Perché nasciamo? E perché moriamo? Il filosofo Romano Guardini ci aiuta a comprendere il senso della vita e della morte
Guardini ci pone di fronte al mistero della morte richiamando con forza il lettore a quanto ci è estranea questa nostra condizione di mortali. Nessuna dimostrazione biologica ci convince che è per noi “naturale” morire. Se cosí fosse la morte non ci farebbe paura, ma saremmo pronti ad accettarla.
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La nostra vita – che strana cosa! È il presupposto d’ogni altra realtà: la prima che, se in pericolo, desta quella incondizionata reazione che chiamiamo “legittima difesa” e che ha il suo proprio diritto. Preziosa realtà, cosí preziosa che il miracolo della vita, a volte, può dar le vertigini – e ci si interrompe, e non si sa con quali termini descrivere adeguatamente la gloria di essere. Gioisce, rinuncia, soffre. Lotta e crea. Si unisce alle cose e, in tale unirsi, le anima. Si disposa ad altre vite, e non ne risulta una somma, ma cose nuove e varie. È per noi il fondamento e il principio di tutte – eppure quanto ci torna strana! O non è forse strano che noi, per guadagnare una méta, ne dobbiamo abbandonare un’altra? Per compiere positivamente qualche cosa, dobbiamo decidere, ossia staccarci dal resto? Volendo essere giusti con gli uni, facciamo torto altrui, fors’anche semplicemente per questo, che non riusciamo a comprenderli nell’occhio e nel cuore, perché l’occhio e il cuore non hanno posto per tutti. Nell’atto in cui l’esperienza ci fornisce dei dati, non possiamo avere la percezione immediata di tutto il processo. Poi, appena prendiamo consapevolezza, per ciò stesso interrompiamo il corso di quel processo. Mirabile cosa l’essere vigilante! Ma noi ci stanchiamo e, affidandoci al sonno, sfuggiamo a noi stessi. Fa bene dormire, ma non è avvilente che una metà della vita si debba consumare nel sonno? Vivere è unità: vuol dire essere presenti a se stessi e assimilare quello che ci circonda; serbare integra la propria personalità frammezzo ai fenomeni, e saper immettere, dall’altro lato, in ogni singolo atto, la pienezza del tutto.
Senonché, dappertutto si annunziano incrinature. Dappertutto si pone il dilemma: o questo o quello. E guai se recalcitriamo, perché l’onestà della vita dipende proprio dall’impostare nettamente il dilemma. Non appena presumiamo di piacere a tutti, diveniamo spregevoli. Non appena cerchiamo di cogliere tutto, non abbiamo piú nulla in ordine. Non appena mettiamo mano al tutto, la nostra personalità si sfalda.
Allora ci gettiamo in una decisione netta. Ma di nuovo: guai a noi! Noi dilaniamo la nostra esistenza. Proprio, la nostra vita ha qualche cosa d’impossibile. Essa deve volere ciò che non può – come quando in un piano determinato si inserisce fin dall’inizio un errore che poi influisce su tutto. E la fugacità, l’ineluttabile fugacità! È possibile che una realtà debba esistere unicamente al prezzo della sua distruzione? Non è la vita nulla piú di un passaggio? E non accelera il passo questo fatale andare nella misura della intensità con cui viviamo? Non si muore già mentre si vive? Non corrisponde a un’esasperante verità la definizione biologica che fa della vita il moto verso la morte? D’altro lato, che paradosso definire la vita in funzione della morte!
Ma è giusto poi quanto si afferma a proposito della morte? Dobbiamo proprio accettare le conclusioni della biologia? Le ricerche scientifiche insegnano che nei primi tempi i popoli sperimentavano la morte altrimenti da noi. Non la sentivano affatto come naturale, quasi il normale polo opposto alla vita. Per il loro sentimento la morte non ha bisogno di essere, e non ci deve neppure essere: se sopravviene, vuol dire che si rimonta verso una causa speciale, e precisamente verso una maligna potenza spirituale – anche là ove si tratti di una vita ormai consumata, o di una sciagura, o della morte in guerra. Cerchiamo un po’ di prender la cosa sul serio. Persuadiamoci: dov’è in gioco il senso supremo dell’esistenza, il semplice mortale potrebbe essere anche piú competente del dotto.
È proprio cosí naturale la morte? Se lo fosse, ci si dovrebbe adattare, e precisamente con il sentimento di un supremo dovere, sia pur cosí duramente pagato. Ma dov’è una morte siffatta? Vi è chi sacrifica la propria esistenza per un grande ideale, oppure, stanco sotto la pressura delle miserie della vita, accoglie la morte come una liberazione. Ma v’è un uomo solo che affermi la morte come un piano coronamento della sua esistenza? Io non l’ho ancora trovato, e quanto ho sentito a questo riguardo non era altro che chiacchiere intese a nascondere timore. L’atteggiamento normale dell’uomo di fronte alla morte è un atteggiamento di difesa e di protesta, che parte precisamente dall’intimo del suo essere. La morte non è naturale, e ogni tentativo d’intenderla a questo modo si risolve in un’infinita malinconia.
Questa nostra morte e questa nostra vita si appartengono a vicenda. Il romanticismo, assumendo vita e morte come i due poli dell’esistenza, quasi luce e tenebre, altezza e profondità, aurora e tramonto, dà prova di un vacuo estetismo, sotto il quale si nasconde un inganno infernale. Ha però un’anima di verità: la nostra attuale vita e la nostra attuale morte si appartengono a vicenda. Sono due pagine di una sola ed identica realtà. E appunto questa realtà in Gesú non c’era.
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R. Guardini, Il Signore, Vita e pensiero, Milano, 1988, pagg. 289-291
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