La Corte europea dei diritti dell'uomo si è allineata a quella tendenza che privilegia gli interessi della coppia e che pone sotto silenzio il problema della tutela della vita nascente, specie quando è malata. La legge 40, invece, aveva messo al centro non solo l'interesse della coppia, «ma anche il valore dell'embrione umano». Per questo si era vietata la selezione degli embrioni.
Ieri, martedì 28 agosto, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha reso pubblica la decisione di una propria sezione nel giudizio instaurato contro l’Italia dai signori Costa e Pavan. Si tratta di una coppia che, pur non essendo sterile, desidera ricorrere alla procreazione artificiale, in quanto portatrice di malattie genetiche, e per l’occasione sottoporre gli embrioni creati in vitro alla diagnosi pre-impianto, e cioè a un’indagine sulla salute degli stessi, al fine di scartare quelli ritenuti «non sani». Tali possibilità sono precluse dalla normativa italiana sulla procreazione artificiale, la legge 40 del 2004 che, da un lato, all’articolo 4 circoscrive il ricorso a tale procreazione «ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico»; e, dall’altro, vieta all’art. 13 qualsiasi forma «di selezione a scopo eugenetico degli embrioni». Queste norme hanno il chiaro scopo di evitare che la procreazione artificiale, da strumento volto a risolvere i problemi posti dalla difficoltà della procreazione naturale, possa essere invece utilizzata con finalità eugenetiche.
E qui vale la pena ricordare l’accostamento fatto da Jürgen Habermas fra la diagnosi pre-impianto e «i pericoli evocati dalla metafora di una "eugenetica selettiva" sulla razza umana», dal momento che con tale indagine «l’esistenza o non esistenza viene decisa in base al criterio di un potenziale "essere così" piuttosto che altrimenti»). Il giudizio proposto davanti alla Corte europea costituisce l’ennesimo dei tentativi di scardinare i paletti fissati alla procreazione artificiale dalla legge 40 che, una volta fallita la via del referendum, si sono intensificati sul versante giudiziario, con un proliferare di processi nei quali si è cercato di superare, talora con qualche successo, le norme concernenti il numero massimo di embrioni creabili per ogni ciclo di procreazione, il divieto di congelazione degli stessi, il divieto di procreazione eterologa e, come nel caso in esame, i limiti all’accesso alla Pma e il divieto di diagnosi pre-impianto. I ricorrenti hanno chiamato la Corte europea a esprimersi sulla propria vicenda senza averla prima sottoposta all’esame dei tribunali italiani.
Con una sentenza che già fa discutere, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha bollato come "incoerente" la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita nella parte in cui pone il divieto di diagnosi preimpianto sugli embrioni. La sentenza accoglie dunque il ricorso dei signori Costa e Pavan, la coppia che, pur non essendo sterile, da tempo desidera ricorrere alla fecondazione artificiale perché, essendo portatrice di una malattia genetica (la fibrosi cistica), in questo modo potrebbe (in via teorica, perché la legge 40 lo vieta) selezionare gli embrioni ottenuti scartando quelli non sani. La richiesta dei due coniugi però è doppiamente impossibile per la legge italiana, che limita l'accesso alla Pma alle coppie sterili e, appunto, proibisce la selezione embrionale. Secondo i giudici della Corte di Strasburgo, la cui decisione diverrà definitiva entro tre mesi se nessuna delle parti farà ricorso per ottenere una revisione davanti alla Grande Camera, tuttavia, "il sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto degli embrioni è incoerente" in quanto allo stesso tempo un'altra legge dello Stato permette alla coppia di accedere a un aborto terapeutico. In realtà la legge 194 consente sì l'aborto terapeutico (dopo i 90 giorni), ma a determinate condizioni, cioè se quella malattia costituisce un "grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna", e dopo un iter di verifica ben preciso, e non certo "semplicemente" perché il bambino è malato. La Corte europea, comunque, ha stabilito che cosi com'è formulata la parte della legge 40 in questione ha violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare di Rosetta Costa e Walter Pavan a cui lo Stato dovrà per di più versare 15 mila euro per danni morali e 2.500 per le spese legali sostenute. Desta sorpresa la lettura della sentenza. "Il governo italiano - si legge - ha giustificato l'interferenza al fine di tutelare la salute dei bambini e le donne, la dignità e la libertà di coscienza degli operatori sanitari ed evitare il rischio di eugenetica". Motivi che a prima vista sembrerebbero degni di rispetto e di consenso. Invece no, secondo la Corte, che arbitrariamente rileva che "i concetti di 'embrione' e 'bambino' non devono essere confusi". Non si comprende, scrive ancora la Corte, come, nel caso di malattia del feto, "un aborto terapeutico possa conciliarsi con le giustificazioni del Governo italiano, tenendo conto tra l'altro delle conseguenze che questo ha sia sul feto sia, specialmente, sulla madre". A maggior ragione, verrebbe da dire, proprio in virtù delle conseguenze dell'aborto terapeutico, sarebbe auspicabile che la legge 194 fosse rispettata in tutte le sue righe, compresi i limiti all'interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni.
La sentenza della Corte UE non cancella il problema etico della diagnosi preimpianto
“La sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, non definitiva perché suscettibile di rivisitazione alla Grande Chambre, non cancella le problematiche etiche connesse alla diagnosi genetica preimpianto”, commenta Lucio Romano, Presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.
“È bene ricordare – sottolinea Romano – che da genitori portatori di fibrosi cistica il 25% dei bambini ha probabilità di nascere malato, il 50% probabilità di nascere sano ma portatore e il 25% probabilità di nascere sano e non portatore. Con la tecnica della diagnosi genetica preimpianto, che richiede necessariamente una sovrapproduzione di embrioni, è implicito che anche embrioni sani, portatori e non, saranno soppressi”.
“Inoltre, - continua Romano - giustificare la diagnosi genetica preimpianto sulla base di un ‘riconosciuto’ diritto all’aborto esplicita tangibilmente la finalità selettiva eugenetica della tecnica stessa. Infatti, si pongono sullo stesso piano criteriologie diverse: norme che regolano tecniche di fecondazione artificiale con quelle che normano l’interruzione volontaria di gravidanza”.
“La legge 40 non è una legge né ideologica né confessionale, ma pensata per la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, ivi compresi quelli del concepito”, conclude Lucio Romano. “La sentenza della Corte europea rivela invece un atteggiamento di riduzionismo antropologico e di discriminazione nei confronti dell’embrione, considerato meramente ‘materiale di laboratorio’, in palese contraddizione con la recente sentenza europea in materia di brevettabilità degli embrioni che riconosce la dignità di essere umano anche al concepito”.
Filippo Vari, Antonella Mariani
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