È stata strappata a questo mondo ancora giovanissima dal suo ex fidanzato. Ma nelle parole dei genitori e degli amici prevale la certezza che in lei «qualcosa stava accadendo».
«Il nostro famoso motto di famiglia era: sorridere, salutare, ringraziare», esordisce mamma Paola con voce pacata, da cui trapela una forza buona e tenace. Una cordialità ospitale contraddistingue i volti e i modi della famiglia Pelizzi, anche ora che, di fronte a me, parlano di una figlia che hanno perso. Ascoltandoli, il pensiero va a quella frase del Vangelo sul seme che, caduto a terra, morendo dà frutto. Che questa provocazione possa farsi esperienza concreta, pare impossibile; eppure, se il riverbero di un mistero simile accade vicino a noi, sappiamo accorgercene? O ci limitiamo, piuttosto, a fissare il punto dove il seme è caduto? Per qualche giorno, le luci dei riflettori della cronaca si sono fissate sul tragico evento che ha coinvolto Alessandra Pelizzi, e lei è diventata semplicemente quella giovane 19enne buttata giù dall’ottavo piano dall’ex-fidanzato Pietro la notte tra il 15 e 16 settembre a Milano. Si sono usate le solite etichette facili (femminicidio, omicidio-suicidio) che fanno presa, ma non abbracciano nulla; poi, passato il clamore, si è girata in fretta pagina. Anche in questo caso, è parso che il compito della cronaca fosse solo quello di guardare giù, nel punto più basso della parabola del seme caduto.
Ma lo sguardo di Alessandra non era abituato a fissarsi in basso, semmai lei guardava in alto e attorno, come è tipico di una giovane ragazza appena diplomatasi al liceo e pronta per l’università. Scegliere, ora, di raccontare un po’ di cosa c’era dietro e dentro quegli occhi «ridenti e fuggitivi», ha lo stesso senso per cui Leopardi parlò di Silvia alla sua morte: non ne fece un monumento di edulcorata venerazione, ma documentò cos’è il fiorire di una presenza umana nella sua cornice di mondo. «Suonavan le quiete stanze», dice il poeta, perché ogni semplice presenza umana è un canto tra quattro mura, è una coscienza che si esprime e bussa in cerca di senso. Per questo ogni voce è sempre e in ogni caso un miracolo, che merita ascolto.
Negli ultimi mesi, anche Alessandra stava facendo i conti con questo, e in particolare con la voce di chi aveva trovato un senso buono dentro la drammaticità dell’esistenza. Alla maturità aveva portato una tesina su Frida Kahlo intitolata Viva la vida e le amiche raccontano con quanto entusiasmo le invitasse a leggere – ma era quasi un caloroso obbligo – quel libro che lei aveva riempito di segni e “orecchie”, Un uomo di Oriana Fallaci. Queste figure femminili, che altri userebbero per teorizzare di femminismo e politica, a lei interessavano come nutrimento umano, come indagine sincera di chi, avendo conosciuto la sofferenza, dimostrava una presa salda e vigorosa sulla vita.
Anche solo questo ricordo di ciò che aveva catturato il suo interesse negli ultimi mesi, lascia a chi resta un compito audace da adempiere e non solo il bruciore straziante della ferita. Papà Carlo, alla veglia funebre, ha detto: «Nella tesina Alessandra scrive: “La pittrice ha dimostrato che la vita ha valore di per sé e che le gioie e i momenti di felicità sono di una ricchezza incommensurabile”. È così che la vogliamo ricordare, come una ragazza che amava la vita senza però ignorare che la vita può anche significare dolore. Dolore che noi, nel suo ricordo, affronteremo e lotteremo per trasformarlo in amore».
«Stava cominciando ad aprirsi»
E proprio le parole, che papà Carlo sceglie con cura nel raccontarmi di sua figlia, lasciano intendere una memoria che non vuole solo chiudere e sigillare un passato. Infatti, non posso fare a meno di notare che, mentre mi parla, il signor Carlo usa in gran parte verbi che parlano di inizio: «Qualcosa stava accadendo», «era in corso un grande cambiamento», «stava cominciando ad aprirsi». È la voce di un genitore che si sente lì, presente eppure non in primo piano, ad assistere al passo sicuro di una ragazza che cominciava a inoltrarsi oltre il recinto di famiglia. Carlo racconta, ad esempio, che Alessandra aveva recentemente «scoperto» il tramonto. Dopo aver trascorso bellissime vacanze coi genitori in Florida e alle Hawaii, lì dove si dice che ci siano i tramonti più belli al mondo, poco tempo fa Alessandra aveva riempito il cellulare con migliaia di foto scattate a un tramonto vicino a casa, visto per sbaglio insieme agli amici una sera in cui avevano perso l’autobus. È un segno in cui un genitore vede riflesso un gratificante riscontro del compito educativo svolto: tu accompagni i figli a scoprire le cose, magari facendo salti mortali o il giro del mondo, perché poi loro sappiano godere e meravigliarsi del bello che c’è a un metro da casa.
Anche in un tramonto può esserci un inizio; l’inizio di un’ipotesi nuova di vita, in cui gli amici e la voglia di scegliere in prima persona cominciano a riempire quell’orizzonte che c’è oltre la porta di casa. Su questo tratto di strada stava camminando Alessandra, che a scuola era abituata ad aggredire il foglio bianco su cui scriveva, eppure dovendo preparare una lettera di autopresentazione per l’università, aveva buttato nel cestino mille tentativi non riusciti. Crescere è così, è l’entusiasmo di buttarsi verso la vita, la si aggredisce nel senso etimologico di ad-gredior, di incamminarsi verso; contemporaneamente, quel che c’è da dire su di sé è così traboccante, ma anche indistinto, che trovare le parole è difficile.
A ciascuno il suo regalo
La trama di qualsiasi racconto, giunta a questo punto, si svilupperebbe con un crescendo di prospettive, occasioni, intrecci; invece la realtà, con quel suo modo terribilmente enigmatico eppure mai insensato, ci porta sul sentiero meno battuto, a scontrarci con l’evidenza di un tramonto repentino giunto proprio quando «qualcosa stava accadendo». Ora tocca a chi resta, e perciò anche a noi, stare di fronte a questo tramonto (e alle molte specie di inaspettati e indesiderati tramonti che ciascuno conosce) per scoprirlo; cioè per scoprire se davvero anche in un tramonto possa esserci un inizio; se lì, dove un seme cade, sboccia un frutto.
Ascoltando i racconti e ricordi delle amiche e dei genitori di Alessandra, mi è tornata alla mente le veloce pennellata di parole con cui lo scrittore americano Wendell Berry descrive una figura femminile di un suo romanzo: «Il giardino di casa era il suo lavoro. Lei faceva di quel piccolo spazio un’ampiezza che non aveva eguali in paese». Non c’è dubbio che Alessandra fosse gioiosamente premurosa nel trattare il proprio spazio di vita come un giardino. Alessia mi racconta di come trovasse sempre sul tavolo di casa Pelizzi del buon prosciutto crudo, quando andava da loro: Alessandra, infatti, sapeva che quello era il cibo preferito dall’amica e non glielo faceva mai mancare. Addirittura si scusò la volta in cui si accorse che in frigo ne aveva solo una confezione già aperta. Non era una pura formalità, ma una sincera dedizione agli altri.
Don Damiano, suo insegnante al liceo classico dei salesiani, è rimasto colpito di aver ricevuto come regalo di fine anno proprio il libro di un autore che aveva citato una sola volta in classe. Nonostante la maturità da preparare, Alessandra si era presa l’incarico di pensare ai regali da fare ai professori e, benché ci fosse chi le aveva suggerito di scegliere un pensiero uguale per tutti, lei proprio non aveva tollerato la cosa: occorreva scegliere qualcosa di diverso e adatto a ciascuno. Era la persona del fare – commenta mamma Paola – e anche quando c’era molto da fare, il suo motto era: «Basta organizzarsi».
Un’opera da portare avanti
Tra le molte cose che si era organizzata a fare, perché le piaceva farlo, c’era la famosa torta Guinness preparata alle dieci di sera e da condividere coi compagni il giorno dopo a scuola, una volta finite le estenuanti prove in preparazione agli scritti della maturità. La cucina di casa non ne era uscita perfettamente immacolata, ma lo stomaco e il buonumore dei compagni ne avevano senz’altro beneficiato.
Ha ragione, in fondo, l’amica Giulia quando si commuove nel dire che Alessandra non ha lasciato niente in sospeso. Per quanto misterioso possa sembrare a chi resta, una vita di anche soli 19 anni si è compiuta. Il suo tramonto raccoglie un’orbita di esperienze, preferenze e scelte vissute, che non resta inerte tra le mani di chi è ancora qua. Se c’è un inizio possibile da scoprire anche dentro la ferita di un tramonto, lo intravedo nelle parole con cui Sofia mi racconta un episodio come tanti dei pomeriggi vissuti tra amiche. La moda del selfie è dilagante e lascia quasi intendere che sia facile guardarsi e mostrarsi agli altri. Nulla di strano, dunque, se quattro amiche avevano l’abitudine di alleviare la pesantezza dello studio pomeridiano mandandosi a vicenda dei selfie con facce buffe. Alessandra era l’unica tra loro che, inizialmente, non riusciva a farlo. Poi, dopo un po’, si era lanciata e alla fine le sue pose erano quelle più ironiche. Ecco, non è affatto spontaneo guardarsi, come non è affatto immediato avere una posa di sé da offrire al mondo. Ma imparare a guardarsi attraverso il sorriso degli amici probabilmente è la migliore via di conoscenza che esista. È una strada non fatta in solitaria, ma dentro un confronto fraterno che serve, anche quando non è in sintonia col nostro pensiero.
«Vi aspetto tutti in Paradiso». Don Damiano ha concluso l’omelia del funerale di Alessandra con queste parole di don Bosco e in esse, ancor più che verso Alessandra, il dito è puntato verso chi resta. Il tramonto svela sempre a chi lo osserva quante meravigliose sfumature di colori è capace di assumere il cielo. Così noi, sempre, ci accorgiamo del valore incommensurabile di ogni semplice vita quando la perdiamo. Questa ferita può ospitare il seme buono di un’opera da portare avanti, e non solo il dolore di un cruccio disperato.
Il tempo per il perdono
Nella sua cornice di mondo, Alessandra ha vissuto l’impegno che richiede lo stare ad ascoltare le persone, la premura con cui è bello dedicarsi agli amici, e stava scoprendo che in questo rapporto aperto con gli altri poteva sbrogliarsi e mettersi ben a fuoco anche il suo self, la sua persona. Ci ha lasciato uno spunto chiaro sul fatto che il Paradiso non è una faccenda di merito singolare e personale (qualcosa che mi meriterò, se sono stato bravo e buono), ma è una cordata umana che ci coinvolge già da ora e riguarda tutti quelli che incrocio sulla mia strada e insieme a cui condivido la fatica e l’impegno di dare un nome compiuto a me e al senso delle cose.
Misteriosamente, nel caso di Alessandra, di questa cordata umana ha fatto parte anche Pietro. Nonostante si fossero lasciati, lei è andata a trovarlo, quell’ultima tragica sera. E uno degli ultimi sms che lei ha scritto era rivolto a un’amica, che nel pomeriggio si era recata a casa sua, e diceva: «Se vuoi ti vengo incontro». Da questo suo congedo inizia qualcosa: l’ipotesi che a noi spetti continuare a percorrere il nostro tratto di strada andando incontro a tutto, ospitali alla comprensione (anche di ciò e di chi pare lontano, se non incomprensibile).
Alla veglia funebre Carlo Pelizzi ha ricordato anche lui, Pietro, il ragazzo che si è ucciso e ha ucciso sua figlia, e ha detto che ci sarà un tempo per il perdono. Ci sarà un tempo; a noi che restiamo è dato un tempo. Un tempo in cui possiamo affettare prosciutto; fare regali; perdere l’autobus e fare mille foto; perfino ascoltare la voce di chi sente come ultima risorsa disperata la violenza e, per il suo e nostro bene, imparare il perdono.
Annalisa Teggi
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