La fotografia come debito etico

Fotografie di catastrofi che rimbalzano sui media, sono così necessarie? Cosa ne possiamo trarre?

La fotografia come debito etico

 

Negli ultimi due giorni ho osservato, come tutti, numerose fotografie del terremoto in centro Italia. Edifici distrutti, centri di accoglienza, soccorritori al lavoro, cumuli di macerie, e soprattutto persone: quelle vive — disperate, tremanti, senza casa — e quelle morte. E come sempre, mi sono chiesto: sono davvero necessarie tutte queste immagini? Ed è davvero necessario ribatterle di continuo sui social media? So che è una domanda banale: la scelta di documentare il dolore è meno problematica che in passato, e spesso si traduce in una moltiplicazione indebita. Questo accade sia per orribili ragioni di cinismo o per un’assuefazione al racconto del male, ma non solo. Forse vi si indulge così tanto anche per una forma di esorcismo. Se lo condivido pubblicamente, posso in qualche modo controllarlo; posso inserirlo in uno schema di denuncia collettiva — lo fanno tutti— benché spesso superficiale. È un rito come un altro, frequentabile in ogni momento con un clic. Allora una domanda migliore potrebbe essere: che cosa ci dicono quelle fotografie? Meglio: in che modo possiamo educare il nostro sguardo affinché ci dicano qualcosa di sostanziale e duraturo?

 

Il modo in cui osserviamo le immagini della catastrofe dovrebbe trasformarsi da un rito collettivo rivolto al passato — una messa digitale che piange la tragedia e poi la rimuove — a un rito collettivo rivolto al futuro, all’impegno, alla prevenzione. Forse non sarà un’osservazione molto originale, ma mentre guardavo una donna ferita e in lacrime accanto alle rovine, pensavo che il nostro diritto di osservare quel dolore doveva essere ripagato con un dovere: quello di evitare che un simile dolore accada di nuovo in futuro. Altrimenti è tutto vano. La fotografia come debito etico: ecco, questo è quanto è accaduto; mai è stato così facile vederlo e farlo vedere ad altri; ora che si fa?

 

Il punto è che guardando o condividendo uno scatto — i due atti sono spesso inseparabili — ci sentiamo più vicini a chi ha sofferto; ma forse invece ce ne allontaniamo. La sofferenza dei corpi è sempre così disponibile da apparire quasi astratta: e la coazione a riprodurla finisce in se stessa. Non crea una comunità attiva ma solo una comunità passiva, fatta di indignazione sommaria, piuttosto breve, spesso autoassolutoria. Quando ciò che dovrebbe stimolare — e che viene documentato più di rado — sono i gesti concreti di solidarietà, gli aiuti sul campo, la tenacia per portare in salvo i sopravvissuti, e soprattutto un serissimo lavoro di prevenzione. Perché i terremoti non sono prevedibili, ma le aree a pericolo sismico possono e devono essere rese più sicure.

 

Nei giorni successivi ai tragici fatti di Nizza, diversi miei conoscenti hanno citato una frase di Susan Sontag, tratta dal saggio Immagini del disastro: «Viviamo infatti sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». L’attualità di questa affermazione è evidente, e potrebbe essere applicata senza problemi anche al recente terremoto. Come farsi strada nella complessità del mondo e insieme rendere giustizia alla brutalità improvvisa della violenza che lo percorre? La fotografia sembra una risposta ragionevole: è alla portata di tutti, è condivisibile da chiunque in un istante, e all’apparenza non richiede nemmeno troppi ragionamenti. Ma proprio qui sta il problema.

 

Perché pochi citano quanto Sontag aggiunge, identificando nella fantasia un rimedio popolare alla doppia minaccia cui siamo sottoposti: «Una delle cose che la fantasia può fare è di sollevarci dall’insopportabile monotono e distrarci dalle paure — attuali o future — con una fuga nell’esotismo di situazioni pericolose risolte lietamente nell’ultimo minuto. Un’altra cosa che può fare è di normalizzare ciò che psicologicamente è insopportabile, assuefacendoci a esso. Nel primo caso la fantasia abbellisce il mondo, nel secondo lo neutralizza». La scrittrice americana si riferisce innanzitutto ai film di fantascienza a carattere apocalittico, in cui vede una risposta banalizzante della nostra incapacità di reagire al terrore. E quando il disaster movie va in scena nella realtà che ci sta attorno, reagiamo con un mezzo istintivo ma in fondo altrettanto inefficace della fantascienza di cui parla Sontag: spargendo le immagini della catastrofe. La mettiamo in scena per un po’ e le commentiamo, sperando che questo basti a salvarci. Restiamo inerti di fronte al loro strapotere, ma così rischiamo di privarci dell’unica vera salvezza: sostituire alla cieca riproduzione del dolore una comprensione lucida di quei fatti e un impegno quotidiano a impedire che si ripetano. A rendere il mondo un luogo più abitabile e meno ingiusto per gli altri — per chi vive in una zona a rischio, per chi fugge da una guerra, per chi è più povero o subisce la diseguaglianza della nostra società. In un altro saggio —Nella grotta di Platone — Sontag scriveva: «Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può mai essere, alla lunga, conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico».

 

Il passaggio da tale conoscenza superficiale a una più profonda, impegnata e politicamente attiva è senz’altro faticoso; ma è anche indispensabile.

 

 

Giorgio Fontana

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