«La vita non è un videogame»

“I nostri ragazzi, tutti” vogliono conoscere, comprendere, capire. Vogliono essere felici: trovare ciò che dà senso alla vita. Non hanno, a otto anni, la presunzione già di “sapere”. Ascoltano e seguono i più grandi dei grandi della letteratura, della filosofia. Ascoltano, affascinati...

«La vita non è un videogame»

da Quaderni Cannibali

del 08 novembre 2011(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));

 

Lettera aperta a Concita De Gregorio: «La vita non è un videogame»

Cara Concita De Gregorio, non mi fossi accorta che ha voluto dedicare “ai nostri ragazzi, tutti” il suo ultimo libro Così è la vita. Imparare a dirsi addio, non le avrei scritto questa lettera. Sono davanti alla tastiera del computer e sono qui per la dedica che ha scelto. Perché sono convinta che “i nostri ragazzi, tutti”, di fronte alle Grandi Domande – come giustamente le chiama lei – meritano di più. Più di quel che possono trovare nel suo libro.

          Insegno italiano al liceo e, da anni, passo la maggior parte del mio tempo con i ragazzi e in compagnia (uso volutamente questo termine!) degli autori della letteratura che, dal primo all’ultimo, più o meno esplicitamente, le Grandi Domande sulla vita e sulla morte se le son poste da sempre, e da sempre hanno cercato di dar loro risposta. Ponendosele, sono volati altissimi e, contemporaneamente, sono scesi nella profondità più profonda di sé. Hanno spalancato la ragione fin dove la ragione poteva arrivare. Con la curiosità, il desiderio, il coraggio che caratterizza l’uomo vero, che guarda in faccia la realtà e non ha paura di chiamare le cose con il loro nome.

          Da loro, da tutti loro, ogni anno, a scuola, impariamo tantissimo. Il regalo dei grandi tra i grandi, siano essi credenti o non credenti, è il monito “non accontentatevi!”. Non accontentatevi di niente di meno rispetto a ciò che risponde pienamente alle domande del cuore. Le domande più grandi. E dà senso alle cose, tutte. E, dunque, anche alla vita e alla morte. Non accontentatevi, continuate a cercare.Pirandello, nel 1917, ha messo in scena l’opera teatrale “Così è (se vi pare)”, anticipando, con una preveggenza che dà i brividi, il relativismo che ora dilaga. Lei ha fatto un passo in più. Ha tolto il “se vi pare” e, scrivendo, nel prologo, “Ci siamo tanto divertiti”, ha deciso di titolare poi il libro “Così è la vita”. Punto. Leggo prologo e titolo, arrivo alla fine del testo, faccio due più due (anzi, uno più uno) e me la immagino, Concita, con un sorriso (vero? finto?) sulle labbra, ma la rassegnazione nel cuore.

          A scanso di equivoci, desidero precisare che, rispetto alla vita e alla morte, lei può dire, fare e pensare ciò che crede, ma “i nostri ragazzi, tutti” – permetta – meritano più della sua rassegnazione. “I nostri ragazzi, tutti” hanno diritto alla speranza.E’ vero: non è frase sua, quella di pagina 42, ma di Françoise Dolto: “Si muore quando si è finito di vivere”, ma anche un bambino, il bambino a cui quella frase dovrebbe esser rivolta per fargli accettare l’ineluttabilità della morte – è l’esperienza di mamma a dimostrarlo – non si accontenta: non si ferma lì. Immancabilmente arriva il momento in cui chiede “e ‘dopo’?”.

          E ‘dopo’? E’ qui che le nostre strade si dividono. E’ su questa domanda che l’essere umano non molla. Lo insegna la filosofia. Lo insegnano gli autori delle letteratura mondiale. Lo insegnano… i bambini e i ragazzi che incontriamo ogni giorno e che questo quesito (non “cos’è la morte”!) ci pongono. Possiamo anche tenere gli occhi chiusi, in realtà: non aver mai studiato filosofia, non aver mai letto un romanzo o una poesia. Ce lo domanda il cuore, insistentemente. “E ‘dopo’?”.Le sue 122 pagine si fermano al “prima”.Lei dice, giustamente, che la morte non deve essere un tabù né per chi muore, né per chi resta, e che bisogna parlarne. D’accordo, parlarne. Ma come? Pagina 35. “Non c’è più morte dopo la morte, la morte – la sua paura, il suo incanto – vengono via con te. I bambini lo sanno. Sanno che per non avere più paura bisogna far amicizia con la paura”.

          Semplice come bere un bicchiere d’acqua. Bacchetta magica e il gioco è fatto. Ne parli (e straparli) e sparisce la paura della morte. Sparisce perché viene via con te. Muori e non senti più nulla, perché dopo la morte non c’è nulla. Questo, il messaggio.E così, da qui in poi, nel suo libro abbondano i suggerimenti e le strategie per far amicizia con la “bambina vestita con un abito a quadretti ottocentesco, la testa in forma di teschio, un tulipano in mano stretto dietro la schiena. La morte”. Sono consigli prevalentemente di lettura, i suoi. I libri dei coniglietti suicidi, disegnati dal quarantenne inglese Andy Riley: coniglietti che “tentano il suicidio in centinaia di modi: cervellotici e violenti, geniali e semplicissimi, sempre con quello sguardo inespressivo e placido come se stessero mangiando erba”. O i Piccoli Macabri, di Edward Gorey: ventisei bambini, uno per ogni lettera dell’alfabeto, che muoiono a causa di altrettanti tragici destini. “Ho riso fino alle lacrime”, scrive, “leggendo Piccoli suicidi tra amici, il romanzo in cui il finlandese Arto Paasilinna racconta la storia della Libera associazione morituri anonimi, un gruppo di aspiranti suicidi che gira l’Europa in pullman cercando il posto ideale per uccidersi”. C’è da ridere di fronte al tema, drammatico, del suicidio? A sentir lei sì, c’è da ridere. “Un esorcismo. L’esorcismo del pensiero della morte capace di tenere insieme l’attrazione e la paura con l’unico linguaggio universale possibile: l’ironia”.Mi creda: ho tenuto la mano ad abbastanza persone consapevoli che sarebbero morte di lì a poco, per immaginare che sarebbe stato di un qualche sollievo legger loro la storia dei coniglietti suicidi. O che avessero forza, e voglia, di una crassa risata. O di un ghigno, magari…

          Lei pensa che, per abbattere il tabù della morte, sia sufficiente mostrarla, esibirla, sbeffeggiarla. E lo scrive, anche: “Non c’è fiaba senza cattivo da domare. Domarlo facendoci amicizia – se non lo puoi eliminare, cancellare, se non lo puoi sconfiggere – è l’unica scelta possibile”.Vede, Concita, il punto sta qui. Agli esseri umani tutti: di ogni età, di ogni sesso, di ogni tempo, di ogni latitudine, quel che manca non sono le nozioni mediche o le tautologie (“si muore quando si è finito di vivere”). E’ trovare o ri-trovare il senso delle cose. E’ questo che dobbiamo “ai nostri ragazzi, tutti”. Aiutarli a comprendere perché si nasce, dato che non ci siamo fatti. Non abbiamo chiesto noi la vita: l’abbiamo ricevuta in dono. Aiutarli a capire cosa accade quando, ad un certo punto, il nostro tempo finisce.

          Il Vangelo della domenica ci ha ricordato la parabola delle vergini stolte e delle vergini sagge. Per noi cristiani c’è una festa che ci attende, “di là”. C’è uno Sposo. C’è l’abbraccio misericordioso di Cristo risorto che – Lui sì! – ha vinto la morte. Fatti ad immagine e somiglianza di Dio, al Suo stesso destino di gloria siamo stati chiamati. E’ questa certezza che dà direzione alla vita, perché le ricorda che il traguardo sarà non la morte (che, mi permetta, non è proprio “amica” di nessuno!), ma il “dies natalis”. E la festa sarà “per sempre”.

          “Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te, Domine”, ha scritto S. Agostino. L’inquietudine che si percepisce tra le righe del suo libro e che la spinge a girovagare quasi ossessivamente tra funerali, e morti, e racconti che l’han fatta “morir dal ridere”, non approdando nell’abbraccio di un Padre che ci ama e ci attende, approda ad una considerazione che, come un castello di carte, crolla però, e necessariamente diventa silenzio, di fronte ai dati, ineludibili, della realtà. Riportando un dialogo sui videogames col suo amico Emilio, esperto del settore, lei infatti scrive: “Il controllo sulla paura, della vita e della morte, del senso della propria esistenza. Non c’è potenza senza controllo diceva una pubblicità tempo fa, ti ricordi? Ecco, controllare le proprie capacità e i propri limiti – dominare le reazioni e governare le scelte – è diventata la nuova frontiera dei videogames. Ma anche nella nostra vita è così. Almeno nella mia sì. Nella tua?”. A questa domanda di Emilio lei non risponde. Saggiamente non risponde, perché è la vita che ci interessa: la nostra e quella dei nostri cari. E il cuore lo sa che la vita non è un videogame. Il cuore lo sa che può smettere di battere da un momento all’altro. Si chiama “muscolo involontario” per questo. Non siamo noi a controllarlo. Non ci siamo dati la vita e non possiamo decidere di vivere nemmeno un secondo in più di quanto vivremo. E dunque, “controllo”… di che?

          Certo, scimmiottando i “suoi” coniglietti suicidi, fosse qui mi risponderebbe che, padroni (?) della nostra vita, possiamo decidere quando farla finita. In effetti lo scrive, nel suo libro, al capitolo 14, quello dedicato all’eutanasia. Lo scrive, quando racconta della ragazza del romanzo “Vi perdono”, che “trova una ragione di vita nel portare sollievo ai malati terminali e abbreviare l’agonia di chi non può e non vuole vivere senza dignità”. O della giovane che inietta l’overdose fatale al protagonista delle “Invasioni barbariche”. Per pietà, si capisce…

          Il nocciolo sta qui. Puoi anche tentare in tutti i modi di “far amicizia con la morte”, come dice lei, ma se non hai, nel cuore, la certezza gioiosa di essere stato creato per l’eternità, ad avere la meglio è la rassegnazione. O la disperazione che ti fa seguire la strada dei coniglietti suicidi, che quando li leggi “ti diverti da morire”, o, per pietà (?), la “carriera” della protagonista di “Vi perdono”.A pagina 4, ricordando la morte di Carlo, ha scritto che la figlia, al funerale, ha letto un biglietto di due righe: “Io nego quello che si dice. Che chi muore va in paradiso oppure dal diavolo. Mio padre non è andato né in paradiso né dal diavolo. E’ andato nel mio cuore”. E commenta: “Io nego, una certezza senza discussione proclamata da una persona di otto anni”.

          Cara Concita De Gregorio, non so lei, ma io, i miei figli ora adolescenti, i ragazzi che incontro a scuola la mattina, le persone che conosco, gli autori di letteratura e di filosofia che ho studiato… chi è così stolto da sbarrare le porte della ragione a otto anni e a rendersi indisponibile ad accogliere, con stupore, le scoperte di ogni giorno?“I nostri ragazzi, tutti” vogliono conoscere, comprendere, capire. Vogliono essere felici: trovare ciò che dà senso alla vita. Non hanno, a otto anni, la presunzione già di “sapere”. Ascoltano e seguono i più grandi dei grandi della letteratura, della filosofia. Ascoltano, affascinati, non chi gli tappa la bocca con un rassegnato “Così è la vita. Imparare a dirsi addio”, ma chiunque dica loro: “Non mollate! Cercate ancora, e sempre. Fino all’ultimo secondo di vita, se occorre…”.          P.S. Peccato che, a pagina 45, quella che sottolinea quanto sia importante recuperare i nomi delle cose, e il loro senso profondo, non le sia venuto in mente di riflettere sull’ultimo termine scelto per il titolo: “Addio”, che significa “ad – Deum”… Vede che il suo cuore lo sa? Ci rivedremo lì, da Lui.

E’ il saluto e l’augurio più bello e più vero…

Saro Luisella

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