È stato, è e sarà per sempre il punto in cui Dio ha deciso d'incarnarsi, d'assumere per amore di noi, sue creature, la nostra stessa carne, le nostre stesse ossa...
Da dove viene quel senso di dolcezza infinita, quasi di casa, di capanna, di grembo, che avvertiamo in noi quando ci poniamo a meditare su cosa significhi il Natale, una volta che lo si spogli d’ogni sua decorazione e lo si riconduca al vertice e all’abisso della sua umile e fulgida verità? E da dove ci giunge la percezione che accompagna tale dolcezza; la percezione per cui avvertiamo che solo nel Natale possiamo afferrare e conoscere quell’attimo decisivo della nostra esistenza, l’attimo iniziale, l’attimo cioè della nostra nascita, che altrimenti resterebbe per sempre chiuso nella mutezza dell’ombra e delle tenebre? Per rispondere a queste domande, è necessario porsene in precedenza un’altra: cos’è stato, cos’è e cosa sarà il Natale nella storia dura e travagliata dell’uomo e dell’universo?
È stato, è e sarà per sempre il punto in cui Dio ha deciso d’incarnarsi, d’assumere per amore di noi, sue creature, la nostra stessa carne, le nostre stesse ossa, il nostro stesso sangue, il nostro stesso volto, le nostre stesse braccia, i nostri stessi limiti e, dunque, la nostra stessa vita e la nostra stessa morte. Se l’essere di Dio è immenso; se è immenso che Dio ci abbia creati; ancor più immenso (proprio nell’ordine dell’immensità dell’amore) è che Egli abbia da sempre pensato e voluto farsi uomo; farsi, cioè, uno di noi; poiché con quel pensiero e con quella volontà ha ricongiunto il nostro limite alla sua infinitezza; ci ha restituita la possibilità d’esistere nella speranza; ha portato, insomma, ciò che è la nostra storia dentro la circolarità senza misure e senza tempo che è la forma precipua di Lui: una forma perfetta, abbacinata e abbacinante.
Il Natale è la realizzazione di questo pensiero e di questa volontà; pensiero e volontà che sono stati, sono e saranno unicamente e totalmente d’amore. Nella capanna dove Cristo è nato, la storia dell’uomo ha così congiunto il prima (che fu d’attesa) al poi (che è stato e sarà di compimento). Il Natale è, dunque, la nascita assoluta; ma in quell’assolutezza esso riflette ed assume, illumina e redime, benedice e consacra, tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi. Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. Infatti è proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi e che ha permesso e permette a noi di ripetere, seppure miserevolmente, nella nascita d’ogni uomo, l’atto d’amore infinito di quell’incarnazione.
Tuttavia, a leggere nel profondo, il Natale non è soltanto l’immagine suprema e reale dell’apparire d’ogni uomo, ma anche quella del formarsi e, dunque, dell’apparire d’ogni gesto che l’uomo compie quando operi nella volontà di Dio e, dunque, nella volontà della vita. In questo senso tutti i nostri giorni e, in ogni giorno, tutti i nostri minuti possono verificarsi nel senso misterioso, umile e fedele del Natale, possono essere tutti altrettanti Natali, poiché sono tutti un incremento alla vita; sono tutti fieno portato dalle nostre povere braccia alla capanna di Betlemme, che è la prima, vera capanna; e, insieme, la prima vera casa del mondo; la sua prima famiglia, il suo primo centro; il suo primo grembo. Per questo mi par giusto dire che la festa e l’inno del Natale sono una festa e un inno, dolcissimi e fermissimi, alla vita, a tutta la vita; anche se su quella festa e su quell’inno vediamo già scendere l’ombra d’una crocefissione, il sangue d’un assassinio. Ma l’amore del Dio incarnato, l’amore del Cristo, piccolo e tremante, di Betlemme sono infinitamente più grandi di quell’ombra e di quell’assassinio. Così, dentro la paglia in cui Maria lo depone, v’è già la morte di suo Figlio, ma v’è già anche la sua resurrezione. Proprio come morte e resurrezione, fine e principio, esistono in ognuno di noi e in ognuno dei nostri atti appena li volessimo iscrivere nella volontà e nella misericordia divine; iscriverli con umiltà ma, insieme, con coscienza lucida e filiale.
Ecco spiegato quel senso di dolcezza di cui parlavo all’inizio. Nulla, infatti, come l’amore genera, chiede e moltiplica la dolcezza. E quale amore più grande del Dio che accetta il misero respiro dell’uomo, lo vuole, lo predilige, lo privilegia di sé, se lo fa suo e se lo porta fin sopra i legni della Croce, fin dentro le fibre o lo strazio dell’agonia? Che poi, perché il Natale potesse avvenire, Dio abbia deciso d’aver bisogno di un «sì» pronunciato da un essere come noi, del «sì» pronunciato da Maria, ci garantisce ancor più teneramente del cerchio strettissimo, della strettissima collaborazione cui, per incarnarsi, Dio ha voluto chiamare l’uomo. Così è proprio ripetendo il «sì» per cui Maria è diventata sua e nostra Madre, quel «sì» che pronuncia ogni donna che accetti di generare, ripetendolo ogni giorno e in ogni minuto di ogni giorno, che l’Incarnazione e, con essa, il Natale si verificherà di continuo; che la vita rinascerà senza posa e che la storia che tante vite, intrecciandosi, compiranno sarà tutta e intera nel senso della giustizia di Cristo, nel senso della sua lucentezza, della sua santità, della sua intelligenza, della sua bellezza, del suo amore e della sua pace.
(Articolo di Giovanni Testori apparso sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1978, e raccolto nel volume “Un bambino per sempre. Meditazioni sul Natale”, edito da Interlinea).
Giovanni Testori
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