“Certezza”: una parola che può fare paura. Una parola che non è alla moda. Nella confusione dei nostri giorni, cosa tiene? «Ho ricevuto la vita per dare la vita»: stralci dalla lezione del filosofo francese Fabrice Hadjadj.
del 05 settembre 2011
 Stralci dall'intervento 'L’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità' Meeting di Rimini, 25 agosto 2011
 
          C’è una parola che si trova al cuore del Meeting di quest’anno e che si ritrova anche nel titolo che è stato dato alla mia conferenza. È in sé stessa una parola forte, decisa, senza esitazione. Come se non bastasse, la si accompagna con alcuni aggettivi che la rendono ancora più implacabile: “immensa”, “inevitabile”. Avete capito che sto parlando della parola “certezza”.
          Una parola che può fare paura. Una parola che non è alla moda. E dunque rincarare la dose e parlare di “immensa certezza” o di “inevitabile certezza” vuol dire inimicarsi per sempre tutti gli adepti del dubbio, del relativismo, dei sondaggi di opinione. Costoro non hanno del tutto torto: da una parte, siamo nell’epoca delle incertezze, ora più che mai ignoriamo di che cosa sarà fatto l’avvenire, non siamo neanche sicuri che un avvenire ci sarà; d’altra parte, le certezze ideologiche del XX secolo ci hanno mostrato la loro essenza totalitaria, hanno distrutto la libertà ed organizzato la distruzione dei popoli. [...]
          Senza dubbio conviene riferire la certezza ad una fermezza, una solidità, ma questa solidità non è quella della nostra pietrificazione, è quella del nostro cammino. È la solidità del suolo che permette di avanzare. Ciò che invece impedisce la marcia, ciò che soffoca la vita, non è la certezza, ma il dubbio. [...] Da questo punto di vista, è normale passare per l’incertezza. Ma l’incertezza non è una finalità perché l’incertezza è la vera pietrificazione. Un uomo incerto della solidità di un ponte non si azzarderà ad attraversarlo. Segnerà il passo. Così gli scettici in teoria, sono sempre conformisti nella pratica. Criticano tutto, ma, siccome non c’è per essi alcuna certezza che permetta di liberare l’esistenza, non cambiano niente. [...]
          La modernità si era messa sotto il segno dell’umanesimo. Il suo nome non lo indica direttamente. Modernus, in latino, significa “recente”. È l’aspetto negativo della modernità: quello della rottura con gli Antichi, con la tradizione di un tempo. Il problema è che riducendosi al culto del recente, la modernità non può che mutilare sé stessa ed essere ricondotta soltanto a moda. La moda è sempre novità caduca. [...]
          Dopo la distruzione della certezza moderna, nel mezzo dell’incertezza postmoderna, legata alla coscienza della scomparsa probabile, imminente, della specie umana, quale immensa certezza ci rimane? Oramai, se la nostra fede si fonda solamente su un’ideologia o un reclutamento, non può più tenere. Don Giussani l’aveva compreso molto bene. E per questo esigeva che ciascuno ripartisse dalla propria esperienza più concreta, e per questo reclamava che ciascuno pensasse a partire dal semplice fatto dell’esistenza. Ed eccola l’immensa certezza: c’è qualche cosa e non niente; io sono qui, tu sei qui, e abbiamo sotto i nostri occhi queste cose semplici, ma misteriose per il solo fatto che sono qui, giusto davanti a noi, questo tavolo, questo bicchiere, queste luci elettriche e soprattutto, all’esterno, la luce del giorno... [...]
          Questa è dunque l’immensa ed inevitabile certezza dell’esistenza: ho ricevuto la vita per dare la vita, e questo dono esige una speranza che vada oltre questo mondo ed attraversi la sua oscurità. Perché questa oscurità, mi chiederete? Se potessi rispondervi chiaramente, questa oscurità non sarebbe più tale. Ciò che posso tuttavia intuire è che questa oscurità non è soltanto una privazione di luce, ma è anche la possibilità di partecipare all’opera della luce. Dio, nella sua generosità, non vuole solamente offrirci una strada, vuole anche che apriamo un passaggio nell’impasse. Non vuole solamente che siamo rischiarati; vuole anche che facciamo noi stessi chiarore. Non vuole solamente darci la vita; vuole anche che la diamo là dove sembra regnare solamente la morte. Ecco perché la sua benedizione può apparire come una maledizione. C’è bisogno di chi faccia chiarore solo dove non c’è abbastanza luce. C’è bisogno di chi apra una via solo dove si rischia un passo nel vuoto. [...]
          Se non ci fosse questa oscurità, se per esempio tutto fosse dissodato, tracciato, masticato in anticipo, Dio sarebbe meno generoso. Saremmo i prodotti della sua opera e non i collaboratori alla sua opera. Ora Lui ci vuole cooperatori. [...] Immaginate un solo istante che ciascuno possedesse la certezza di Dio come un auricolare che lo mettesse direttamente in comunicazione con lui: ciascuno starebbe chiuso nella sua bolla; non avremmo più bisogno gli uni degli altri, non dovremmo più a credere nella luce in modo da vederla apparire sui nostri volti e farla risplendere nelle tenebre. Ma Dio vuole una certezza di cui noi siamo i cooperatori, un suolo stabile che possiamo dispiegare fin nel vuoto dell’avvenire, attraverso tutto il nostro essere. [...]
          Ecco l’immensa certezza dell’esistenza, immensa perché è lacerante e ci chiede di scendere tra quelli stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte. Ma adesso possiamo qualificare questa certezza con un altro aggettivo: non soltanto l’aggettivo “inevitabile” e neanche soltanto l’aggettivo “immenso”, ma un terzo aggettivo che riassume ciò che volevo tratteggiare oggi, ed è l’aggettivo “apocalittico”. La certezza dell’esistenza è una certezza apocalittica.
 
Fabrice Hadjadj
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