Non so se vi è mai capitato di vedere appeso al collo di alcuni adolescenti la metà di un cuoricino. Quando mi capita di vederli non perdo occasione di chiedere, facendo la faccia da ebete: “Ma guarda: ti si è rotta la medaglietta che porti al collo... ce n'è solo un pezzo!”. Per poi sentirmi dire con una certa aria di simpatica commiserazione...
del 21 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Non so se vi è mai capitato di vedere appeso al collo di alcuni adolescenti (ma anche di persone un po’ più grandicelle) la metà di un cuoricino (tenero!). Quando mi capita di vederli non perdo occasione di chiedere, facendo la faccia da ebete (in realtà non è che debba sforzarmi più di tanto): “Ma guarda: ti si è rotta la medaglietta che porti al collo… ce n’è solo un pezzo!”. Per poi sentirmi dire con una certa aria di simpatica commiserazione: “Ma no, padre, l’altra metà è appesa al collo del mio ragazzo… la mia dolce metà!”.
          Mentre ascolto questa risposta vedo negli occhi della mia interlocutrice (o interlocutore, ma per lo più interlocutrice – i maschi provano una certa vergogna nel dichiarare apertamente queste cose) il taglio compassionevole che cela il seguente pensiero: “Poverino, che può saperne lui… è un frate!”.
          Finché il fenomeno rimane circoscritto alla fase adolescenziale dei primi amori la cosa in sé non costituisce un problema particolare… se non fosse per il fatto che quando mi capita di preparare i fidanzati al matrimonio riconosco in alcuni discorsi la stessa dinamica, cioè il sentire da parte dei due promessi sposi (anche in quelli più vicini alla chiesa, quelli praticanti per intenderci) la gioiosa e sprovveduta consapevolezza di stare per fare il passo che finalmente riunirà per sempre quei due pezzi di cuori, quelle due dolci metà. Si accorgeranno, di lì a poco (parlo per quel minimo di esperienza pastorale che posso avere) che, passati i primi anni di matrimonio, quella metà diverrà sempre meno “dolce” e, col tempo, si arriverà a chiedersi sbalorditi se quell’individuo (individua) che incidentalmente ogni tanto mi capita di intravvedere dentro casa sia proprio mio marito (moglie) con il quale un giorno, tanto tempo fa, c’eravamo scambiati una sorta di promessa (eh sì, che ci sono pure le foto e il filmino da qualche parte!).
È chiaro: non è sempre così, grazie a Dio; non è per tutti così!
          Tuttavia sono personalmente convinto che se c’è un tarlo che mina alla radice la vita coniugale questo è proprio il tarlo di un marcato e frainteso senso di complementarietà tra uomo e donna, a volte esplicito altre volte no, ma comunque quasi sempre presente: “Lui è la mia metà”, cioè a dire “siamo le due parti di un’unità”, per cui lui (lei) è la parte che mi manca, quella che mi completa, quella che fa della mia porzione incompiuta una pienezza. Fermo restando che quando poi si prova a spiegare il “celibato” (che brutta parola!) dei preti bisogna arrampicarsi su svariati e imbarazzanti specchi per poter dire: “Ma no, che c’entra, loro sono delle eccezioni… sono stati chiamati… non ne hanno bisogno… loro hanno il Signore (quasi che l’amore per una donna sia concorrenziale a quello per il Signore! Che volgarità!)” e cose di questo genere.
Ebbene, lasciate che lo dica: a me questa storia della metà (dolce o amara che sia) non convince affatto!
          Provo a spiegare: la differenza sessuale è indubbiamente il marchio del Creatore che ha fatto l’uomo a Sua immagine e somiglianza: “Maschio e femmina li creò”; in questa alterità non si può non intravvedere in embrione la rivelazione della stessa dinamica trinitaria di persone in relazione (avete mai notato che il libro della Genesi dice: “Facciamo (plurale) l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”?); se da questa connaturale somiglianza col Creatore si deduce che l’alterità sessuale ci configura strutturalmente come esseri per la relazione, bene; ma credo che sia un’aberrazione considerare maschio e femmina due parti di un’unità. Essi non sono due metà di un tutto, non possono essere dichiarati complementari in questo senso; ognuno è interamente uomo ma secondo due modalità irriducibili: maschile e femminile. Del resto, a ben vedere e volendo essere onesti fino in fondo, dire: “Lui/lei è la mia dolce metà” non significa pronunciare una delle più grandi affermazioni egocentriche della storia, in cui l’altro è pensato e concepito come un prolungamento narcisistico di se stessi? Non significa dire all’altro “ti amo per quello che mi dai” (nel nostro caso l’altro mi dà l’unità della mia persona senza la quale la mia stessa esistenza sarebbe compromessa), piuttosto che dirgli “ti amo per quello che sei”? Inoltre: “i due saranno una carne sola”… una carne sola, sì, ma non una sola persona; queste (le persone) sono e rimarranno sempre due! Come spigheremmo altrimenti il detto evangelico di Gesù secondo il quale in paradiso non ci saranno né mogli né mariti ma saremo come angeli del cielo?
          Il problema è serio e, a mio avviso, da esso dipendono molte unioni matrimoniali e non solo (in realtà tutto il mondo relazionale dell’essere umano, a qualsiasi livello, potrebbe risultare affetto da questa patologia): del resto la crisi in una coppia subentra sempre nel momento in cui la realtà (come manna dal cielo) mi fa salutarmente scoprire che l’altro/altra che amo mi delude e non corrisponde affatto alla mia metà, anzi. È qui che si scopre il marcio: non mi sto donando incondizionatamente, esclusivamente e indissolubilmente all’altro/altra (come è nella natura del Sacramento del Matrimonio), ma lo/la sto semplicemente “usando” per me; scopro finalmente che non gli sto dicendo “Ti amo” ma che gli sto brutalmente dichiarando: “Amo me in te, perché mi completi! Adesso perché fai così?”.
A mio avviso il grande merito di Costanza è quello di aver saputo ri-annunciare (con una freschezza e originalità tutte proprie) la differenza dei due sessi stimati come una vera e propria alterità, non come un’obiezione all’unità, ma come l’opportunità straordinaria di amare (all’interno del matrimonio) secondo il comandamento nuovo di Gesù (Gv 13,34-35), senza “ma” e senza “se”, nella distinzione dei ruoli e delle persone e non nella fusione di essi. Pensare l’uomo-donna come due metà strutturalmente incompiute e condannate alla ricerca di una fantasiosa unità originaria pian piano porta a mettere le mani sull’altro, ad impossessarmi di esso. Siamo ben lontani dalla logica evangelica del dono di sé fino alla morte, mi pare!
Per uscire da questa impasse propongo una via:
-   ri-leggere il brano evangelico di Mt 19,1-12 (sul matrimonio e la verginità per il Regno dei cieli) alla luce del comandamento nuovo di Gesù (Gv 13,34-35 ma anche Gv 15,12);
-   ri-considerare la categoria “vocazione” come pertinente allo stato matrimoniale e non solo a quello sacerdotale o della verginità consacrata;
-   ri-pensare il matrimonio-sacramento come complementare (questa volta sì) alla verginità consacrata e viceversa.
          Perché se è vero che il matrimonio ha la missione di ricordare all’uomo (maschio e femmina) che, ad immagine di Dio, siamo fatti per la relazione, è altrettanto vero che la verginità consacrata ci ricorda che l’unica relazione per cui siamo fatti è quella con Dio. E tutto è in funzione di questo assoluto.
Mi fermo qui. Potrebbe esserci materiale per un altro post… ma anche no! E adesso non si offenda il mio amico San Francesco se al termine cito Sant’Agostino:
“Siamo fatti per Te, o Signore. E il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”.
Costanza Miriano
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