Nel nostro tempo però la questione della morte fa parte di quegli argomenti che vengono abitualmente sottaciuti, nascosti, anzi direi che è il primo ad essere rimosso. Da un lato ne viene dissimulata la dimensione tragica, banalizzandone il significato. Voler ignorare la morte comporta inesorabilmente sbagliare la vita.
del 02 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
           Le cronache di questi giorni propongono moltissime riflessioni sulla tragica fine del giovane campione di motociclismo Marco Simoncelli, ma soprattutto chi frequenta il web può costatare come la sua morte ha veramente commosso tanta gente, specie i giovani. Non tutti i commenti che abbiamo letto forse sono appropriati, ma anche le reazioni più ciniche non riescono a dissimulare lo smarrimento. Alcuni hanno osservato che l’ingranaggio spietato dei mediaogni giorno ci mette davanti agli occhi la morte di migliaia di persone, spesso in forme molto più terribili di quella toccata a Simoncelli, senza che questo susciti la benché minima reazione. Noi sacerdoti però non ci sorprendiamo più di tanto. A tutti ci è toccato celebrare i funerali di qualche giovane, con la chiesa oltremodo gremita di gente.
La morte di un giovane è fuori degli schemi, impone a tutti di interrogarsi seriamente.
          Nel nostro tempo però la questione della morte fa parte di quegli argomenti che vengono abitualmente sottaciuti, nascosti, anzi direi che è il primo ad essere rimosso. Da un lato ne viene dissimulata la dimensione tragica, banalizzandone il significato, basti pensare al silenzio che grava sul tema dell’aborto o alla disinvoltura con cui si cerca di introdurre l’eutanasia, oppure ai goffi tentativi di esorcizzare la paura della morte, come “Halloween”. Ma d’altra parte ne viene nascosto anche il significato esistenziale, quasi fosse una questione che non ci riguarda. Culturalmente sembra che valga di fatto il vecchio sofisma di Epicuro: quando io ci sono la morte non c’è, quando c’è la morte io non ci sono, quindi il problema non esiste, inutile pensarci. Senonché, come tutti possono capire, il problema non è l’istante della morte, ma il morire che ogni giorno ci accompagna, quello nostro e quello dei nostri cari, ed è cosa che non si risolve girandosi dall’altra parte. Cancellare la morte dal panorama della nostra esistenza significa eliminare un elemento fondamentale e certo per comprendere chi siamo e orientare sensatamente le nostre scelte. Facendo una somma, se si salta un addendo il risultato sarà inevitabilmente sbagliato. Voler ignorare la morte comporta inesorabilmente sbagliare la vita.            Ora, la fine tragica di un giovane amato e famoso fa riapparire sulla scena, sia pure per un attimo, la realtà tragica della morte. L’emozione che suscita scuote il nostro essere alla radice e non andrebbe liquidata con superficialità. Ma come interrogarsi serenamente sulla morte? Serenità e morte suonano come un ossimoro, una contraddizione. La morte davvero in sé è una tragedia, la distruzione dell’uomo sulla terra, la conseguenza ultima, il “salario” del peccato, del male, ciò che Dio, come ci insegna il libro della Sapienza, non ha creato e non ha mai voluto. Come vincere la paura? La Chiesa viene in nostro soccorso. A lei il Signore ha affidato le chiavi che aprono le porte della vita. Attraverso la liturgia la Chiesa ci fa presenti le questioni fondamentali dell’esistenza alla luce di Cristo, di Colui che ha assunto la morte rovesciandone il significato. In particolare i primi giorni di novembre sono dedicati alla celebrazione della grande solennità di Tutti i Santi e, il giorno seguente, alla Commemorazione di tutti i fedeli defunti. È dunque illuminato il mistero della morte in ogni suo aspetto: viene mostrata la meta che siamo chiamati a raggiungere attraversando la morte, ovvero la piena santità e il cielo, e il giorno seguente viene affrontato il senso del difficile combattimento interiore di fronte alla prospettiva della morte.           La commemorazione del 2 novembre davvero ci aiuta. Pregare per i defunti ci permette di sentirne la vicinanza, al di là della privazione della presenza fisica. Ricevere l’Eucaristia consente un incontro vero e profondo con Cristo e quindi con i cari che ci hanno lasciato e vivono uniti a Lui, sia nella condizione della piena gioia del cielo, sia in quella della purificazione del purgatorio. Visitare il cimitero nella fede aiuta a relativizzare ciò che ci angoscia in questo mondo e ad alzare gli occhi al cielo, ritrovando il giusto distacco e la pace interiore. L’intercessione per i defunti ci rassicura e rafforza la speranza per la salvezza: sperimentiamo che nessun cristiano è solo davanti alla morte e neanche di fronte ai danni prodotti in lui dal peccato, ma scopriamo di poterci aiutare l’un l’altro ben al di là degli angusti limiti della vita terrena. Impariamo che il cielo è popolato di anime generose, che ci amano, ci sostengono e ci attendono in paradiso.           Attenzione, però. Non si tratta di mera ritualità, come è condivisa in qualche modo da tutte le tradizioni religiose di fronte alla morte. La liturgia della Chiesa trae la sua forza dal Mistero Pasquale, dalla vittoria di Gesù Cristo sul peccato e sulla morte. Una vittoria che è piantata nella storia e ci è trasmessa nel Battesimo. Perciò la consolazione della fede non è un’illusione, né tantomeno una scommessa al buio. Essa trae la sua efficacia non dal rito in sé, ma dalla forza della vita cristiana risvegliata dal rito. Se siamo cristiani è perché abbiamo fatto personalmente l’esperienza della vittoria sulla morte, quindi nessuna morte, per quanto dolorosa, può gettarci nello sconforto. Ci sono infatti modi di morire ben più amari e temibili della morte fisica. Fallimenti, delusioni, paure e sofferenze che affliggono la vita degli uomini, gettano nella disperazione fino a indurre paradossalmente al suicidio, pur di sfuggirne. Soprattutto i nostri peccati ci soffocano, che lo riconosciamo o no. Ma il cristiano ha fatto l’esperienza che il Signore ci riscatta dalla morte interiore, ci libera da ogni morte, perdonandoci, rialzandoci dalla disperazione, ricostruendo personalità distrutte, famiglie in crisi, comunità allo sbando… Ogni vero cristiano ha già messo un piede in cielo, porta già in sé la caparra della vita eterna e può affrontare con serenità la questione della morte. Per questo, ben al di là della retorica di occasione di questi giorni, possiamo affidare, pieni di speranza, l’anima di Marco Simoncelli alla misericordia di Dio, pregando perché un giorno possiamo tutti pienamente partecipare, insieme al campione Simoncelli, alla vittoria più grande, la Pasqua di Cristo.
don Antonio Grappone
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