La spiritualità nell'arte

Che cosa è più bello in questo mondo? Ma prima ancora sorge la domanda: come si produce una cosa bella? Dunque il bello è quando in una cosa ne vedo un'altra, quando una cosa mi suscita il ricordo di una cosa superiore, come la ragazza di Raffaello...

La spiritualità nell'arte

da Teologo Borèl

del 10 marzo 2008

 

 

 

Cominciamo con il termine “arte”. Da dove proviene? E’ una traduzione del termine greco “tekhne”. Come definiva Platone tekhne? Qualche cosa che non è istintivo, ma dove interviene l’intelligenza. L’intelligenza umana interviene in quel lavoro che non si fa del tutto spontaneamente. Non tutto ciò che è “tekhne?”  lo chiamiamo arte, solo quello dove si produce qualche cosa che è bella. Allora diciamo subito che cosa significa, che cosa è bello e che cosa non è bello. Era un grande problema di uno dei filosofi-teologi russi Vladimir Solov’ëv. Lui era uno studioso. A 17 anni ha scritto una tesi sulla filosofia occidentale e alla fine constata che è un disastro: quante scienze ci sono in Europa, tantissime, ma ognuna sta accanto alle altre, come un mondo in sé chiuso. L’unico modo per averne una sintesi è l’enciclopedismo – oggi si direbbe internettismo – nell’enciclopedie le voci stanno una dopo l’altra, ma senza un legame organico l’una con l’altra. Pensiamo a Cartesio: idea chiara e distinta, questa è carta, questo è tavolo, uno non dipende dall’altro. Con questo metodo non possiamo mai fare una unione: siamo condannati all’enciclopedismo, dove ciascuno sceglie ciò che gli piace. A questo punto, per scherzo, si potrebbe dire che gli scienziati sono peggiori dei giornalisti. Infatti, i giornalisti sanno scegliere cosa piace loro, mentre scienziati scelgono proprio ciò che a nessuno interessa mai. Solov’ëv  si domanda: come fare unione? E verso la fine della sua vita dice: l’arte, la bellezza salverà la vita. Ma perché? E che cosa è bello?

 

Allora cominciamo con un esempio. Il carbone e il diamante sono la stessa materia chimica: perché il carbone è brutto e il diamante è bello?  Perché quando guardo il carbone vedo solo il carbone ed è una brutta cosa, quando vedo il diamante, nel diamante vedo i raggi del cielo. Dunque: bello è ciò in cui vedo qualche cosa di superiore ad esso. Cioè non è uno puro, distinto o separato dall’altro, ma in una cosa si vede qualche cosa di superiore. Allora poi si può fare un’unione.

Che cosa è più bello in questo mondo? La risposta è religiosa: Gesù Cristo. Chi vede me, vede il Padre celeste. Nella persona umana di Cristo si vede il Padre celeste: non possiamo immaginare niente di più bello.

Evidentemente, ci sono diversi gradi della bellezza. Ma prima ancora sorge la domanda: come si produce una cosa bella? C’è una creatività. I teologi sempre dicono: solo Dio può creare, l’uomo no, Dio solo è creatore. Solov’ëv continua: ma non siamo forse immagine di Dio? Ogni uomo vuol creare qualche cosa: persino la cuoca dice che ha fatto la minestra in modo tale che nessun altro la può fare, anche se tutti sperano che sia l’ultima volta. Produrre qualche cosa che mai è stata vista, solo io potevo farla. Dunque ha fatto, ma come mai che ha fatto?

 stesso. Allora, che cosa dice? Mi è venuta una ispirazione, qualche musa è venuta, mi ha ispirato qualche idea. Adesso devo realizzarla, ma come? Si racconta che Raffaello da giovane aveva una grande idea della bellezza della Madonna, ma nessuna ragazza corrispondeva a questa bellezza, nessuna ragazza. Come fare? Ma una volta è andato a spasso per Firenze e ha visto una giovane: questa è la Madonna. L’ha dipinta. Era una ragazza qualsiasi, ma guardando questa, si ricordava subito quell’idea.

A scuola, quando si legge una poesia, ci si domanda: che cosa vuol dire il poeta? Il poeta esprime se stesso. Beh è una bugia, nessun poeta ha detto che esprime se

 . Ma non tutti hanno questa pazienza. Ci sono artisti non abbastanza pazienti per la loro ricerca. Facciamo l’esempio che uno di loro vuole dipingere il paradiso. Cerca qualcosa che lo esprima, ma non trova niente. Si stanca e comincia a dipingere cose fantastiche: uccelli rossi, moltiplica inutilmente gli esseri e fa quello che si chiama “kitch”, qualcosa di grottesco. Fa cose assolutamente inutili. Forse di successo immediato, ma prima o poi la gente si stanca di guardarle. Per la vera opera d’arte bisogna saper aspettare. Aspettare, aspettare, e finalmente si trova l’ispirazione. Poi l’artista si mette a lavorare e tutti gli dicono: non fare così, perché non venderai mai quel quadro. Ma l’artista ha una sicurezza interiore che è sulla strada giusta e ha come una sorta di costrizione nel seguire la sua intuizione, nessuno lo può distogliere.

Dunque il bello è quando in una cosa ne vedo un’altra, quando una cosa mi suscita il ricordo di una cosa superiore, come la ragazza di Raffaello

 

Ora, si domanda un discepolo di Solov’ëv, Semën Frank: seguire un’ispirazione non è forse immorale, essere costretto e non poter fare? L’uomo deve essere essenzialmente libero. Se si sente sotto costrizione, questo lo diminuisce. Ma Frank risponde a questa sua stessa domanda: l’unico che mi dice, mi suggerisce, mi ispira e non violenta la mia libertà è lo Spirito Santo, è Dio.

Dunque, la vera arte è sempre divina, altrimenti è una possessione diabolica, perché solo Dio dà l’ispirazione, e non toglie la libertà. Questo vale anche per un ateo: sempre vuol fare qualche cosa infinitamente bella, qualche cosa che supera tutto. Dunque, in ogni arte c’è qualche cosa di divino, e bisogna che tutti ne siano consapevoli. Ma se l’arte è divina, significa che è una specie di teologia. Da dove viene la parola teologia? “Theos” e “logos”. Per quanto ne so, questa parola è impiegata per la prima volta da Platone, e Platone dice che la teologia è opera dei poeti. Quelli che studiano le “cose di sopra2 fanno la meteorologia, la scienza delle cose di sopra, appunto, ma non teologia, che è la scienza di Dio. Cercano di farlo usando il simbolo per presentare ciò che hanno intuito. Già i primi padri della Chiesa cominciavano ad essere consapevoli di questo. C’è uno di loro che si chiama Dionigi l’Areopagita che ha scritto una “teologia simbolica”. I termini che ci parlano di Dio non vanno compresi come conoscenze razionali, come concetti che ci danno una scienza positiva sulla natura divina, piuttosto come immagini utili per dirigere le nostre facoltà in vista della contemplazione di ciò che supera ogni intendimento. Sorge allora la conoscenza simbolica, che interpreta i termini come segni di una relazione personale, usati nel colloquio vivo con Colui che si rivela a noi. I grandi mistici medievali hanno ripreso questo che dice Dionigi, e lo hanno espresso attraverso la cosiddetta “salita sul monte:” sotto, nella pianura, il popolo vide i fulmini e sentì i tuoni, ma rimase lì, dal momento che il timore di Dio è sufficiente per salvarsi, purificandosi. Solo Mosè comincia la salita sul Sinai e impara ogni giorno qualche cosa di nuovo: è la teologia positiva. Arriva sulla cima, ma Dio non è ancora là, trascende le possibilità di salire; allora Mosè non vi trova la luce, ma le tenebre, cioè scopre che la verità non si può conoscere. Conosce Dio nella ignoranza, ignoranza, ma non c’è Dio ancora. Questa irraggiungibilità di Dio suscita nel cuore umano un grande desiderio di intraprendere una nuova via, quella dell’amore. Per mezzo di quest’amore, anche le tenebre divengono simbolo di una nuova perfetta conoscenza, piena di illuminazioni divinizzanti. Ma Mosè deve tornare nella vita normale, dove deve esprimere quella visione in un simbolo, per mezzo del simbolo.

 

Dunque un vero artista è un uomo spirituale, deve essere spirituale, e se è spirituale deve avere lo Spirito Santo. E’ infatti per mezzo dell’amore che si conoscono le cose e, soprattutto, le persone. Un pensatore orientale, Vyšeslavcev, dice: “Voi occidentali pensate come Leonardo da Vinci: un grande amore è figlio di una grande conoscenza, cioè prima conosco e poi amo. Noi orientali diciamo all’inverso: una grande conoscenza è figlia di un grande amore, perché nella misura in cui tu ami l’altro si rivela e si affida”. L’artista comincia allora a lavorare, ma questo simbolo deve essere anche prima di tutto la possibilità di “vedere attraverso”. Se uno dipinge un paesaggio e tutto finisse lì, basterebbe una fotografia, o posso guardare dalla finestra. Non c’è bisogno che l’artista me lo dipinga. Fatemi guardare fuori dalla finestra ed è meglio. Dunque, attraverso ciò che è raffigurato, espresso, devo vedere, intuire, qualcosa d’altro. Ma andiamo ancora avanti. Se uno va a San Pietro, dicono: questo è Michelangelo, questa è la Pietà. E che cosa è la Pietà? La madre che piange sul figlio morto. Ma che cosa voleva dire l’artista? Si vedeva che l’anima dell’artista è sparita dietro questa sua rappresentazione. E’ ciò che gli artisti delle icone chiamano “digiuno artistico” l’artista esprime solo quello che è convogliato in questa grande ispirazione, se aggiunge qualcosa di più è già una mescolanza che uccide l’opera d’arte. Facciamo un esempio: voglio raffigurare Maddalena penitente nel bosco. Tutto deve essere incanalato per esprimere questo senso della compunzione, della penitenza... Se comincio a fare il bosco pieno di fiori, con una bella donna florida, dov’è la penitenza? Che cosa devo guardare? Il mio sguardo comincia ad essere distratto. Nelle icone della natività, ad esempio, bastano due pastori e qualche pecora per esprimere l’adorazione dei pastori. Niente mi deve distrarre e deve guastare l’idea principale. Questo è il digiuno artistico.

 

Ma quale simbolo prendere? Qui entra in gioco la diversità delle arti: musicale, pittorica, il ballo, la letteratura, ecc. Le sette muse degli antichi. Quale è la più spontanea? Io dico sempre che più spontaneo è il ballo: perché al bambino si dice, questo è il cavallino e subito si mette in movimento. Balli veramente religiosi, li ho visti in Africa, quando dicevo messa a Kinshasa. Ma poi c’erano gli occidentali che volevano imitarli, ed era una caricatura terribile...

Anche la musica è, in un certo senso, immediata. La musica evidentemente è entrata nelle chiese subito. Interessante però che all’inizio alcuni monaci dell’Egitto la rifiutavano: non si viene in Chiesa per ascoltare il canto, si deve leggere la Scrittura... Ma ben presto dovevano tacere. Solo brevemente alcune cose sulla musica: perché all’inizio era gregoriana? Anche in oriente c’era qualcosa del genere. Erano testi liturgici eseguiti a una sola voce, quasi a dire che bisogna avere unità nel pensiero e nell’espressione. Ma, evidentemente, ad un certo punto è nato qualcuno che dice: io voglio esprimermi. In occidente subito nascevano dei piccoli concerti, ma questo non appartiene alla liturgia, è una cosa di teatro. Anche in Russia lo stile dei canti di Palestrina, con il contrappunto, è penetrato contro tutta la opposizione della gerarchia russa: il tenore va in alto, il basso va giù, tutti insieme fanno una bella armonia. Non è questa un’immagine della Chiesa come deve essere? Ognuno ha la sua personalità irripetibile, ma nonostante sia irripetibile concorda nella perfetta armonia con gli altri. Vedete come l’artista può parlare agli uomini. Per quanto riguarda la poesia, viveva qui a Roma un grande poeta russo, Vjaceslav Ivanov. E’ da lui viene questa idea di “respirare con due polmoni.” Il Papa Giovanni Paolo II ha sentito questa frase nell’occasione di un convegno su questo poeta. Da allora non ha smesso di ripeterla. Che cosa voleva dire Ivanov con ciò? Quando Ivanov si fece cattolico, disse che con questo non avrebbe smesso di essere ortodosso, ma che avrebbe cominciato a respirare con due polmoni. Questo poeta, Ivanov, dice: “per creare una poesia, quante generazioni ci vogliono affinché quella parola abbia tutte quelle risonanze”. Ivanov studiava le lingue e osservava come tante antiche culture sono tutte morte, abbiamo tanti musei. Sarà questo anche con la cultura europea? E gli è venuta questa idea. C’era una volta una cultura assai mediocre, quella degli antichi ebrei. Ma la storia di Davide e Golia, i Salmi sono una realtà viva, già la impariamo al catechismo. Perché? Perché ha ricevuto un senso cristologico. Allora ogni arte che riceve il suo senso cristologico diventa eterna. Esiste allora un’unica soluzione: trovare il senso cristologico dell’arte e della cultura. Solo così si salva.

 

Ma adesso vediamo piuttosto l’arte visiva: immagini e statue. Sapete che nell’Antico Testamento è severamente proibito? Non fare nessuna immagine. Quando cominciavano i cristiani a fare immagini allora nasce l’eresia. Le bruciavano: come osate fare immagini di Dio che è tanto proibito? E sono state le lotte iconoclaste, gli iconoclasti che distruggevano le immagini come una cosa eretica.

Cosa rispondevano i difensori delle immagini? Dicevano semplicemente: erano proibite, si capisce che nessuna immagine esprime l’invisibile, ma da quando Gesù Cristo ha dipinto la sua immagine nel corpo, possiamo dipingere Dio perché lui è immagine di Dio nel corpo e i santi nel corpo possono esprimere le cose divine. Per giustificare questo è nata la leggenda che San Luca era pittore, e avrebbe dipinto la prima immagine della Madonna. E’ una bella leggenda e che cosa vuol giustificare? Vuol giustificare: ciò che si può dire con la bocca, con la parola, lo stesso si può dire con l’immagine. Allora la Sacra Scrittura o l’immagine, entrambe appartengono alla Chiesa come parola di Dio: ci sono infatti quelli psicologicamente acustici come erano gli ebrei, e ci sono quelli visivi, come i greci. Per questo loro portarono nella chiesa le immagini. Siccome la leggenda di san Luca vuol giustificare l’immagine come Scrittura, bisogna applicare all’immagine ciò che si applica alla esegesi della Sacra Scrittura. Proprio come con la Parola di Dio, c’è una lettura semplice e poi c’è la lettura spirituale. Inoltre, le sacre immagini si venerano. Infatti, anche la Sacra Scrittura ha una certa forza: Dio quando dice qualche cosa, lo fa, lo vediamo nei Sacramenti. Quando si dice nel Sacramento io ti assolvo, l’uomo è assolto. Questa forza è anche nelle immagini venerate, e infatti ci sono tante immagini miracolose. Un filosofo russo che era ateo, hegeliano, Kireevskij, si è convertito vedendo la gente che pregava davanti alle immagini. Tante preghiere davanti ad esse... Quel legno si è impregnato di queste preghiere fino a santificarsi.

Dunque le icone fanno questo. Il Concilio niceno II dice l’ultima parola cristologica: Cristo è nato nella carne tutta la carne del mondo ha un destino spirituale. Studiare le immagini significa studiare spiritualmente il mondo.

Dunque bisogna saper leggere: ho presentato a Pietroburgo i primi quadri di Padre Rupnik e di un pittore russo di Pietroburgo nel Museo Nazionale. Io ho detto che viviamo in un tempo di immagini, ma la gente purtroppo non sa leggere le immagini e gli artisti non esprimono nelle immagini le cose spirituali, ed è una cosa triste. C’era un filosofo russo, adesso è morto, mio amico, che ha detto: capisco perché ora c’è dovunque la moda delle icone, perché la natura non ama il vuoto.

Ma per le icone è necessario anche un certo linguaggio: perché, se uno volesse scrivere una poesia e creare da se stesso una lingua, allora chi lo leggerà? Una volta vicino a Milano facevo un corso sulle icone e c’era un pittore e mi dice: io so tutto quello che voglio dire ma nessuno mi capisce. Invece le icone hanno un certo linguaggio tradizionale, e uno ci entra facilmente. Tutti questi elementi, luce, colore, grandezza, tutto deve avere il suo significato e si capisce.

Lo stesso vale per i colori. Il rosso è il divino e il blu è l’umano: dunque Gesù Cristo è Dio, il vestito rosso, si è fatto uomo, il mantello blu. La Madonna è una donna, blu, ma è fatta divina: mantello rosso. Con due colori la teologia è spiegata. Come i colori, anche le grandezze: chi è più importante, un albero o un uomo? Agli occhi di Dio è l’uomo e dunque nelle icone la persona è grande e il bosco è piccolo. La prospettiva non deve andare dall’occhio di chi guarda, ma da dietro il quadro, la “prospettiva rovesciata”, perché bisogna guardare le cose con gli occhi di Dio. Ci vuole una istruzione e anche una esperienza e soprattutto, come la Sacra Scrittura si medita insieme, allo stesso modo una condivisione di ciò che l’icona comunica. 

 

Riportiamo una meditazione del cardinale Thomas Spidlik, sulla spiritualità nell’arte;una riflessione che offre una rappresentazione filosofica,artistica e religiosa del rapporto tra Dio e l’uomo.Un uomo, un sacerdote,il cardinale Spidlik, che non ha fatto obiezioni alla Sua vocazione. E forse la Sua vera vocazione è quella di essere un cercatore della bellezza; l’ha cercata anche negli anni delle ideologie, dove tutto c’era tranne la bellezza, dove tutto c’era tranne la forma. Questa Sua ricerca è stata tante volte interrotta;costretto ai lavori forzati giovanili, però non ha mai smesso di cercare anche dove forse la bellezza si pensava non si trovasse, e invece l’ha trovata;non solo l’ha cercata e trovata la bellezza ma anche , è riuscito  a comunicarcela,e  a trasmettercela,e per questo ne siamo profondamente grati. Il  testo che segue è la trascrizione dell’ incontro che Sua Eminenza  ha tenuto presso la “ Galleria la Pigna

” il 20 novembre 2007.

 

Tomáš Špidlík

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