Discorso lieve (per quanto si può) sulla morte e su quello che poi verrà. Cominciamo dai testamenti, da quelli dei Papi a quello dell'uomo che aveva lasciato tutto a se stesso. qualcuno protesterà/ dopo aver letto nel testamento/ quel che gli lascio in eredità/ non maleditemi non serve a niente/ tanto all'inferno ci sarò già...” (Fabrizio De Andrè, “Il testamento”).
del 03 giugno 2007
Qualunque Cosa sia, quella Cosa di là, davvero non possiamo farci nulla. Se “un grande Forse” (Rabelais) o “un gran salto nel buio” (Hobbes), chi può dirlo. Però quasi sempre è questione di un ultimo sguardo, e così se l’Adriano di Marguerite Yourcenar cerca “di entrare nella morte ad occhi aperti”, Paolo VI inizia con queste parole il suo testamento (uno dei più belli, per stile e intensità): “Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara…”. E sguardo drammaticamente puntato sul dopo è quello di Aldo Moro, nell’ultima lettera alla moglie, mentre gli assassini delle Br si apprestano ad annientarlo: “Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto”. Scrisse una poesia, Natalia Ginzburg, intitolata “Non possiamo saperlo”. Ecco, tutto qui: “Non possiamo sapere com’è Dio. E di tutte le cose/ Che vorremmo sapere, è la sola veramente essenziale”. La scrittrice fa uno sforzo, Dio impaurito o freddo o affamato o noioso, e una noia è pure il suo Paradiso, con tutti quei veli e quelle piume e quella musica, “un odore di gigli recisi, una noia di morte”. Dio è una ciabatta, un topo, un granello di polvere, ha i capelli tinti, ascolta la radio, trema di freddo. O è grande come il mare, “spumeggia e tuona”. Comunque sia, è comunque come diceva Borges: “Esaurirai la cifra dei battiti che ti sono stati assegnati e allora sarai morto”. Ecco, fin lassù si può immaginare ma non si può sapere. Ci si può aspettare qualcosa, ovviamente (per dire, la principessa Alessandra Borghese, confidando nella grande misericordia del Signore, ammette: “Al massimo finirò in Purgatorio”), e neanche tutti possono o sanno fare come i Papi, “in manus tuas, Domine, comemndo spiritum meum” – ma mai e poi mai la curiosità affretta. “Tutto ciò che possiedo per un attimo”, mormorava nel momento fatale Elisabetta I d’Inghilterra. E dunque, farsi trovare pronti è buona cosa. Spiritualmente, che è meglio. Dal punto di vista materiale, sempre opportuno. Sistemare per tempo tutte le pendenze d’affetto e persino quelle d’odio, senza ridursi all’ultimo momento come dei mastri don Gesualdo al triste arraffamento geloso (e inutile) della propria “roba”. La lite tra gli eredi è materia esorbitante pure per il Padreterno.
 
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Dunque, si passi al testamento. Non che garantisca del tutto dalle polemiche (vedi disputa sul tema in casa Agnelli), però è possibile cavarsi qualche umana soddisfazione. E del resto se da quando siamo al mondo, culturalmente e religiosamente, abbiamo a che fare con due Testamenti, tra l’Antico e il Nuovo, si vede che qualcosa di buono, nel frusciare del documento, c’è. Ognuno poi la prende come vuole. “Credo nella reincarnazione. Nel testamento mi sono nominato unico erede”, annuncia Beppe Grillo. Paradosso che ha un fondamento. Basta scorrere le pagine di “Essendo capace di intendere e di volere” (Sellerio) e “In piena facoltà…” (Mondadori), opere di Salvatore De Matteis, sovrintendente dell’Archivio notarile di Napoli, per rendersene conto. De Matteis ha preso i testamenti olografi (quelli cioè scritti di proprio pugno dal diretto interessato, e che per la legge italiana hanno lo stesso valore legale di quelli redatti di fronte al notaio), tutti rigorosamente veri, e con essi ha costruito un capolavoro di comicità e di commozione. Si diceva del paradosso di Grillo. C’è un documento firmato “Vincenzo Vitulazzio di anni 89, mesi otto e giorni tre” che, “dovendo provvisoriamente morire”, si cautela per il dopo: “Non so in che data risorgo e quando potrò riprendere la roba mia che mi appartiene. Ma fino a quel momento chiedo il mantenimento delle case con tutte le opere necessarie al mantenimento, e con l’obbligo alla discendenza di non vendere perché non voglio trovare estranei dentro casa quando risorgo e fare cause di sfratto che sono lunghe e costose”. Un testamento è anche una finale resa di conti, non solo di cifre. Ce n’è uno, scritto nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1954, onomastico dello scrivente, che per “la speciale ricorrenza di cui mai una volta vi siete ricordati, ho deciso di fare io a voi un regalo: vi comunico di avervi diseredato”. Annotazione finale: “Siete dunque sul lastrico e da qualche anno vivete al di sopra delle vostre possibilità. Quando ne sarete informati, sarà tardi per ogni rimedio e avrete finalmente un buon motivo per portarmi rancore per tutto il resto della vostra vita. Spiacente di avervi conosciuto. Mi auguro di non rivedervi mai più”. Come i morti di Spoon River, che ora che sono polvere possono alzarsi e dire per la prima volta la verità – odio e amore, rancori e segreti – quelli che si apprestano a essere morti trovano a volte un nuovo linguaggio e uno sconosciuto coraggio (anche perché, adesso provate a prendermi). Nei libri di De Matteis se ne trova per ogni gusto. “Testamento di me medesimo malato tisico lucido di mente, scritto a mano contro mia moglie Maria Cannavacciuolo maritata Buonomo Gennaro che sarei io. Se morisse prima mia moglie di me sarei grato a San Gennaro a ceri e fiori finché campo. Ma lei si è sempre curata bene e schiatta di salute alla faccia mia che non c’è speranza, io credo”. E Rosettina, “viale Europa n. 30, terzo piano interno 6, senza ascensore per colpa dei condomini tirchi e dell’amministratore incapace e mariuolo che non presenta i conti da almeno tre anni”, nell’attesa del passo finale ha qualcosa da dire: “Non ho capito perché dovrei morire io prima delle mie sorelle. Io sono certamente la più anziana, ma sono quella che sta meglio in salute e poi la morte non segue l’ordine delle nascite. Ho visto morire un sacco di giovani e c’è quindi speranza che vedo morire pure quel mariuolo di mio nipote sopra nominato oltre l’amministratore che già sta messo male. Sarebbe una grazia troppo grande, quello è capace di saccheggiare la mia salma mentre m’affossano! Ma vedi un poco che preoccupazioni! Uno non può nemmeno morire con tranquillità”. Tutt’altro tono ha il testamento di Filippo Florindo Emanuele Bianchi S. D. M., barone di Nusco e marchese di Camaldoli, che “con questo mio testamento spirituale dichiaro solennemente di morire soddisfatto della vita”. Ha poco da lasciare, il barone, un bastone da passeggio con un diamante, e “lascio l’aria che non respirai mai abbastanza, il giorno e la notte, il sole e la luna, le stagioni e i giorni dell’anno, tutte le emozioni che essi mi hanno fatto pulsare nel petto”. A Dio, chiede di “condannare al rogo eterno tutti quelli che in ogni età e in ogni luogo non han saputo apprezzare e gustare a fondo come me il prezioso dono della vita”. Si firma: “Qui termina l’ultimo monologo di un ex barone, di un ex marchese, di un ex uomo vivo. E’ giunto il tempo ch’io vi tolga il disturbo. Vogliate perciò gradire il mio cordiale eterno silenzio”.
 
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Il testamento non è solo la “roba” che lasciamo (di ogni testamento, quella è forse la parte meno interessante), ma anche ciò che si rivendica e ciò che si rimpiange. E pure se il paragone appare azzardato, il barone di Nusco e il grande Jorge Luis Borges avevano qualcosa in comune: ciò che il nobiluomo (forse) fece e ciò che il genio argentino si negò. Scrisse, un paio d’anni prima di morire: “Se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero/ Se potessi tornare a vivere/ comincerei ad andare scalzo fino alla fine dell’autunno/ Farei più giri in calesse/ guarderei più albe/ e giocherei con più bambini/ se mi trovassi di nuovo la vita davanti/ Ma vedete, ho ottantaquattro anni e so che sto morendo”. E circola su Internet uno scritto noto come “testamento di Marquez”, che il grande scrittore colombiano ha inviato ai suoi amici: “Oggi può essere l’ultimo giorno che vedi coloro che ami. Perciò non aspettare più, fallo oggi, perché se il domani non dovesse mai arrivare, sicuramente lamenterai il giorno che non hai preso tempo per un sorriso, un abbraccio, un bacio, e che sarai stato troppo occupato per concederti un ultimo desiderio. Mantieni coloro che ami vicino a te, dì loro all’orecchio quanto ne hai bisogno, amali e trattali bene, prenditi tempo per dirgli ‘mi dispiace’, ‘perdonami’, ‘per piacere’, ‘grazie’, e tutte le parole d’amore che conosci. Nessuno ti ricorderà per i tuoi pensieri segreti”. E “Testamento” è il titolo di una poesia del poeta greco Kriton Athanasulis: “Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me/ Le stelle brilleranno uguali e uguali ti indurranno/ le notti a dolce sonno/ Il mare t’empirà di sogni. Ti lascio/ il mio sorriso amareggiato: fanne scialo/ ma non tradirmi. Il mondo è povero/ oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo/ ed è rimasto povero. Diventa ricco/ tu guadagnando l’amore del mondo”.
 
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Il testamento è affare commovente o comico e criminale. In quasi ogni giallo di Agatha Christie a un certo punto si apre un testamento e l’assassino è tra quelli intorno al tavolo. Sui testamenti s’affannano e lucrano gli avvocati dei thriller americani. Come all’origine di ogni grande fortuna, anche all’origine di qualche testamento ogni tanto c’è un crimine. Ma lo stesso, il testamento è conveniente farlo. Avverte infatti De Matteis (qui nel ruolo di massima autorità di “atto mortis causa”, gran maestro di cerimonia tra “dante causa” e “aventi causa”) che trattasi di cosa seria, “da prendere certamente in allegria, ma non sottogamba”, tenuto conto che “ogni età e ogni momento sono buoni per fare testamento, persino durante un picnic, un battesimo o un matrimonio, quando cioè si ha sott’occhio tutto il parco dei possibili eredi” – e decidere magari di scansarlo in blocco e di mangiarsi tutto, e perciò “poiché mia moglie e i governativi non hanno fatto mai niente per me, ma solo scocciature, tasse e controtasse, spese e controspese che mi hanno affogato come un purpo, io prego l’erede universale di dare a loro il meno possibile, ancora meglio se niente”. I testamenti, spiega De Matteis, sono di svariati tipi: olografo (di gran lunga il più divertente), internazionale, segreto, pubblico, speciale (genere: stai sul Titanic e sono finite le scialuppe di salvataggio). Si fa da soli o con il notaio. “Testamento lografo da me confezionato secondo consiglio di Peppe ’a paglietta che se ha sbagliato l’affogo dall’aldilà morto e ’bbuono”, recita uno di questi contenuto in “Essendo capace di intendere e di volere”. E continua: “Se muore Peppe prima di me, che mi pare possibile datosi che sta scassato buono per vizzi di gioventù, il superchio va tutto sa sorema con onore di cura e di esequie come sopra. In fundis. Mi arracomando le esequie. Non faccimo le solite figure di pezzente”. Perché poi, insomma, pure defunti non si può comparire alla meno peggio. Nello specifico fa conoscere in dettaglio la propria volontà Gigio Ricciardi nel suo testamento (volume “In piena facoltà…): “Se muoro nellinvernata che viene o appresso, chiedo la creanza dinterrarmi nella bara colla maglieria e le mutande di lana, cappotto, e la sciarpa, a causa dellartilosa deformata. Ma quando le mie ossa sono scavate le potete spogliare e tenerle fresche, stanno bene nei locali per petuamente che sono e sposto al sole e pieno di comodità, con la fontana vicino, i cessi di bisogno dei vivi e la scarica della imonezza. Anche Cuozzo Andonia Maria moglie dello crivente e sottoscrivente viene con le ossa sue nei loculi, ma se ci pare di tenere troppo caldo come sempre nella vita, può farci fare nei loculi uno o puramente due buchi di areazione. A me mi basta una coperta addosso”. Non si è mai del tutto sicuri, come ben sapeva la signora Quintavalla, che ammonisce gli eredi sulla qualità della sua sepoltura, “una bellissima tomba – non un tombino – una tomba monumentale, con le statue, colonne, candelabri, e un funerale importante, per far parlare la gente di me, donna Raffaela Vittoria Quintavalla, con cavalli, lancio di fiori e confetti, banda musicale. Fate il giro e passate almeno due volte sotto i balconi della signora De Magistris, così schiatta di rabbia perché lei esequie così non se le può permettere e finisce di fare la nobile di Spagna”. Alla dettaglia disposizione, segue un p.s.: “Per sicurezza voglio l’autopsia”.
 
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Un Papa, ovviamente, farà tutt’altro testamento. “Credo. Spero. Amo”, scrive Paolo VI nel suo. “Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica”. Primo tra tutti i pontefici, chiede eseguie scarne, essenziali, senza fasto. “Circa i funerali: siano pii e semplici (si tolga il catafalco ora in uso per le esequie pontificie, per sostituirvi apparato umile e decoroso). La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me”. Come molti altri Papi, Montini vuole che siano “distrutti manoscritti e note di mia mano; e che della corrispondenza ricevuta, di carattere spirituale e riservato, fosse bruciato quanto non era destinato all’altrui conoscenza”. A parte alcuni oggetti, erede del pontefice è quasi sempre la chiesa, “da cui tanto ho avuto, come da Madre amatissima”, scriveva Pio XII. Ecco, il testamento di Papa Pacelli è diverso dagli altri, in linea forse con il suo carattere: più secco, si potrebbe dire più “freddo”, poche righe, pure lui chiedendo solo la sepoltura in un luogo sacro, “tanto più gradito, quanto più oscuro”. E aggiunge: “Non ho nemmeno bisogno di lasciare un ‘testamento spirituale’ come sogliono lodevolmente fare tanti zelanti Prelati, poiché non pochi Atti e discorsi, da me per necessità di officio emanati e pronunziati, bastano a far conoscere, a chi per avventura lo desiderasse, il mio pensiero intorno alle varie questioni religioso o morali”. Ecco le ultime volontà di Giovanni XXIII: “Alla mia diletta famiglia secundum sanguinem – da cui, del resto, non ho ricevuto alcuna ricchezza materiale – non posso lasciare che una grande e specialissima benedizione, con l’invito a mantenere quel timore di Dio che me la rese sempre così cara e amata, anche semplice e modesta, senza mai arrossirne: ed è il suo vero titolo di nobiltà. L’ho anche soccorsa talora nei suoi bisogni più gravi, come povero coi poveri, ma senza toglierla dalla sua povertà onorata e contenta”. Nell’anno 2000 chiude il suo testamento Giovanni Paolo II: “A misura che si avvicina il limite della mia vita terrena ritorno con la memoria all’inizio, ai miei Genitori, al Fratello e alla Sorella (che non ho conosciuto, perché morì prima della mia nascita), alla parrocchia di Wadowice, dove sono stato battezzato, a quella città della mia giovinezza, ai coetanei, compagne e compagni della scuola elementare, del ginnasio, dell’università, fino ai tempi dell’occupazione, quando lavorai come operaio, e in seguito alla parrocchia di Niegowic, a quella cracoviana di S. Floriano, alla pastolare universitaria, all’ambiente… a tutti gli ambienti… a Cracovia e a Roma… alle persone che in modo speciale mi sono state affidate dal Signore. A tutti voglio dire una sola cosa: Dio vi ricompensi!”. Un testamento è anche un testamento politico, a volte. Famosissimo quello di Lenin, inviato al partito poco prima di morire, in cui chiedeva di far fuori Stalin, “troppo grossolano”, da segretario del Pcus, per metterci un altro che si distinguesse da Stalin “solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso”. I comunisti sovietici non esaudirono l’ultima volontà del capo e fecero male: così tutti loro, poco a poco, lo seguirono nella tomba. Molti testamenti sono messaggi più che disposizioni. C’è quello che il grande enologo Luigi Veronelli inviò a Carta: “L’Anima è il rispetto dell’altro. La giustizia di Dio una palla. Quella degli uomini dovrebbe perseguire i criminali tipo Bush e bin Laden. Dovrebbe colpire tutti coloro che schiavizzano l’umanità per diventare, giorno via giorno, più ricchi (…) Entro in clinica oggi pomeriggio per una operazione da cui, di solito, non si esce”. Morirà il mese successivo. Si possono leggere, su Internet, i testamenti di Rossini e quello di Manzoni – lasciati a mogli e figli e servitù – e quello di Michelangelo, soprattutto preoccupato per la sorte di San Pietro, “ho dato la mia anima per questa basilica e per la gloria di nostro Signore, non sia trasformata…”. C’è quello pieno d’orrore di Cho, lo squilibrato sudcoreano che ha ucciso i suoi compagni nel campus della Virginia Tech, o quello, al contrario, carico di grande dolcezza di don Primo Mazzolari, “nel nome del Signore e sotto lo sguardo della Madonna, che non può non aver pietà di questo suo povero sacerdote che si prepara al distacco supremo, faccio testamento. Non possiedo niente. La roba non mi ha mai fatto gola e tantomeno occupato…”. O un’infinità di testamenti si possono trovare ne “L’ultima lettera” di Oliver Blanc (Sugarco), le missive dei nobili francesi che stavano per salire sul patibolo al tempo della rivoluzione, “devo da qualche tempo sei lire al cittadino Jumilhac che me le ha prestate e di cui gli ho dato ricevuta”. E nel 1936 qualcuno scrisse uno scherzoso testamento, ma non abbastanza scherzoso da non sembrare serio e condivisibile: “Cari posteri, se non siete diventati più giusti, più pacifici e in genere più razionali di quanto siamo (o eravamo) noi – allora andate al diavolo! Con questo mio pio augurio, sono (fui) vostro Albert Einstein”. E se tutti i testamenti fossero sereni come quello di Andrea Sarno, in uno dei volumi di De Matteis, che così si rivolge alla moglie: “Anche l’eredità l’abbiamo già assegnata. Sembra che ogni cosa sia andata al suo posto e che non ci sia altro da fare. Finalmente posso dirti che ti voglio bene”. Sicuro che pure il Padreterno avrà gradito due parole d’amore. E forse sorriso, e di sicuro annuito, alle preoccupazioni di Efisio per “il più bel bassottino del mondo”, il suo, che al momento della morte dovrà affidare alle cure dell’erede: “Devi portare a spasso tre volte al giorno Titù e almeno una volta al mese dal solito parrucchiere. E’ indispensabile portarlo almeno una volta al mese alla monta per fargli dimenticare l’amore impossibile per la lupa del vicino, quella sfacciata che continua a provocarlo senza rendersi conto del male che gli fa…”. Che magari, su certe faccende – canine o feline o forse persino umane – lassù il Padreterno è più di manica larga di qualcuno quaggiù in terra.
Stefano Di Michele
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