A Camporotondo, un posto non lontano ma neppure vicino, viveva un terribile orco. Era gigantesco, sporco, puzzolente e si metteva sempre le dita nel naso.
Naturalmente non aveva amici e tutti quelli che lo vedevano scappavano gridando per lo spavento.
Come tutti gli orchi divorava tutto quello che trovava, sbrodolandosi tutto.
Si era già mangiato tutte le bestie della foresta: tutti i cervi, i bufali, i cinghiali e le lepri. Aveva abbattuto gli alberi per farsi degli stuzzicadenti e come dessert si era pappato 27 piantagioni di pesche, mele e albicocche.
La gente del paese era disperata. Che cosa avrebbe mangiato adesso l’orco?
Lo scoprirono presto.
Un giorno, l’orco incontrò un pastore con il suo gregge. Cominciò a ingoiare una pecora dopo l’altra e, alla fine, si pappò anche il pastore. Tutto intero senza masticarlo.
«Questo è giusto uno spuntino», bofonchiò l’orco con la sua vociaccia sgradevole. «Ho ancora fame».
Severina e Bartolomeo, due brave persone, andavano al mercato sulla loro vecchia automobile. Erano arrivati ai margini del paese, quando una manona acchiappò la macchina e la sollevò da terra. Era l’orco. Aprì la sua bocca enorme e inghiottì tutto: Severina, Bartolomeo e l’automobile che scoppiettava ancora.
La gente del paese si chiuse in casa, sprangò le porte e rinforzò le finestre. Molti si nascosero in cantina. L’orco, a passi lenti e pesanti, si diresse verso la scuola. Sbadigliò perché aveva ancora fame e poi allungò le mani bisunte con le unghione orlate di nero.
«Mangia prima la maestra!», gridarono i bambini.
L’orco spalancò la boccaccia, mangiò la maestra e poi tutti i bambini della scuola.
«Ora sto meglio!», tuonò soddisfatto. Fece un ruttino, starnutì e se ne andò a fare la siesta in campagna.
Tutta la gente di Camporotondo si radunò nella piazza del municipio. Le mamme e i papà piangevano tutti. Chissà come stavano i loro bambini nella pancia dell’orco. Non si erano portati la giacca a vento e non avevano neanche la merenda!
«Mandiamo i soldati!». Gridarono il sindaco e i consiglieri.
Detto fatto. Mezz’ora dopo un battaglione di soldati con le armi e l’elmetto, 14 carri armati e 25 cannoni, si schierò intorno all’orco. Quando tutti ebbero preso la mira, il generale gridò con voce stentorea: «Fuoco!».
Una pioggia di proiettili si abbatté sull’orco. Non lo svegliarono neanche. Solo un grosso proiettile di cannone, che gli era entrato in un orecchio, gli fece il solletico. L’orco si girò su un fianco e schiacciò tutti i cannoni. I poveri soldati, mortificati, si ritirarono in caserma.
Chi avrebbe fermato il terribile orco?
Il sindaco e i consiglieri si tenevano la testa fra le mani, cercando di farsi venire un’idea. Ma è difficile avere delle idee, quando si ha una gran tremarella!
Improvvisamente, il sindaco si sentì tirare la giacca. E vide una bella bambina dai capelli castani e gli occhi verdi. Si chiamava Mimì e quella mattina non era andata a scuola perché era appena guarita dall’influenza.
«Perché non proviamo semplicemente a chiederglielo?», disse Mimì.
«Che cosa?», chiese stupito il sindaco.
«Chiediamo all’orco di restituirci i bambini e poi di lasciarci in pace».
Il sindaco e i consiglieri cominciarono a sghignazzare.
«E chi ha tanto fegato da andare a chiederglielo?».
«Io», disse semplicemente Mimì. E, prima che qualcuno pensasse di fermarla, la bambina si era abbottonata ben bene il golfino rosa e si era messa in cammino.
Tutta la gente rimase a guardarla a bocca aperta. La bambina camminava decisa, con i suoi passettini rapidi. Sembrava un bocciolo di rosa trasportato dal vento della sera.
Bastavano cinque paroline
L’orco russava così forte che la terra tremava. Ma non tremava Mimì. La bambina si fermò davanti all’orribile facciona dell’orco e gli tirò un pelo della barba con molto rispetto.
L’orcaccio aprì un occhio cisposo e lo fissò feroce sulla bambina con il golfino rosa. Si infuriava proprio quando qualcuno interrompeva il suo pisolino.
«Buongiorno», disse Mimì.
Non lo avesse mai detto. L’orco si alzò con un ruggito, strabuzzò gli occhi, divenne rosso e arancione, poi viola. Si portò le manacce alla gola, come se stesse soffocando.
«Per favore…», continuò Mimì.
Non lo avesse mai detto. L’orco cominciò a tossire con un rumore di tuono.
Al primo colpo di tosse uscirono dalla sua bocca le pecore e il pastore, al secondo colpo Bartolomeo, Severina e il loro macinino, al terzo colpo uscirono i bambini.
«No! La maestra no!», gridarono.
Ma l’orco «tossì fuori» anche la maestra, che, appena uscita, ordinò con aria severa: «Tutti a scuola, avanti marsch!».
«Grazie», disse Mimì.
Non lo avesse mai detto. Questa semplice parolina provocò un altro fenomeno stupefacente: l’orco cominciò a rimpicciolire. Si dimenava e si contorceva, lamentandosi: «Perché l’hai detto! Non dovevi dirlo…».
In capo ad un paio di minuti, l’orco era solo più un orchetto, alto sì e no come Mimì. Faceva quasi pena.
Mimì aveva un cuoricino d’oro e così le venne spontaneo di dire: «Scusami».
«Ohi, ohi!», fece l’orchetto e ricominciò a trasformarsi. Una cosa sorprendente: perse gli unghioni e l’aspetto feroce; al posto dei capelli irsuti gli spuntarono dei finissimi capelli biondi; le sue guance divennero rosa e paffute; i suoi occhi dolci e azzurri. Insomma, in meno di un minuto l’orco era diventato un bel bambino. Sembrava proprio un bambino normale. Era solo stranamente immobile, senza vita, come una specie di grosso bambolotto.
Mimì comprese e con la sua vocina sussurrò: «Ti voglio bene».
Il bambino che una volta era stato un orco si rianimò immediatamente.
«Grazie mille», disse. «Era stato un incantesimo a trasformarmi in orco. Ma tu hai pronunciato le cinque paroline che trasformano un orco in bambino».
Tutta contenta, Mimì lo prese per mano e andarono insieme a far merenda.
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