Il dibattito periodicamente torna e in questi mesi in particolare in Italia la riflessione sull'eutanasia si è riaccesa. Morte buona o paura della morte e del dolore? La vera attenzione alla dignità della persona dove abita?
del 13 dicembre 2006
Abbiamo intervistato il Dott. Giovanni Poles, medico che a Mestre (Ve) esercita la sua professione da diversi anni e proprio tra gli anziani e gli ammalati terminali. Proprio a partire dalla sua esperienza accanto a chi soffre e muore, gli abbiamo chiesto di offrirci alcune precisazioni ma anche di condividere ciò che la sua esperienza gli ha permesso di capire.
 
- Si parla spesso di diritto alla vita, nella cultura attuale però rischiano di esserci visioni ambigue…
 
In un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato, in particolare nei momenti emblematici dell'esistenza, quali il nascere ed il morire. Le radici di una tale contraddizione si riscontrano in alcune valutazioni di ordine morale e culturale, iniziando dalla mentalità che riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta in piena autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. La vita viene giudicata degna di essere vissuta secondo criteri di vivibilità che rispondono a concezioni individualistiche (..la vita è mia e ne faccio ciò che voglio...) o derivate dal contesto socio-culturale del momento.
Eutanasia, aborto o infanticidio trovano il loro fondamento, quantomeno in linea di principio, in tale visione.
 
- Che cos'è l'eutanasia ?
 
Il termine eutanasia deriva dal greco “eu tanatos” che significa morte buona. In origine ha quindi un significato positivo. Nel tempo però il significato si è trasformato, ha assunto una valenza negativa intendendosi la morte causata al fine di interrompere ogni sofferenza . Per eutanasia intendiamo quindi ogni azione o omissione volontaria finalizzata a questo scopo, anche quando a chiederlo sia l'ammalato.
Non mi è mai capitato, in tanti anni di professione svolta tra i malati terminali, che qualcuno mi chiedesse di porre fine alla sua vita. Chi si trova in questa condizione chiede di non essere abbandonato, di essere seguito ed accompagnato da chi lo circonda a partire dai sanitari che lo hanno in cura. L'ammalato in questi casi dipende totalmente dagli altri. E' necessario quindi capire la dipendenza a partire dalla dimensione dell'accoglienza e delle responsabilità.
 
- Che cos'è l'accanimento terapeutico ?
 
Con il termine accanimento terapeutico si intende qualsiasi intervento medico che causi ulteriore sofferenza al paziente e che sia totalmente inefficace.
Talvolta questo può accadere, anche se non voluto, quando il medico non ha il coraggio di fermarsi o i familiari vogliono che venga fatto di tutto anche se non c'è più alcuna possibilità, specialmente se ci si trova di fronte ad una persona giovane. Questo è umanamente comprensibile ma non sempre è giusto perchè a rimetterci è l'ammalato.
 
- Cosa dice e come si pone nei confronti di un ammalato giunto agli ultimi giorni di vita ?
 
Compito del medico è quello di curare chi sta male, anche quando la guarigione non è più possibile. Curare vuol dire farsi carico dell'altro nella sua globalità di persona, sia per quanto riguarda l'aspetto strettamente medico ma anche quello umano.
A volte, di fronte a chi soffre non servono molte parole : basta uno sguardo, un gesto, una carezza o un sorriso.
 
- Perchè ha scelto di fare il medico ?
 
Credo che in ciascuno di noi ci sia il profondo desiderio di fare qualcosa di utile per gli altri.
Forse questa è stata la motivazione principale che mi ha spinto a fare il medico. Poi, con gli anni, lo stare accanto ai malati di cancro e ai loro familiari mi ha fatto crescere professionalmente e umanamente. Mi ha insegnato ad accettare la fatica, ad avere speranza, a non negare mai un sorriso, a non scoraggiarmi di fronte alle piccole battaglie perse e a lasciare sempre una porta aperta per chi ha bisogno, anche quando costa fatica.
 
 
- Può essere considerata una vocazione ?
                    
La vocazione è l'atteggiamento che nasce dalla tensione a vivere la propria vita come servizio per gli altri. In tal senso la professione che uno svolge, specialmente se porta al contatto quotidiano con altre persone, come nel caso del medico, dell'insegnante ecc., è il mezzo che ti permette di realizzare tutto ciò. L'importante è averne la consapevolezza!
 
- Ha una testimonianza da condividere ?
 
Mi raccontava una volta una giovane madre affetta da cancro, poco prima di morire, di come la malattia avesse trasformato la sua sensibilità ed il suo stato d’animo. Ormai da tempo, stava sperimentando la gioia di riscoprire persone, cose e situazioni che, quando stava bene, le passavano inosservate sotto gli occhi nella vita di tutti i giorni.
La città, gli amici, le parole, i gesti, tutto si era trasformato, tutto le era più familiare e vicino da quando si era ammalata. Il semplice sentire era diventato ascoltare, il vedere era diventato guardare. Ringraziava Dio per questi doni. Questa giovane madre, in quel momento, mentre viveva tutta la fragilità della condizione umana, era testimone di Speranza.
 
- Lei incontra quotidianamente molte persone che soffrono. Ma ha un senso la sofferenza ?
 
Negli anni, la mia attività di medico accanto ai malati gravi ed il ricordo di questa giovane madre, mi hanno più volte fatto pensare a quanto sia difficile accettare e dare senso alla sofferenza. E’ però vero che, molto spesso, solo l’esperienza del dolore o lo stare accento a chi soffre porta a cogliere la vita come un dono. Un dono prezioso del quale siamo custodi. Ma appunto perché prezioso, non può essere scontato come usualmente pensiamo. Chi soffre sperimenta e vive la dipendenza nei suoi vari aspetti (assistenziale, psicologica, affettiva, ….). Capire la dipendenza e cogliere il dolore nella sua dimensione globale rappresenta il primo passo per stare vicino a chi soffre in un rapporto di reciproca crescita. Per un cristiano tutto ciò forse non basta ancora, non è sufficiente a dare un senso, a sostenere la speranza di fronte alla sofferenza.
 
- E proprio da cristiano, l' esperienza che vive come la interroga?
 
A tal proposito mi colpirono in modo particolare le parole che alcuni anni fa sentii pronunciare da Giovanni Paolo II in uno dei suoi discorsi. Egli affermava che la sofferenza è scuola di grandezza morale, di motivazione spirituale e, nella sofferenza, si legge il disegno misterioso di Dio la cui chiave di lettura è la Croce di Cristo. Ho riflettuto a lungo su queste parole e una cosa mi è parsa sorprendente: Gesù ha sperimentato la sofferenza ed il dolore in prima persona, senza nessun privilegio, nel vivo della sua vicenda umana, in modo drammatico. Ha ripercorso lo stesso cammino di tutti gli uomini. Chi vive l’esperienza dolorosa della sofferenza trova in Cristo che muore sulla croce ma risorge a Pasqua, una risposta, un motivo di speranza. Con la sua scelta di condivisione Egli si è schierato dalla parte dei malati, dei deboli, dei sofferenti.
A noi, cristiani del nostro tempo, il compito di vivere in questa consapevolezza, di essere strumento e volto attraverso il quale anche gli altri possano incontrare Cristo.
 
[I testi del Magistero potrebbero essere messi in una colonna riquadrata a lato della pagina….,
oppure due riquadri relativi ai due documenti riportati]
 
Dai documenti…
Il magistero della Chiesa ha il compito di illuminare le coscienze dei fedeli. I suoi pronunciamenti nascono dopo attente riflessioni e confronti con il mondo culturale e scientifico, e naturalmente in una relazione viva con la parola di Dio e la tradizione, nell’invocazione dello Spirito Santo per discernere come vivere oggi gli inviti di Gesù.
Scorriamo alcuni riferimenti in documenti ufficiali della Chiesa su questo tema:
 
Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione su eutanasia, 5 Maggio 1980.
 
II L’eutanasia
[…] Per eutanasia s'intende un'azione o un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati.
Ora, è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di un'offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l'umanità.
Potrebbe anche verificarsi che il dolore prolungato e insopportabile, ragioni di ordine affettivo o diversi altri motivi inducano qualcuno a ritenere di poter legittimamente chiedere la morte o procurarla ad altri. Benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l'errore di giudizio della coscienza - fosse pure in buona fede - non modifica la natura dell'atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile. Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l'ammalato ha bisogno è l'amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri.
 
IV L’uso proporzionato dei mezzi terapeutici
È importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che rischia di divenire abusivo. Di fatto, alcuni parlano di 'diritto alla morte', espressione che non designa il diritto di procurarsi o farsi procurare la morte come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana. Da questo punto di vista, l'uso dei mezzi terapeutici talvolta può sollevare dei problemi.
[…]Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all'uso dei mezzi 'straordinari'. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l'imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi 'proporzionati' e 'sproporzionati'. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell'ammalato e delle sue forze fisiche e morali.
[…] Nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.”
 
NB: Che non significa non assistere o privare di cure chi fosse già in stato vegetativo, interessante a tal proposito il documento: - Riflessioni sui problemi scientifici ed etici relativi allo stato vegetativo del 18 Aprile 2004.
 
 
Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica, Evangelium Vitae, 25 Marzo 1995.
 
N°64
[…] Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata « assurda » se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una « liberazione rivendicata » quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza.
Inoltre, rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare.
In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine « dolcemente » alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della « cultura di morte », che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.
 
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sr Francesca Venturelli (a cura di)
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