La passione del «Da mihi animas» di Don Bosco

Omelia di Pascual Ch√°vez a 189 anni dalla nascita di Don Bosco. «Sono passati 189 anni dalla nascita di quel bambino, dalle origini umili e povere, ma ricco di doti, educato da una donna geniale, con cuore di educatrice, alla fede e alla pratica delle virtù cristiane, che è diventato “educator princeps” ‚Äì come fu definito da Pio XI ‚Äì ma soprattutto “padre e amico dei giovani”...».

La passione del «Da mihi animas» di Don Bosco

da Rettor Maggiore

del 01 gennaio 2002

 

Omelia nel Confronto Europeo 2004 al Colle Don Bosco

 

Fil 4,4-9; Mt 18,1-6.10

Sono proprio lieto di poter celebrare qui, al Colle Don Bosco, attorniato dai giovani convenuti per il Confronto Europeo, il compleanno del nostro amato Don Bosco.

Sono passati 189 anni dalla nascita di quel bambino, dalle origini umili e povere, ma ricco di doti, educato da una donna geniale, con cuore di educatrice, alla fede e alla pratica delle virtù cristiane, che è diventato “educator princeps” – come fu definito da Pio XI – ma soprattutto “padre e amico dei giovani”.

Oggi la famiglia spirituale apostolica nata da lui si estende su tutti i continenti ed è presente in 130 paesi del mondo, uniti dalla sua passione educativa, espressa nel motto che diviene programma di vita per tutti, “Da mihi animas, coetera tolle”, e portando avanti il suo sogno, quello avuto quando aveva nove anni, appunto in questo stesso luogo dove oggi ci troviamo, di consacrare tutte le sue energie per la salvezza dei giovani.

La ragione però del Confronto Europeo di quest’ anno 2004 è la voglia dei giovani di celebrare il giubileo della canonizzazione di San Domenico Savio e il centenario della morte della Beata Laura Vicuña, i frutti più preziosi, insieme a quelli dei giovani martiri dell’Oratorio di Poznan, del Sistema Preventivo di Don Bosco.

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci aiuta a capire quale è stata la sorgente di ispirazione di Don Bosco per la sua vocazione e missione. Infatti la prima lettura biblica, tratta dalla lettera di San Paolo ai Filippesi, ci presenta l’invito alla gioia, come pure il comando di non temere: «Rallegratevi nel Signore» (v. 4) e «non angustia­tevi per nulla» (v. 6). E il fondamento di questo programma di vita l’Apostolo lo trova nel fatto che «il Signore è vicino» (v. 5). In Gesù Dio si è avvicinato all'umanità riempiendo di gioia e speranza la nostra vita. Essa non si fonda su un sentimento di volontà perso­nale, su una disposizione interiore all'ottimismo, ma sulla persona di Gesù, che è garanzia dell'attesa per il futuro. Ecco quindi tre parole che esprimono qui il risvolto personale e comunitario della speranza: gioia, fiducia, pace, e che Don Bosco seppe tradurre in prassi educativa per i suoi ragazzi, che egli voleva felici sempre, nel presente e nell’eternità.

La gioia deriva dal fatto di vivere in comunione con Gesù e con gli altri. E occorre ricordare che chi afferma ciò non è un gaudente, ma un apostolo sofferente, in catene, che sollecita ripe­tutamente i Filippesi a gioire e ad avere fiducia: «In ogni circo­stanza esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti ... » (v. 6). Abbandonarsi a Dio non è cosa indegna dell'uomo, non è un rifugio in un mondo irreale, ma fa parte della vera sapienza, perché «il Signore veglia sul cammino dei giusti» (1 Sam 2,9). La pace è il risultato di quanto precede. Come si vede dalle poche parole di Paolo, la pace non è assenza di preoccupazioni, ma frutto della potenza di Dio, che cu­stodisce il cuore e i pensieri dei credenti in Cristo Gesù (v. 7), il che è ben diverso dal semplice 'non aver pensie­ri'. La pace vera non è superficiale, ma afferra l'uomo là dove lui decide di se stesso, nella mente e nel cuore, per­ché così anche le sue azioni e relazioni saranno azioni e relazioni di pace.

Il brano evangelico di Matteo, che ha per tema il ‘farsi piccolo', richiama invece un atteggiamento fondamentale dell’ esistenza cristiana. Esso sottolinea la necessità di superare sia l'autosuffi­cienza dei grandi che l'orgoglio di gruppo. La parola di Gesù guarda certo alla vita interna della comunità dei discepoli: «il più grande nel regno dei cieli» è il più piccolo (v. 4). Sembra naturale che, secondo la mentalità mondana, i capi della comunità civile siano quelli che si distinguono per le loro doti e capacità umane o per il senso di responsabilità nel gestire i servizi comunitari. D'altra parte è pure naturale nell'uomo il desiderio di primeggiare. Per questo anche gli apostoli si lasciano andare a discussioni interessate sui posti da occupare e su chi di loro sia il più grande (v. 1). Il Signore, allora, prende un fanciullo e lo mette accanto a sé, al centro, e risponde con parole precise: «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel re­gno dei cieli» (v. 4). Solo il piccolo è 'grande', perché in­nocente, semplice, senza pretese. Per Gesù il bambino è il simbolo del vero disce­polo, perché chi si fa piccolo è disponibile, lascia più spazio in lui all'opera e all'azione dello Spirito. Egli di­venta grande per la fede nel Signore e trova la forza nel suo nome. Inoltre è l'immagine di Gesù che si abbando­na con totale fiducia e obbedienza nelle mani del Padre; e per questo egli dice ancora: «Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in mio nome, accoglie me» (v. 5).

La società nella quale viviamo ha creato delle barrie­re tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri, tra nord e sud del mondo, tra piccoli e grandi. Come fare per rompere questa barriera di diffidenza? Gesù ci offre la risposta: col considerare ogni uomo nostro fratello, creando familiarità con lui.

Questo principio è altrettanto valido con i giovani. Di­ceva don Bosco: «Senza familiarità non si dimostra l'a­more e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza. Chi vuole essere amato bisogna che faccia ve­dere che ama. Gesù Cristo si fece piccolo con i piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della familia­rità! Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione con i giovani diventa come fratello [ ... ]. Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Questa confiden­za mette una corrente elettrica fra i giovani e i superiori. I cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni e palesa­no i loro difetti. Questo amore fa sopportare ai superiori le fatiche, le noie, le ingratitudini, i disturbi, le mancan­ze, le negligenze dei giovanetti. Gesù Cristo non spezzò la canna incrinata né spense il lucignolo che fumigava. Ecco il vostro modello» (dalla Lettera da Roma, 1884).

Vedete, dunque, dove ha attinto Don Bosco il suo cuore di educatore e di pastore dei giovani, dove ha imparato il programma della santità come vita nella gioia d’additare loro. Leggiamo infatti nel Prologo al suo Giovane Provveduto:

“Due sono gli inganni principali, con cui il demonio cerca di allontanare i giovani dalla virtù. Il primo è di far loro venire in mente che il servire il Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, cari giovani. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiana, che vi possa nel tempo stes­so rendere allegri e contenti, additandovi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri, affinché voi possiate dire con il santo profeta Davide: «Serviamo il Signore in santa allegria [Servite Domino in laetitia]». Tale appun­to è lo scopo di questo libretto: servire il Signore e stare allegri”.

“L’altro inganno è la speranza di una lunga vita con la comodità di convertirvi nella vecchiaia o in punto di morte. Badate bene, miei figliuoli, che molti furono in questo modo ingannati. Chi ci assicura di diventare vec­chi? Sarebbe necessario venire a patti con la morte che ci aspetti fino a quel tempo: ma vita e morte sono nelle mani del Signore, il quale può disporne come a lui piace. Che se Dio vi concedesse lunga vita, sentite il grande avvertimento che egli vi dà: quella strada che l'uomo co­mincia in gioventù, si continua nella vecchiaia fino alla morte. E vuol dire: se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanza­ti, buona la nostra morte e principio di una eterna feli­cità [ ... ]. Miei cari, io vi amo di tutto cuore, e basta che voi siate giovani perché io vi ami assai, e vi posso assi­curare che voi potete trovare molti libri consigliati da persone molto più virtuose e più dotte di me, ma difficil­mente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cri­sto, e che più desideri la vostra felicità. Il Signore per­tanto sia sempre con voi e faccia sì che, praticando que­sti pochi suggerimenti, possiate giungere a salvare la vostra anima, e così accrescere la gloria di Dio”. [1]

Sia gli educatori che hanno imparato da Don Bosco questa saggezza spirituale, sia i giovani che hanno accolto questo programma di vita – come  Domenico e Laura – hanno potuto comprovare la loro verità.

Concludo dunque invitando tutti gli educatori, i genitori e gli animatori,  i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice a fare propria la passione educativa di Don Bosco e il suo metodo e la sua spiritualità. Ma invito anche voi, cari giovani, a modellare la vostra vita su quella di Domenico Savio e Laura Vicuña, i quali hanno imparato a fare della gioia che viene del Signore la strada regale della santità, e a non indugiare nel fare dell’adolescenza e della prima giovinezza il momento privilegiato per le scelte coraggiose di consegnarsi totalmente al Signore.

“La situazione giovanile nel mondo d'oggi – a più di un secolo dalla morte di Don Bosco – è molto cambiata e pre­senta condizioni e aspetti multiformi, come ben sanno gli educa­tori e i pastori. Eppure anche oggi permangono quelle stesse domande che il sacerdote Giovanni Bosco meditava sin dall'ini­zio del suo ministero, desideroso di capire e determinato a ope­rare. Chi sono i giovani? Che cosa vogliono? A che cosa tendo­no? Di che cosa hanno bisogno? Questi, allora come oggi, sono gli interrogativi difficili, ma inevitabili, che ogni educatore deve affrontare.

Non mancano oggi, tra i giovani di tutto il mondo, gruppi genui­namente sensibili ai valori dello Spirito, desiderosi di aiuto e so­stegno nella maturazione della loro personalità. D'altra parte è evidente che la gioventù è sottoposta a spinte e condizionamen­ti negativi, frutto di visioni ideologiche diverse. L'educatore at­tento saprà rendersi conto della concreta condizione giovanile e intervenire con sicura competenza e lungimirante saggezza [ ... ]. Forse mai come oggi educare è diventato un imperativo vi­tale e sociale insieme, che implica presa di posizione e decisa volontà di formare personalità mature. Forse mai come oggi il mondo ha bisogno di individui, di famiglie e di comunità che fac­ciano dell'educazione la propria ragion d'essere e ad essa si de­dichino come a finalità prioritaria, alla quale donano senza riser­ve le loro energie, ricercando collaborazione e aiuto, per speri­mentare e rinnovare con creatività e senso di responsabilità nuovi processi educativi. Essere educatori oggi comporta una vera e propria scelta di vita, a cui è doveroso dare riconosci­mento e aiuto da parte di quanti hanno autorità nelle Comunità ecclesiali e civili”. [2]

Affido tutti e ciascuno di voi alla cura materna di Maria Ausiliatrice, affinché essa sia per voi madre e maestra, come lo è stata per Don Bosco sin dal momento del sogno dei nove anni. Alla sua scuola impareremo ad essere “umili, forti e robusti” e tutta la passione per Dio e per i giovani, racchiusa nel nostro programma di vita: “Da mihi animas, coetera tolle”. Amen.

 

Pascual Chávez V.

 

Colle Don Bosco, 16 agosto 2004

 

[1] Giovanni Bosco, Prologo al Giovane Provveduto, in J. AUBRY ed, Giovanni Bosco. Scritti spirituali/ 1, Roma 1976, 111-113.

[2] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Juvenum Patris, passim.

 

don Pascual Chávez Villanueva

 

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