile commozione? Forse perché abbiamo nel nostro Dna, prima ancora che nella nostra tradizione, una ostinata avversione alla morte; e inconsciamente cerchiamo sempre una resurrezione. Il lento corteo della gran nave ferita – battente, nell’ultimo viaggio, il tricolore – ci commuove perché tocca questa radice antica, questa indicibile ansia: che la morte, che pure ci insegue e ci cattura, non sia infine l’ultima parola.
Marina Corradi
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