Mi trovavo in Galleria a Milano, avevo un appuntamento in Comune e, nell'attesa, curiosavo tra i libri in vetrina, una vera tentazione per un accanito lettore come me. Ero in contemplazione culturale, quando si avvicina un barbone, uno dei tanti che hanno scelto di vivere una vita sulla strada. In francese li chiamano clochard, una parola che suona meglio della nostra italiana, un termine quasi poetico per dare dignità a gente povera più di cose che di sentimenti.
del 28 gennaio 2008
Mi trovavo in Galleria a Milano, avevo un appuntamento in Comune e, nell’attesa, curiosavo tra i libri in vetrina, una vera tentazione per un accanito lettore come me. Ero in contemplazione culturale, quando si avvicina un barbone, uno dei tanti che hanno scelto di vivere una vita sulla strada. In francese li chiamano clochard, una parola che suona meglio della nostra italiana, un termine quasi poetico per dare dignità a gente povera più di cose che di sentimenti.
Mi sono messo le mani in tasca per dargli un euro: «Non voglio soldi, mi disse, ho solo voglia di parlare con qualcuno. Vedo che le piacciono i libri... Anche a me piacciono, io ero un insegnante di lettere antiche in un liceo. Ho avuto problemi dopo la morte di mia moglie, sono diventato un barbone, ma mi piace parlare con la gente».
Voglia di parlare, voglia di essere ascoltato per non sentirsi soli! Ma questo non è solo dei «barboni», è di tutti noi, che ci sentiamo vivi e contenti di vivere, quando qualcuno ci prende a cuore, condivide la nostra giornata, le nostre gioie e i nostri dolori.
Lo è dei giovani, dei nostri ragazzi, dei nostri bimbi! È una fatica essere bimbi oggi in un mondo di adulti che sembra non avere tempo per loro: invocano la nostra presenza e, se non trovano risposta, muoiono dentro il cuore dalla voglia di amore.
L’altro giorno, sabato, ero in metropolitana: sono saliti due bimbi, sinti o rom, non ho saputo o voluto distinguerli. Avevano in mano un bicchiere di carta, hanno recitato la solita «tiritera» per commuovere la gente e raccogliere qualche spicciolo. Avranno avuto sei, otto anni. Terminato il giro, si sono avvicinati alla porta per scendere: la bimba ha sorriso al fratellino, penso lo fosse, e lo ha baciato con tenerezza.
Mi sono commosso al loro gesto e ho pensato alla loro fatica di crescere, sfruttati già in tenera età, quella dei giochi, del fiorire dei sentimenti. Ho pensato alla fatica non solo dei piccoli immigrati, che stentano a trovare accoglienza nelle nostre scuole o nei nostri quartieri, ma anche a quella dei bimbi, ai quali viene negato ascolto, che sono messi al margine in casa o affidati ad altri, perché i grandi non hanno tempo di badare loro.
Mi sono detto che sono fortunate quelle famiglie che trovano in parrocchia una scuola materna o un oratorio, dove qualcuno si sente solidale con loro e vive con passione lo stare con i bimbi, i ragazzi, i giovani. Sono spazi dove la parrocchia investe «in perdita» economica – è raro trovare un oratorio o una scuola materna in attivo! – ma è un investimento in educazione, che sa di futuro.
Un giorno una mamma ha detto: «Tra duecentomila lire e mio figlio, scelgo le duecentomila lire». Era una povera mamma, rimasta sola ad affrontare il figlio nell’età dell’adolescenza. Spero che nessun Consiglio pastorale abbia a ragionare come lei, in termini economici! Non si deve aver paura a investire in educazione: è forse l’investimento più sicuro, più redditizio dal punto di vista umano e da quello cristiano. Ce lo dicono i nostri pastori, ce lo suggerisce il Vangelo, la Tradizione della Chiesa, che si è sempre presentata come madre e maestra
 
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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