«Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5,29). Questo grande principio biblico sull'obbedienza ha un carattere profondamente liberante. Nella visione biblica, infatti, l'obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo nella libertà si può obbedire...
del 01 gennaio 2002
«Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5,29). Questo grande principio biblico sull’obbedienza ha un carattere profondamente liberante. Nella visione biblica, infatti, l’obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo nella libertà si può obbedire, e solo obbedendo all’Evangelo si entra nella pienezza della libertà. In modo lapidario si è espresso Bonhoeffer: «L’obbedienza senza libertà è schiavitù, la libertà senza obbedienza è arbitrio». Ma prima di cogliere il proprium cristiano dell’obbedienza occorre ricordare l’aspetto antropologico della stessa. Vi è un’obbedienza fondamentale che ogni uomo è chiamato a fare alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi, eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato, e su cui egli non ha avuto alcuna presa o possibilità di scelta e di decisione. Si tratta dei bagagli che la nascita fa trovare già pronti a chiunque viene al mondo e che lo accompagneranno nel cammino dell’esistenza. Un credente legge questa obbedienza come «creaturale» e vi riconosce quell’accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creatore e che consente all’uomo di diventare uomo fuggendo la tentazione della totalità, cioè di ergersi a Dio. Il senso del racconto genesiaco della proibizione di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male è esattamente questo: l’uomo è uomo nella misura in cui non ambisce il tutto. Il limite, il finito è l’ambito della sua relazione con Dio.
Secondo la Bibbia l’obbedienza va compresa all’interno di questa relazione, cioè all’interno della categoria dell’alleanza. È tale relazione con Dio che rende liberante e perfino gioiosa l’obbedienza alla Legge rivelata a Mosè sul Sinai. Se la Legge è manifestazione della volontà di Dio, del partner contraente l’alleanza, l’obbedienza a tutti i suoi comandi è il desiderio stesso del credente che ama il suo Dio e trova la sua gioia nel fare la sua volontà. La formulazione usata in Esodo 24,7 per indicare l’accettazione della volontà di Dio espressa nella Legge da parte del popolo d’Israele è significativa: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo». La prassi, la messa in pratica della parola, precede l’ascolto della parola stessa, quasi a suggerire che è più importante l’assenso fondamentale dato a Dio che la specificazione del contenuto dei singoli comandi. Inoltre il testo significa che solo mettendo in pratica la Parola, cioè obbedendola realmente, la si comprende veramente. Questo radicamento dell’obbedienza all’interno dell’alleanza, dunque della relazione di ascolto del credente nei confronti del suo Dio, dà il tono anche all’obbedienza cristiana.
Per il Nuovo Testamento l’ascoltare, inteso nel senso di percezione della volontà di Dio, si realizza veramente solo quando l’uomo, con la fede e l’azione, obbedisce a quella volontà. Come coronamento dell’ascoltare (akouein/audire) nasce dunque l’obbedire (hypakouein/obaudire), quell’obbedire che consiste nel credere. Paolo parla più volte dell’«obbedienza della fede», intendendo che la fede si configura come obbedienza e che l’obbedienza manifesta la fede. Ma il proprium dell’obbedienza cristiana si trova nell’obbedienza del Cristo stesso. Ora, i tre più significativi testi che ci parlano dell’obbedienza di Cristo (Romani 5,19: «per l’obbedienza di uno solo, tutti saranno costituiti giusti»; Filippesi 2,8: «Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte»; Ebrei 5,8: «Cristo imparò l’obbedienza dalle cose che patì») compiono di fatto una sintesi della vita, del ministero e dell’opera salvifica di Gesù ponendoli sotto la categoria dell’obbedienza. Al centro di essa vi è pertanto la relazione filiale vissuta da Gesù con il Padre, e al suo cuore vi è l’amore per il Padre e per i fratelli, gli uomini. Il quarto Vangelo sottolinea questa dimensione obbedienziale di Gesù, presentandolo come il pienamente spossessato di sé che in ciò che dice, fa ed è sempre rinvia al Padre che l’ha mandato. Questa obbedienza amorosa dà senso al vivere e al morire, anche alla morte di croce, e ne fa un atto di libertà!
Qui dunque si innesta l’obbedienza cristiana, qui trova la sua «misura» e la sua forma: una forma plasmata dallo Spirito santo, che obbliga dunque il credente a viverla creativamente, responsabilmente, non in modo legalistico. Sì, il criterio dell’obbedienza cristiana è lo Spirito santo che interiorizza in ciascuno le esigenze dell’Evangelo e lo porta a viverle come espressioni della volontà del Signore assunte fino a farle proprie. Alla luce di questa obbedienza fondamentale, si possono comprendere, accettare e vivere le altre obbedienze alle istanze mediatrici della volontà di Dio. Sempre però tenendo presente che su tutto deve essere fatto regnare l’Evangelo e tutto deve essere sottoposto al criterio decisivo dell’Evangelo. Quando le mediazioni della volontà di Dio (autorità ecclesiastiche, dottrine teologiche, regole monastiche, riti cultuali ecc.) si sostituiscono a Dio e pretendono obbedienza per se stesse, allora devono essere criticate e ricondotte all’obbedienza evangelica. Infatti «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».
Enzo Bianchi
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