Una semplice riflessione a partire dalle canzoni degli ultimi due album di Mengoni, cercando di comprendere quale figura di umano ne emerge
In attesa del prossimo album, che andrà a completare il trittico aperto con “Materia (Terra)” e sviluppato con l’ultimo “Materia (Pelle)”, vogliamo approfondire il tema dell’umano nelle canzoni di Marco Mengoni, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo con la canzone “Due vite”.
Il primo album “Materia (Terra)” rappresenta le radici del cantautore, il suo passato, i ricordi, ma anche le riflessioni che l'artista ha maturato dopo un periodo di ascolto e di silenzio che gli erano necessari per mettere ordine nella sua esistenza. Il primo risultato è stata una ritrovata consapevolezza che lo ha spinto a perdonarsi, a non avere più paura, a vedere come un dono persino la solitudine.
La genesi di “Materia (Pelle)”, il secondo album, inizia invece quando Marco fa un test del DNA e scopre che solo per il 35% è italiano, l'altro 65% è "contaminato" dal resto del mondo. Da lì prende forma la sua voglia di sperimentare anche in musica questo mix di culture e origini diverse.
Il cantante ha spiegato così il motivo della scelta del titolo dell'album:
«Per arricchirci culturalmente dobbiamo conoscere e capire nuove culture, facendole penetrare nel tessuto della nostra pelle [...] Ed è un bene che un disco che parla di confronto con la diversità esca proprio ora. I confini dal mio punto di vista non hanno senso di esistere. È stupido fare guerre per questo e quello che sta succedendo nel mondo mi fa male.»
La parola "pelle" inserita nel titolo del disco ha un ruolo centrale: è contatto, sensorialità e istinto; qualcosa di fortemente caratterizzante per l'essere umano, perché cambia da tante esperienze fatte della persona, non è mai uguale a ieri e non lo sarà domani.
Interessante vedere come Mengoni intitoli gli album “Materia”, indicando con questa parola il desiderio di parlare di cose concrete, materiali. Eppure, ascoltando le canzoni ci si accorge che non si scade nel materialismo, ma si da invece ampio spazio alla dimensione spirituale, dell’anima dell’uomo. Uomo che, secondo la tradizione biblica, viene plasmato direttamente dalla terra, ma fatto di carne e pelle. Adam, come viene chiamato il primo uomo della Creazione, in ebraico ha diversi significati: è appunto “uomo”, ma anche “terra”, “suolo”. Di fatto Adamo è “il terrestre”.
Materia, terra, pelle ci rimandano all’essere umano di cui Mengoni, nei suoi brani, riporta delle caratteristiche interessanti, che andremo ad approfondire di seguito.
Anzitutto il primo brano del primo album è dedicato all’uomo e al suo cambiamento: “Cambia un uomo”. Si tratta di una canzone intensa e profonda, una sorta di confessione che segue una personale riflessione del cantante sul perdono e sullo scopo dell’esistenza. “Dimmi di riprovare ma non di rinunciare” è un invito a non mollare mai, anche se gli errori fatti, che hanno fatto cadere, possono aver provocato ferite. “Solo nel perdono cambia un uomo”, è forse la frase che più colpisce, capace di dare forza alla trasformazione di una persona, accettando i propri limiti.
“Da dove vieni? (Unatoka wapi)” è la canzone manifesto del secondo album, quella che ci rimanda alle nostre origini, che sono comuni. “Vengo dai manicomi, dalle catene / dalla boria di chi ha la bocca e le tasche pieni / dal rigurgito di uno stato / confusionario / sono il bene, sono il male”. L‘uomo, secondo quanto canta l’autore sperimenta la sua origine più vulnerabile, confusionaria, divisa tra il bene e il male. Potremmo pensare che con questo testo, dove si manifesta tutta l’incertezza da cui veniamo: “Forse vengo da nessun lato in ogni tempo”, permette di comprendere che non ci sono umani di serie A e umani di serie B, non ci sono razze di luoghi ben definiti, rimandando invece a comprendere nel profondo da dove veniamo oltre il tempo, aprendo così la riflessione attraverso domande di senso che spiazzano: “Dove sei? Da dove vieni? Dove vai?”. A queste domande troviamo risposta solo nel campo del trascendentale.
L’essere umano viene al mondo sempre attraverso una madre, e a sua mamma Mengoni dedica ben due canzoni, una ad ogni album: In “Terra” ha il titolo di “Luce”, dove canta la sua gratitudine perché più di ogni altra persona sua mamma rappresenta un punto fermo, sa difendere le sue insicurezze, proteggere il suo cuore fragile: “Difendimi dai lunghi inverni / da tutti i dubbi che non ho / dal mondo che mi aspetta fuori / dalle mie incertezze / dai miei stessi errori che puntualmente rifarò”; ed è la luce che gli splende dentro l’anima: “Tu sei la mia luce / e splendi sempre dentro l’anima / anche questa notte, questa lunga notte senza fine”. In “Pelle” invece le dedica la canzone “Respira”. Qui gli occhi del cantautore si soffermano sulla bellezza della figura materna, di cui fa parte anche “il disegno del tempo sulle sue dita”, che è il segno lasciato dal tempo sulla sua pelle.
L’essere umano vive di relazioni. Vive di legami affettivi. Nella canzone: “Chiedimi come sto” troviamo una richiesta che sembra banale ma mai scontata, un invito alla veridicità di ogni rapporto che aiuta a superare i momenti più difficili se si condividono le cose più profonde: “Sai che in questo deserto siamo due piramidi / La luce si riflette dentro occhi aridi / Occhi che sanno colpire come le mine / Ma non fa così male, non fa così male / Credere di superare la vertiginе / A volte l’arte di caderе è un’attitudine / Ci diremo che è facile nonostante (Non sia facile) / Tutto il mondo sulle spalle come Atlante / Riusciremo a difenderci dalla gente / Che non sa vedere oltre le apparenze / Tu chiedimi davvero come sto (Chiedimi davvero tu)”.
Al tempo stesso l’essere umano ha bisogno di fiducia, che è la base su cui si costruiscono tutte le relazioni. Il brano “Mi fiderò” in duetto con Madame, ci mostra che questa fiducia non è fatta solamente di promesse, ma passa anche dalla concretezza di labbra, sguardi e mani. L’aspetto interessante di questo brano è che qui Mengoni fa un percorso a ritroso, legando la fiducia ad elementi primordiali come l’istinto o la chimica, elementi che spesso sono messi in secondo piano rispetto a una miope iper-razionalità che ci rende poco predisposti alla conoscenza di noi stessi e degli altri: “Mi fiderò del tuo coraggio più del mio / quando per / paura l’ho nascosto pure a Dio / mi fiderò, ma non sarà senza riserve / temere di amare o amare senza temere niente”.
“Attraverso te” è forse la canzone che più di tutte parla di relazioni, ragionando sulle architetture emotive che costruiamo ogni volta che entriamo in relazione con qualcuno e dell’importanza dell’altro nel costruire la propria identità, nel superare le proprie paure, nel vincere l’indifferenza fredda di questa società in cui viviamo: “Vedo riflesso quello che cresce in te / Attraverso me / Saluterò le paure / Attraverso me / Sorriderò per non farti piangere / Attraverso me / Attraverso te / Attraverso te che attraversi me”.
In “Migliore di me” Marco Mengoni si mette a nudo, mostrando il ritratto di chi si ritrova ad ammettere i propri errori. Giunto alla realizzazione della fine di un rapporto condivide questo intimo flusso di coscienza in cui dichiara il proprio essere “umano” chiedendo scusa ed elaborando gli errori commessi: “Scusa se vorrei solo sparire a volte / stare a letto i giorni senza dire niente / scusa se cercavi un modo ed ero distante, / io non sono bravo a spiegare mai / che per te vorrei sapere come fare / ma non aver bisogno di una guerra / per dire che mi manchi ancora”.
La vita dell’uomo è bella, ma anche fragile, soggetta alle intemperie del tempo. In “Ancora una volta” il brano si apre con un messaggio che sembra ripreso dal libro del Qoelet: “In una scatola raccoglierai il ciarpame dei miei giorni / Il magro luccichio che ha l’ambizione dei ricordi / È un dubbio, è una domanda, una risposta è soltanto / Un fiore, una moneta, un nome, un rimpianto / E l’anima braccata fra le costole e la schiena / La vita è un verso fragile, ne riconosco appena / Il tiepido profumo che dà bruciando in un lampo / Il suono che fa passandomi accanto / Più che darle un senso / E vorrei essere come il vento, impronta nella neve / Pioggia sotto un cielo immenso, a calmarti la sete / Come l’ultima voce al mondo circondata dal silenzio”. Questa canzone apre ancora di più alla domanda di senso della vita, ma anche al desiderio profondo di lasciare un segno: essere vento, pioggia, voce che urla l’essenza della vita.
Il brano presentato al Festival di Sanremo, che si inserisce come singolo tra il secondo album e il prossimo in uscita parla della complicata e intrecciata vita a due, narrata attraverso un susseguirsi di episodi di vita quotidiana di coppia. “Due vite” è un invito a vivere intensamente ogni attimo, compresi quelli di apparente monotonia, come se fosse l’ultimo.
È un racconto che ha due piani di lettura: uno onirico e ricco di simboli legati all’inconscio, che si mescola a scene autobiografiche e realistiche. Un invito ad affrontare la vita con onestà, senza rimorsi e senza pensare a cosa si dovrebbe o si potrebbe essere, ad accettare anche gli errori come momenti di crescita.
Due vite, che si intrecciano tra loro con il desiderio di essere una cosa sola. Cercarsi e trovarsi anche quando le cose non vanno come si vorrebbe. Gridarsi addosso gli errori, perché quando ci si ama, non ci si vuole perdere.
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