Invece fa più male la realtà immaginata che quella reale. E in un mondo spaventato e prevenuto, la ricerca dell'imperfezione e l'eliminazione del paziente «imperfetto» diventano una comune norma sociale che tutti conoscono: una banalità del male che non sembra turbare più nessuno.
del 12 settembre 2011
 
 
          Ce ne accorgiamo guardandoci in giro: non vediamo più bambini «imperfetti», cioè segnati da malattie genetiche. Censurati dai media, tenuti dalle famiglie al riparo di una società che non li accetta nonostante tanti proclami, ma soprattutto abortiti. Si ricercano a tappeto prima che nascano, e una volta individuati troppo spesso si impedisce loro di nascere. E il grave è che noi di questo setacciare e selezionare non ci stupiamo più: è la norma.
          I dati sono significativi. Il registro sulle malformazioni congenite dell’Emilia Romagna — tra le poche fonti italiane consultabili — rivela che il tasso di aborto dei feti con sindrome Down è oltre il 60 per cento del totale (e sopra il 70 se consideriamo solo le donne italiane); oltre il 50 per cento delle bambine con sindrome di Turner (bassa statura e bassa fertilità) sono abortite. Nel primo caso si tratta di un ritardo di sviluppo intellettivo, nel secondo di un ritardo fisico: motivi sufficienti per eliminarli?
          Dal registro europeo Eurocat addirittura si vede che per i casi di schisi orofaciale — una lesione del labbro o del palato, quindi una condizione lieve e operabile — il tasso di aborti è oltre il 10 per cento. In Francia il 96 per cento dei feti Down è abortito, e recentemente un deputato parigino dichiarava in Parlamento: «La vera domanda che mi faccio è: perché ne rimane il 4 per cento?». Sulla rivista «Archives de Pédiatrie» nel 1996 veniva lanciato un j’accuse contro l’eliminazione prenatale dei feti sulla base di una futura bassa statura, anche questa una caratteristica drasticamente diminuita dal panorama sociale, e non certo perché si è trovata una cura.
          La chiamano prevenzione secondaria, e si moltiplicano i servizi per incrementarla. In molti Stati viene proposta a tutte le donne incinte la ricerca di fattori indicativi di sindrome Down nel feto nel sangue materno o con amniocentesi o misurando a tutti i feti gli indici di sindrome Down (plica nucale, osso nasale) durante le comuni ecografie, eseguendo così uno screening genetico prenatale indiretto. Genitori e medici dovrebbero riflettere: cercare un responso diretto o indiretto sui cromosomi del feto quando si è ancora in tempo per abortire ma assolutamente non in tempo per curare è per lo meno ambiguo, almeno se si crede nella sacralità della persona umana.
          La scomparsa degli individui con disabilità genetica dal panorama sociale è dovuta anche a un altro motivo: l’incapacità della società di accettare culturalmente il diverso e il pudore delle famiglie, che si sentono una sorta di fuorilegge genetici, e quindi tengono tra le mura domestiche il figlio malato. Il calo numerico ottenuto per selezione prenatale o per emarginazione sociale produce una conseguenza: bloccare la ricerca di terapie. Se ci fosse un investimento economico per curare le malattie genetiche pari a quello che si stanzia per non far nascere i malati, otterremmo notevoli progressi.
          Le malattie genetiche sono certo indesiderabili, ma non devono rendere indesiderabile il malato stesso. Aprono prospettive di vita dura, ma davvero così invivibile come si dipinge? Studi scientifici mostrano che paradossalmente i malati, se le condizioni esterne non sono di rifiuto, danno alla loro vita un punteggio di qualità più alto che altri loro coetanei. È il caso degli adolescenti con spina bifida («Quality of Life Research» 2006) o di quelli con grave disabilità fisica («Quality of Life Research» 2005). Anche la qualità di vita dei soggetti Down è molto maggiore di quanto i media mostrino, secondo quanto scrive l’importante rivista «Social Science and Medicine» (settembre 2001). Questo vuol dire che il malato non è definito dalla sua malattia, ma piuttosto dall’ambito sociale in cui è immerso, come mostra uno studio sulla valutazione della vita dei disabili mentali appena pubblicato negli Stati Uniti. È su questo piano che si deve intervenire economicamente e culturalmente.
          Più solidarietà, dunque. E solidarietà significa anche informazione, che così spesso è invece sbilanciata, tanto che ad esempio in Francia le associazioni dei malati — cioè coloro che realmente hanno il polso della malattia — sono tenute per legge lontane dal percorso informativo per le donne che affrontano una gravidanza che può diventare indesiderata per l’imperfezione del feto. E i media tracciano un ritratto della disabilità che raramente si allontana dalla sterile compassione, quando addirittura non inseriscono il disabile in trasmissioni sensazionalistiche di dubbio gusto.
          Invece fa più male la realtà immaginata che quella reale. E in un mondo spaventato e prevenuto, la ricerca dell’imperfezione e l’eliminazione del paziente «imperfetto» diventano una comune norma sociale che tutti conoscono: una banalità del male che non sembra turbare più nessuno.
 
Carlo Bellieni
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