È stato scritto: «L'uomo è quello che sono le sue relazioni» (Jack Dalrymple). Tanto basti per ricordare che la persona esiste solo come centro di rapporti, e che non si dà discorso sull'identità dell'individuo che non implichi un esame di ciò che lo connette con gli altri...
del 07 luglio 2007
Crescono, nel nostro universo culturale le possibilità di comunicare. Paradossalmente si avverte sempre più l’incapacità a relazionarsi. Ci guida, in questo labirinto, Domenico Pezzini studioso di letteratura inglese, docente universitario e pubblicista.
 
È stato scritto: «L’uomo è quello che sono le sue relazioni» (Jack Dalrymple). Tanto basti per ricordare che la persona esiste solo come centro di rapporti, e che non si dà discorso sull’identità dell’individuo che non implichi un esame di ciò che lo connette con gli altri.
In questa luce, uno dei paradossi del nostro tempo è che, di fronte a un aumento vertiginoso delle possibilità di comunicazione, dal cellulare a Internet, sembra crescere in parallelo il lamento sulle difficoltà di relazione tra le persone. Sono sempre più numerosi, pare, quelli che vivono la condizione di single come scelta (talvolta come risultato di una serie di frustrazioni relazionali), così come è sotto gli occhi di tutti la crescita esponenziale di fallimenti matrimoniali, almeno nelle società dell’Occidente. C’è chi sostiene che lo sviluppo economico e il conseguente benessere che rende sempre più indipendenti le persone sia la causa prima di tale situazione: c’è sempre meno bisogno l’uno dell’altro, almeno a livello di sostegno economico, e dunque i legami si spezzano più facilmente. Sarà, ed è anche vero che alla base della relazione c’è comunque il bisogno che nasce dall’insufficienza dei singoli. Ma tale spiegazione non basta: è pur vero che un po’ in tutto il mondo, anche in quello cosiddetto ‘terzo’ o povero, risulta piuttosto difficile mantenere la coesione anche solo di quel nucleo primario e in qualche modo ideale di relazione che è la famiglia. Dove sta dunque il problema?
 
 
Tra bisogno e responsabilità
 
Il punto è che mettere il discorso della relazione in termini di bisogno è certamente fondamentale, ma rimane del tutto insufficiente. Forse è questa la ragione di tante difficoltà e la causa dei numerosi fallimenti che stanno sotto i nostri occhi. La cultura in cui viviamo ha riportato giustamente al centro della persona, e dunque della relazione, temi come quelli del desiderio e del relativo appagamento. Anche nel lessico della morale la categoria del dovere, prima unica e dominante, ha ritrovato la compagnia di quella del piacere, sentimento che prima era ritenuto spesso potenzialmente solo pericoloso, se non del tutto negativo. Ho l’impressione però che ci troviamo oggi in una situazione che è sbilanciata in senso opposto a quella precedente. Se prima si diceva «devo fare ciò che è buono», adesso si rischia di dire «faccio ciò che mi piace», in quanto «ciò che piace è buono». Se prima la spiritualità era tutta centrata sul dono di sé, ora si corre il rischio di intendere come unico traguardo vocazionale l’autorealizzazione, il compimento dei propri desideri: il movimento verso gli altri è affidato, al massimo, a qualche escursione. Analizzare bisogni, strategie, fallimenti relazionali diventa da questo punto di vista urgente proprio per ritrovare un equilibrio che, se non si è perduto, è sempre comunque da costruire. E per dirla tutta e subito, la relazione, ogni relazione che si rispetti, cammina sempre su due gambe: il piacere e la responsabilità.
 
 
Un amore che si coniuga con la misericordia e la tenerezza
 
Ogni volta che mi trovo a riflettere su questo tema, mi torna in mente una frase di una mistica inglese del trecento, Giuliana di Norwich, che nel suo Libro delle rivelazioni, descrive in modo denso e cristallino le caratteristiche essenziali della relazione: «La misericordia opera in quattro modi: custodisce, sopporta, ravviva, guarisce, e tutto questo è la tenerezza dell’amore» (cap. 48). Il lessico è importante. Così come è significativo che l’affermazione si riferisca direttamente a Dio, anche se niente impedisce di riprodurne il contenuto nella rete delle nostre esperienze relazionali: come si sa, teologia e antropologia sono strettamente intrecciate e, alla fine, il discorso su Dio non può non radicarsi nel discorso sull’uomo, così come su di esso va alla fine a riverberarsi.
Il lessico, dunque. Dentro il gran parlare di amore che caratterizza il linguaggio dei nostri giorni, e a parare il rischio relativo di banalizzazione e di insignificanza, appaiono nell’affermazione di Giuliana altre due parole: misericordia e tenerezza. La seconda esprime un comportamento oggi largamente diffuso e spesso reso visibile nella versione più popolare che va sotto il nome di ‘coccole’. La tenerezza è anche entrata di prepotenza nel linguaggio della teologia e più ancora della spiritualità, come si può vedere anche solo scorrendo titoli di libri recenti. La misericordia appartiene invece al linguaggio cristiano più tecnico, e rimanda rapidamente al lessico più propriamente religioso, se non proprio devozionale. E però, l’aver coniugato l’amore con la tenerezza e la misericordia costituisce un’operazione di grande chiarificazione, che può unire poli apparentemente inconciliabili. Anzi, i due sentimenti finiscono per risultare essenziali in ordine alla sorveglianza dei rischi del desiderio, e dunque di un «amore», o «relazione» declinati esclusivamente in termini di risposta a un ‘bisogno’. La tenerezza, in effetti, tempera la violenza e l’urgenza del desiderio, e si sperimenta come condivisione di fragilità, mettendo al riparo sia dall’arroganza che esclude sia dalla colpevolizzazione dell’altro come mezzo per difendere se stessi. La misericordia, d’altra parte, è il passaggio necessario a guarire le frustrazioni del desiderio, permettendo così di salvare la relazione dalla frattura.
 
 
La ricerca dell’«aiuto»
 
Ho parlato, non a caso, di fragilità, frustrazioni, fratture. La relazione, infatti, giova ricordarlo, nasce comunque dal bisogno. Non per niente la Bibbia mette la prima coppia sotto il segno di un «aiuto» che viene a sopperire a una mancanza (cf. Genesi 2,18). Ma ci sono diverse maniere di leggere il bisogno, e dunque la relazione come risposta. Un cisterciense inglese del XII secolo, Aelredo di Rievaulx, autore di quello che è forse il più bel trattato sulla Amicizia spirituale, ha scritto in un sermone: «L’onnipotente Iddio avrebbe potuto portare immediatamente a perfezione chiunque egli avesse voluto, e largire a una singola persona tutte quante le virtù. Ma nei piani della sua benevolenza si comporta con noi in modo da far sì che ciascuno abbia bisogno dell’altro, e trovi nell’altro ciò che non trova in sé: in questo modo si mantiene l’umiltà, si aumenta la carità, si rivela l’unità». Il linguaggio di questo passo può sembrare lontano dal modo di esprimersi contemporaneo, ma la sostanza non cambia. Parliamo pure di amore, o, se vogliamo essere più neutri, di relazione. Rimane vero, però, che senza umiltà, o senso dei propri limiti e di quelli altrui, nessuna unità vera e duratura è davvero possibile, e che la carità, come sintesi di misericordia e tenerezza, è il cuore e il traguardo di ogni relazione che voglia essere insieme appagante e responsabile.
Qualcuno potrebbe trovare un po’ sorprendente, e forse anche un tantino civettuola, la scelta di rispondere a problemi del nostro tempo con due citazioni del XII e del XIV secolo, scritte per di più da un monaco e da una reclusa. Non penso di dovermi giustificare. Semmai vorrei richiamare come, tra le tante relazioni che costruiscono l’impalcatura su cui si regge la nostra vita, c’è anche quella con il tempo e con la storia, e con le persone attraverso il tempo e la storia. Specificamente, per i cristiani, c’è il legame con la propria tradizione. La Chiesa non è solo il popolo di Dio che oggi vive nel mondo, è anche la schiera innumerevole dei testimoni che ci hanno preceduto, in particolare quelli che con la loro vita e con i loro scritti hanno fatto crescere la consapevolezza della nostra fede. Con loro stanno anche tutti quelli che hanno edificato, nei secoli, la sapienza dell’umanità. Cercare lumi nel passato non significa solo ritrovare problemi molto simili ai nostri, cosa peraltro non secondaria e normalmente pacificante. Vuol dire, ancora di più, attingere a una sapienza che è anche nostra. Ed essere, alla fine, meno soli.
Domenico Pezzini
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