Se la morale di S.Paolo si compendia nell' amore, ne viene che non può trattarsi se non di una morale di libertà: quando infatti conosce la costrizione, l' amore cessa di esser tale.
del 01 gennaio 2002
Se la morale di S.Paolo si compendia nell' amore, ne viene che non può trattarsi se non di una morale di libertà: quando infatti conosce la costrizione, lo amore cessa di esser tale. Si può dire che Paolo ha lottato per la «libertà cristiana» per tutta la durata della sua vita apostolica, avendo la Provvidenza fin dal principio permesso che egli incontrasse sulla sua strada, dall'inizio alla fine, quei «falsi fratelli», dei quali parla nella lettera ai Galati, «intrufolatisi per spiare la libertà che abbiamo nel Cristo Gesù, per ridurci schiavi» (Gai. 2,4) 1. Si tratta pertanto di una dottrina che l'Apostolo ha particolarmente cara; ma proprio per questo è tanto più importante comprenderla bene. Ecco alcune formule, scelte tra molte, che ci aiuteranno a precisare il suo pensiero .
Se lo Spirito vi anima, voi non siete più sotto la legge (Gal. 5,18).
Il peccato non avrà più dominio su voi, perché non siete sotto la legge ma sotto la grazia (Rom. 6,14).
Dove è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà (2 Cor. 3,17).
Quando dichiara che i cristiani non sono sotto la legge, Paolo certamente non intende dire loro semplicemente che essi non son più tenuti a osservare i riti e le cerimonie imposte dalla legge mosaica; se pensa al codice mosaico, lo fa non in quanto questo è mosaico, ma in quanto realizza il concetto stesso di legge. Grave inganno sarebbe, infatti, immaginarsi che per Paolo Cristo si sia contentato di sostituire la legge antica, caduta in disuso, con un'altra legge indubbiamente più perfetta, ma di natura identica. È vero che una volta egli parla di «legge del Cristo» (Gal. 2,6); ma ordinariamente quel che Paolo oppone alla legge antica non è un'altra legge, bensì la grazia. In altre parole, non è una norma oggettiva, esterna, di bene e di male, bensì un principio interiore di attività, un «dinamismo», la vita stessa di Dio in noi: «Voi non siete sotto la legge, ma sotto la grazia» (Rom. 6,14). Infatti ogni legge, qualunque essa sia, si presenta all'uomo come una regola di condotta posta al di fuori di lui stesso. Espressione qual è della volontà divina, specie quando si tratta di legge rivelata, essa non può essere che buona, santa, anzi «spirituale» (Rom. 7,14). In questo senso, come dice San Tommaso nel commento a Rom. 8,2, la legge antica era un «dono dello Spirito Santo»; ma, continua il Dottore Angelico, la «legge nuova» è «legge dello Spirito» (Rom. 8,2) nel senso che è «compiuta in noi dallo Spirito Santo»: essa è anzitutto un dinamismo interiore che, secondo un'altra formula di San Tommaso, «opera in noi l'amore, che è la pienezza della legge». Proprio per questo il cristianesimo non è innanzitutto una filosofia, né un sistema di pensiero, e nemmeno un sistema sociale: esso è una vita. Non si esprime in un codice di leggi, per quanto sublimi esse siano, ma in una Persona. A dispetto dell'etimologia, il «discepolo» (dal latino discere) non è colui che «impara» un catechismo, approfondisce una dottrina, registra fedelmente nella memoria il maggior numero possibile di sentenze impeccabilmente ritenute - un po' come Paolo aveva fatto un tempo ai piedi di Gamaliele (Atti 22,3). No: il discepolo è principalmente colui che entra in contatto intimo con Cristo, lo «segue», e non lo fa limitandosi ad accompagnarlo nel corso dei suoi viaggi per raccogliere con cura fin la più piccola parola caduta dalle labbra di lui, ma ne condivide la vita, sale con lui al Calvario per morire e risorgere insieme con lui. Cristiano per San Paolo è colui nel quale vive Cristo (Gal. 2,20), colui che è animato dallo Spirito Santo che, essendo lo Spirito del Figlio, gli dà la £li azione e gli permette di rivolgersi a Dio con lo stesso appellativo di abbà di cui si serviva «il Figlio». Ben più che una guida o un maestro che lo diriga o lo istruisca dall'esterno, lo Spirito Santo è un principio d'azione interiore, che «opera in lui l'amore», gli fa il dono di amare. Così «animato dallo Spirito, agendo in virtù di questo principio interiore, il cristiano è libero, indipendente da qualsiasi costrizione puramente esterna, senza peraltro divenire lo zimbello del suo proprio capriccio. San Paolo lo spiega con tutta la chiarezza desiderabile in una pagina della lettera ai Galati, che riassumo.
Lasciatevi condurre dallo Spirito e non correte rischio di soddisfare la concupiscenza carnale. Ché tra lo Spirito e la carne vi è antagonismo: se seguite l'uno non potrete che apporvi all'altra. Ma se lo Spirito vi anima, non avete più legge di sorta che vi costringa dall'esterno. Ognuno che è animato dallo Spirito sa perfettamente ciò che produce la carne, e ne ha orrore, se è animato dallo Spirito: fornicazione, impudicizia, libertinaggio, idolatria, magia, odi, discordie, gelosie, ecc. Se commetteste simili colpe, sarebbe quella una prova certa che lo Spirito non vi anima - e in tal caso non fate conto di avere parte al regno di Dio. Ma, dal momento che lo Spirito vi anima, non può essere che voi non produciate il suo frutto, giacché esso è unico: l'amore, con tutto il suo corteggio di virtù, che sono altrettante espressioni dell’ amore: gioia, pace, longanimità, disposizione a servire, bontà, confidenza negli altri, dolcezza, padronanza di sé (cfr. Gal. 5,16-23).
Il cristiano, pur senza essere costretto dalla legge, ne compie la «giustizia»; meglio ancora, secondo la formula scelta da San Paolo, questa giustizia «è compiuta» in lui dallo Spirito (Rom. 8,4).
Certo, la legge è buona, a patto che se ne faccia uso come di una legge, sapendo bene che essa non è stata istituita per il giusto, ma per gli insubordinati e i ribelli, gli empi e i peccatori, ecc. (1 Tim. 1 ,8-9).
Questa affermazione a prima vista non manca di sorprendere. E tuttavia non vi è principio più esatto. Se noi fossimo tutti dei «giusti», fossimo cioè «animati dallo Spirito», non ci sarebbe punto bisogno che fossimo costretti da leggi. Fintantoché i cristiani si accostarono con frequenza alla comunione, la Chiesa non ebbe mai l'idea di far loro obbligo di comunicarsi una volta all'anno. Ma, col diminuire del fervore, essa promulgò il precetto della comunione pasquale, e questo per rammentar loro che non è possibile possedere la vita divina senza nutrirsi della carne e del sangue di Cristo. Al precetto tutti sono tenuti, ma in realtà esso non ha in vista il cristiano fervente, il quale continua a comunicarsi anche durante il tempo pasquale non già per obbedire al quarto precetto della Chiesa, ma per quella esigenza interiore che lungo tutto l'arco dell'anno lo spinge a comunicarsi ogni domenica o anche quotidianamente. Non che egli non sia tenuto da questo precetto, ma sta di fatto che, finché proverà questa esigenza interiore, compirà il comando (e lo farà con sovrabbondanza) senza nemmeno pensarvi. Questo è quanto San Tommaso, spiegando proprio la parola di San Paolo: «Dove è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà» (2 Cor. 3,17), dice con termini che non mancano di audacia: «L'uomo libero appartiene al suo padrone. Così chiunque agisce da sé è colui che appartiene a se stesso, agisce liberamente; lo schiavo, invece, è colui che riceve da un altro il proprio movimento e quindi non agisce liberamente. Pertanto colui che evita il male, non perché è male, ma a motivo di un precetto del Signore - vale a dire per la sola ragione ché è proibito - costui non è libero. Chi invece evita il male perché è un male, questo sì che è libero. Ora proprio questo è quanto opera lo Spirito Santo, il quale perfeziona interiormente il nostro spirito comunicandogli un dinamismo nuovo (la grazia), per modo che egli si astiene dal male per amore, come se glielo comandasse la legge divina. E così egli è libero non in quanto non è sottomesso alla legge divina, ma perché il suo dinamismo interiore lo porta a fare ciò che la legge divina prescrive». Quando invece in questo cristiano l'esigenza interiore non si facesse più sentire, ci sarebbe la legge per costringerlo. Ora precisamente, il «peccatore»è per definizione colui che non è più animato dallo Spirito Santo. La legge pertanto è necessaria e avrà per lui la stessa funzione che la legge mosaica aveva per il giudeo. «Pedagogo per condurlo a Cristo» (Gal. 3,24), essa non solo sarà in qualche modo il surrogato della luce che non gli viene dallo Spirito Santo, ma soprattutto gli permetterà di rendersi conto del suo stato di peccatore (Rom. 3,20), condizione prima perché possa trovare la guarigione. Se il cristiano ha perduto la vita di Dio, la ragione sta in questo, che s'è compiaciuto di se stesso, come Adamo nel paradiso sotto l'istigazione del serpente: si è creduto giusto per le sue forze ; si è fatto in qualche modo eguale a Dio: «Sarete come Dio» (Gen. 3,4). Questo è per San Paolo il «peccato» per eccellenza; è qualcosa di molto più radicale e profondo della semplice violazione di un precetto: è una potenza malefica che vorrebbe passare per amica dell'uomo ma, incitandolo a violare il precetto di Dio, si smaschera rivelandosi come una potenza di morte che oppone l'uomo al suo Creatore e lo separa da lui . Indubbiamente così facendo essa espone il peccatore alla «collera» di Dio (Rom. 4,15), ma lo forza pure a ricorrere alla sua misericordia, la sola da cui gli può venir la salvezza Se è vero che la legge è istituita per i «peccatori», non è detto tuttavia che non presenti qualche utilità anche per i giusti. Il cristiano infatti, per quanto «animato dallo Spirito Santo», finché abita quaggiù, cioè in un certo senso «nella carne» (Gal. 2,20), non è mai a tal punto libero dal dominio del peccato, che non possa ricadervi ad ogni istante. In questa condizione instabile la legge scritta, esterna, norma oggettiva di condotta morale, sarà d'aiuto alla sua coscienza, tanto facilmente oscurata dalle passioni, a discernere senza possibilità di equivoco le «opere della carne» dal «frutto dello Spirito» (Gal. 5, 19. 22). Ecco perché San Paolo non ha creduto inopportuno richiamare ai suoi destinatari i peccati da evitare e le virtù da praticare . Questo è pure il motivo per il quale la legge nuova, che si rivolge a cristiani tuttora in marcia verso il cielo e non ancora giunti al termine, conterrà un codice di leggi da osservare. Ma - e San Tommaso lo ripete insistentemente - si tratta di un elemento «secondario»; il «principale» è la grazia, dinamismo interiore che consiste nella «fede che opera mediante la carità». La Legge è un elemento secondario necessariamente ordinato all'elemento principale; unico fine della legge scritta sarà di assicurare in noi il regno di questa mozione interiore dello Spirito, di permetterei di non confonderla con l'inclinazione della nostra natura ferita dal peccato e di agire sempre in conformità con essa. La legge si ridurrà dunque, in definitiva, all'unico precetto dell' amore . Un cristiano, perciò, non può accontentarsi di un'osservanza vuota d'amore. Per lui non si tratta mai di eseguire un ordine, come «per mettere in pace la coscienza», ma ben piuttosto di esprimere il proprio amore eseguendo questo ordine, meglio ancora, prevedendolo. Egli si sforzerà dunque sempre di penetrare il senso stesso delle leggi alle quali d('ve obbedire, vale a dire di percepire come esse non facciano altro che applicare il precetto stesso dell' amore alle diverse circostanze nelle quali l'uomo si trova.
Fratelli miei, noi abbiamo ricevuto una vocazione alla libertà; solo facciamo attenzione che questa libertà non si muti in pretesto per la carne; mettetevi invece per la carità al servizio gli uni degli altri (Gal. 5,13
In questo modo Paolo risolve l'opposizione tra libertà e legge. La libertà cristiana è ben lungi dall' essere un appello alla facilità; che anzi essa è la più esigente delle vocazioni, essendo un appello all'amore. Ora, nulla è più esigente dell'amore. L'Apostolo ricorre difatti a un termine fortissimo, il più forte che esista: «Fatevi schiavi gli uni degli altri». Schiavi! e i suoi destinatari sapevano per esperienza che cosa significasse la schiavitù. Infatti - continua egli - un solo precetto contiene tutta la legge nella sua pienezza: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal. 5,14).
La vita cristiana è dunque una schiavitù? Si. Ma una schiavitù d'amore. Di conseguenza, essa è la suprema libertà.
Stanislao Lyonnet
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