Oggi 19 marzo ricorre la festa di San Giuseppe. Con don Tonino Bello ci immaginiamo di entrare nella sua bottega da falegname e dialogare con lui.
Caro San Giuseppe,
scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole. Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte. Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
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Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante rapidità, squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti. Non parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero.
Si, Giuseppe! È proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.
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Ma se oggi qui da noi, in questo crepuscolo tormentato del secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché sparite non è solo perché non si genera più e neppure perché non si ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la carezza.
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Oggi purtroppo da noi, non si carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce.
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Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita.
E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta.
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Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.
Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
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L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’ stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua, vino e pane!
Si è fatto tardi, Giuseppe.
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E poi c’è Maria che ti aspetta.
Ti prego, sfiorala con un bacio, falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da morire!
Buona notte, Giuseppe!
Sintesi tratta da: La carezza di Dio, di don Tonino Bello
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