Malala e le donne in Italia

Una riflessione sul nostro Paese partendo dall'esperienza di questa ragazzina che è stata vittima di un attentato per aver voluto promuovere in Pakistan il diritto delle donne allo studio.

Malala e le donne in Italia

Malala, la studentessa pakistana di quattordici anni che ha subito in questi giorni un attentato alla vita a causa delle sue idee progressiste lontane dalla cultura talebana, desiderosa di studiare e di diventare medico, è per fortuna fuori pericolo. Ripensando a questa ragazza, definita eroina perché aveva già denunciato i soprusi di alcuni talebani ricevendo per questo il Premio nazionale della pace ad Islamabad, non si può fare a meno di fare un paragone con l’Occidente e con la sua cultura democratica, almeno nelle intenzioni, aperta all’affermazione di uomini e donne, con un governo impegnato nel sostegno delle pari opportunità e nella lotta alla discriminazione di genere.          

Ne sono un esempio le diverse leggi, quali la legge 10 aprile del 1991 n. 125, la  legge 25 febbraio 1992, n. 215 e la legge 8 marzo 2000 n. 53, in materia di flessibilità per la conciliazione lavoro-famiglia, per le quali il governo italiano stanzia finanziamenti destinati alla promozione di tali misure e alla diffusione di buone pratiche. In particolare, l'art. 9 della legge n. 53/2000 ha introdotto «forme di flessibilità dell'orario di lavoro, con riferimento in via prioritaria, ma non esclusiva, alla cura dei figli, prevedendo contributi a favore di aziende che applichino accordi contrattuali che prevedono azioni positive per la flessibilità». Questo allo scopo di «consentire ai genitori una reale distribuzione dei compiti di cura dei figli, con un sistema di tutele che rende effettivamente possibile la conciliazione del tempo tra lavoro e famiglia».          

In Puglia, grazie all’utilizzo di queste misure, la fornitura di servizi a supporto del lavoro di cura, è aumentata e migliorata. Dal 2004 al 2010 con una presenza di circa il 4-5 per cento di bambini in asilo nido, il numero dei comuni con asilo nido pubblico o privato è passato dal 24 al 36,4 per cento (+52 per cento), con un incremento di strutture per la prima infanzia da 80 a 228, facendo aumentare anche i posti nido da 2.420 a 6.903 (+185 per cento). Nel 2013, invece, i bambini in asilo nido sono il 12 per cento, con il 50 per cento di comuni con asilo nido pubblico o privato, 350 strutture per la prima infanzia e 13.500 posti nido in più.          

Il 25 settembre scorso, inoltre, è stato presentato a Bari un progetto di Gemellaggio Agire POR, per riproporre il modello del distretto famiglia della provincia autonoma di Trento alla regione Puglia, in collaborazione con l’Agenzia per la famiglia. Una proposta è quella di adottare il marchio Famiglie al futuro, che prevede politiche tariffarie ad hoc, scontistica su beni e servizi, adeguamento del territorio in risposta al bisogno delle famiglie (parchi giochi, piste ciclabili, eliminazione delle barriere architettoniche), la realizzazione di percorsi protetti casa-scuola, l’attivazione di momenti formativi sui temi riferiti alla genitorialità. E ancora, viene proposto il Marchio di genere quale standard di qualità attribuito all’impresa rispetto all’adozione delle politiche di pari opportunità mediante la valutazione degli effetti sulla qualità del lavoro, del contesto organizzativo e delle relazioni. Nel dettaglio il marchio sarebbe rilasciato sulla base degli indicatori relativi agli ambiti critici della presenza delle donne in azienda: le modalità di accesso, i percorsi di carriera, l’organizzazione del lavoro, le remunerazioni e i benefit.          

Secondo un articolo del “Corriere della Sera” di questi giorni, le compagnie che hanno dirigenti donne risultano mediamente più redditizie, sebbene gli amministratori delegati al femminile siano solo il 6,5 per cento del totale. E le aziende che hanno avuto una donna come fondatore sono appena l’1,3 per cento. Ma la necessità di adeguare le aziende agli orari e agli stili di vita della famiglia, non è solo un’esigenza per le donne, infatti, secondo i dati della Banca d’Italia, le imprese che rispettano e tutelano le esigenze di conciliazione dei tempi vita-lavoro di uomini e donne, rendono migliore il clima lavorativo, la qualità di vita nelle strutture, diminuendo il tasso di assenteismo, il turn over e aumentando di conseguenza anche la produttività.          

Le leggi, tuttavia, non sono sufficienti a modificare la cultura delle persone, le tradizioni, le abitudini, le credenze e i valori di ogni civiltà. Resta un percorso ancora lungo quello da compiere, per fare in modo che qualunque donna, a qualunque livello sociale, possa riuscire a dividere il carico di cura familiare e la bellissima esperienza della genitorialità, supportata dall’amministrazione locale in cui vive. E questa, del resto, rappresenta la vera sfida per una società democratica e solidale.

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