La Quaresima torna ogni anno a proporsi come un tempo di discernimento (siamo cenere) e di allenamento (ma siamo chiamati alla lotta).
La Quaresima torna ogni anno a proporsi come un tempo di discernimento (siamo cenere) e di allenamento (ma siamo chiamati alla lotta).
Le due cose vanno insieme, perché il giudizio della mente rischia sempre di annebbiarsi nella confusione, e i muscoli del cuore di indebolirsi nell’inerzia.
La lucidità dello sguardo è premessa importante per non perdersi o perdere tempo; l’agilità della volontà, infatti, non può esercitarsi a dovere se non si sa bene per quale scopo operare ma, nel contempo, è lo stesso retto operare che aiuta a veder chiaro.
La stagione che segna il passaggio dall’inverno alla primavera ci offre quaranta giorni di revisione e di esercitazione.
Trovo nella Seconda Lettera a Timoteo un grappolo di tre figure che mi pare costituiscano un ottimo programma per vivere bene la Quaresima. Questo testo, attribuito a Paolo, si rivolge a una comunità che si trova a fare i conti con numerosi “avversari”, in un contesto di lotta, quindi, e che rischia di scoraggiarsi perché il “suo” apostolo è “in catene”. Su questo sfondo la Seconda Lettera a Timoteo è stata suggestivamente descritta come un’«esortazione testamentaria in forma di lettera d’amicizia» (Weiser).
I due aspetti segnalano la rilevanza di quanto vi è scritto. Nel testamento si trova la sintesi di una vita, le cose più importanti che uno ha imparato e che intende lasciare a persone che sente come amici, un rapporto che, non solo introduce nel discorso un commovente aspetto affettivo, ma che è anche un indicatore del modo con cui lo stesso messaggio di fede viene trasmesso: non solo, e neanche soprattutto, da maestro a discepolo, ma ancor più da amico ad amico.
Il passo che può fornire un buon programma quaresimale dice:
Nessun militare si lascia intralciare da faccende comuni, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato.
Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole.
Il contadino, che lavora duramente, deve essere il primo a raccogliere i frutti della terra (2Tm 2,4-6).
In testa a queste tre immagini sta un invito preciso: «Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me», dice l’apostolo, dal che risulta chiaro che l’accento è sullo sforzo, sulla fatica, sull’impegno, anche se occorre notare che questo si fa “insieme”, e nella luce della sequela di Gesù.
Il discorso però non è a senso unico, perché nelle tre immagini si parla anche della ricompensa: il “piacere” di chi ci ha arruolato, il “premio” per chi ha gareggiato nella lotta, il “frutto” per chi ha seminato e coltivato.
In queste tre “figure” del cristiano, su cui fare discernimento, è facile vedere tre corrispondenti “virtù” che chiamano in causa la volontà, le due cose insieme, come si è detto.
La disciplina del soldato
Disturbati e inquietati come siamo dalle tante guerre che continuano a imperversare, il lessico militare non è più di moda. Ma una cosa è la guerra, altra il linguaggio della militanza, che non ha per niente perso di rilievo. Era più facile coglierne il senso, e persino il fascino, in tempi in cui l’ostilità contro i cristiani si esercitava con virulenza, come accade ancora oggi in certi luoghi e situazioni. Ma non si dimentichi che tale linguaggio emerge non solo in coincidenza con ostilità esterne, ma anche in periodi in cui un diffuso torpore della vita di fede incita persone e gruppi a un sobbalzo di radicalità.
Non è un caso se questa è la figura che apre la Regola di San Benedetto, dove il monaco è descritto come colui che «imbraccia le armi gloriose e potentissime dell’obbedienza per militare al servizio del vero re, Cristo Signore» (Prol. 3), e i cenobiti sono coloro che «militano sotto una regola e un abate» (1,2), costituendo quella che viene poi definita come fraterna acies, cioè “truppa di fratelli” (1,5).
La frase non contiene alcuna contraddizione, perché non ci si mette insieme per “farsi la guerra”, ma per essere in grado, in uno sforzo comune, di “fare la guerra” contro ogni forma di male: pugnare contra diabolum.
Mi pare solo naturale collegare la figura del soldato con la disciplina, ricordando anche che esercito ed esercizio hanno la stessa radice: vengono da un verbo, exerceo, dal senso piuttosto rude se non decisamente violento: letteralmente, “cacciar fuori da uno stato di riposo”.
E disciplina significa insieme un “imparare” (discere) e lo “sforzo” necessario per arrivarci. Non c’è spazio per scendere nei dettagli, ma credo sia facile per ognuno interrogarsi su come viva quella dimensione della fede che è l’impegno, spesso oscuro e poco gratificante, che rende però il cuore agile e disponibile anche a cose grandi.
In questa luce, le “faccende comuni”, che non ci devono fare da ostacolo, non potrebbero essere lette come le numerose “caccole” cui diamo forse troppa importanza e che rischiano di sottrarre energie dovute a obiettivi più essenziali e alla fine più gratificanti? Ci sono “distrazioni” anche buone e necessarie, e altre che non lo sono affatto.
Primo impegno: esaminarsi su come gestiamo tempo, interessi, relazioni, persino certo modo di lavorare che genera solo irrequietezza e agitazione. C’è dunque un re-centramento su cose essenziali da mettere in atto e, di riflesso, un’opera di sfrondamento e di semplificazione rispetto a ciò che disperde; c’è un “digiuno” da fare, e non solo riguardo al cibo.
L’entusiasmo dell’atleta
Chi provasse un qualche fastidio per la metafora e il lessico militare può riscattarsi adottando quello sportivo. Purché sia ben chiaro che non si tratta qui dello sport domenicale da godersi in poltrona davanti a un televisore o anche seduti nelle tribune di uno stadio, ma di quello che si pratica negli allenamenti di settimana, noiosi, ripetitivi, senza spettatori ad applaudire: sport sì, ma feriale!
Ogni disciplina è faticosa, e la si accetta e sopporta solo se, e fino a quando, ci sorregge il fervore generato da un obiettivo che ci sta a cuore. Per un atleta è la vittoria in una gara, per un musicista è un successo a un concerto. È facile incantarsi davanti a un “esito” trionfale, ma è pure altrettanto facile dimenticare il prezzo del trionfo, giorni e giorni di esercizi sempre uguali, spesso praticati in solitudine, e tutto per l’emozione finale, che non è neanche sempre assicurata.
Nella vita spirituale accade lo stesso. Contro il senso di fatica occorre tenere caldo il fascino dell’ideale, rigenerarlo quando si intiepidisce, attizzarlo alla luce degli esempi di chi, più generoso di noi, ci cammina davanti invitandoci tacitamente a seguirlo.
La banalità, la piattezza, esempi deprimenti di comportamenti insulsi di singoli e di grandi istituzioni, tutte, Chiesa inclusa, sono cenere che rischia di soffocare ciò che a volte sopravvive come una languida brace, il misero rimasuglio di un sogno, di un ideale che un giorno ci ha scaldato il cuore. Credo che un buon esercizio quaresimale possa consistere nel riaccendere entusiasmo per le cose grandi.
Oltretutto, rimanendo nella metafora dell’atleta, Paolo ci dice che «nello stadio corrono tutti, ma uno solo conquista il premio. Correte anche voi in modo da conquistarlo. Essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre» (1Cor 9,24-25).
Sono tante le zone della cristianità in cui persone generosissime lavorano in condizioni terrificanti per portare sollievo e conforto a chi sta male: non vanno mai a finire sui giornali, ma ci sono libri e riviste che raccontano le loro fatiche quotidiane.
La storia della Chiesa e del mondo è ricca non solo di vergognose catastrofi, ma anche di figure splendide che dell’entusiasmo per la carità e la giustizia hanno fatto l’obiettivo della loro gara con la vita, fino, a volte, a morirne.
La lettura è un esercizio consigliato per la Quaresima: la Regola Benedettina prescrive che al monaco venga dato un libro all’inizio di questo tempo con l’impegno di leggerlo (RB 49,15-16): allora erano le Istruzioni di Cassiano o gli esempi delle Vite dei Padri, con l’intento, precisamente, di illuminare la mente e scaldare la volontà. Perché non programmare per questa stagione liturgica un tempo in cui, leggendo un buon libro o una rivista missionaria, coltiviamo l’entusiasmo? Perché non partecipare a quegli incontri con dei “testimoni” che vengono spesso organizzati nelle parrocchie e in altri centri?
La pazienza del contadino
Il terzo passo da fare è essenziale se non si vuole che tutto crolli. La figura del contadino diventa decisiva al riguardo. C’è in lui un elemento di “passività” che è importante. Mentre nell’esercizio di mortificazioni ed elemosine, così come nel suscitare in noi entusiasmo, è facile sentirsi protagonisti in toto, il contadino sa che deve fare i conti con forze che non dipendono da lui: se vuole vedere il frutto, lo deve attendere (cf. Gc 5,7).
La pratica scomparsa della cultura contadina in gran parte delle nostre terre ha avuto come risultato la scomparsa della pazienza, così come della lentezza. Un esempio pratico. Se dopo un colloquio appagante con uno sconosciuto, costui mi chiede l’indirizzo email con l’evidente scopo di continuare il contatto, appena si sente dire che non possiedo email, quello che sembrava essersi acceso come entusiasmo comunicativo si spegne all’istante. Non commento. Ma è comunque evidente che, se l’entusiasmo serve a far partire, la pazienza è necessaria per arrivare. Viene per ultima, ma è la salvezza di tutto.
E, dunque, sarebbe una bella contraddizione decidere rinunce e sacrifici volontari, che subdolamente potrebbero anche servire ad accontentare l’ego, e non riuscire poi a sopportare cose, e persone, che ci si mettono di traverso, che ci obbligano a stare in situazioni che non ci piacciono, a fare cose che non vorremmo.
Si è ricordato più volte che il termine greco che indica la pazienza è traducibile anche come costanza e perseveranza. È questo il tracciato più importante del cammino quaresimale, ed è qualcosa che probabilmente scintilla di meno (ci sono forse medaglie per gare di pazienza?), ma che ha il vantaggio sicuro di “portare frutto”.
Fonte: Note di pastorale giovanile
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