Uno dei libri che regalo volentieri agli amici, è Il viaggio di Tonino Guerra, la storia di Rico e Zaira, marito e moglie che, pur vivendo in un paese dell'Appennino vicino al mare, non lo avevano mai visto. A 80 anni, decidono di andarci per compiere finalmente quel viaggio di nozze, che avevano sempre rimandato. È un viaggio ricco di segnali e di memorie, che si conclude con una delusione: arrivati al mare, trovano una grande nebbia, «un polverone d'aria sporca, che pareva una tela di sacco davanti agli occhi».
del 21 gennaio 2008
 Uno dei libri che regalo volentieri agli amici, è Il viaggio di Tonino Guerra, la storia di Rico e Zaira, marito e moglie che, pur vivendo in un paese dell’Appennino vicino al mare, non lo avevano mai visto.
A 80 anni, decidono di andarci per compiere finalmente quel viaggio di nozze, che avevano sempre rimandato. È un viaggio ricco di segnali e di memorie, che si conclude con una delusione: arrivati al mare, trovano una grande nebbia, «un polverone d’aria sporca, che pareva una tela di sacco davanti agli occhi».
Nella nebbia si smarriscono, si chiamano, si cercano e, quando per caso si toccano, si abbracciano come due che si ritrovano dopo vent’anni d’emigrazione in America: «Abbi pazienza – dirà Rico a Zaira – ché da un momento all’altro, il mare arriva». L’immagine finale è dolcissima, i due sono seduti, «abbracciati nell’attesa», di fronte al gran mistero della vita che è la morte.
Ma si può, si deve parlare di morte ai ragazzi? A che età farlo? Una mamma mi aveva rimproverato, aspramente in pubblico, perché avevo mostrato la miseria dei poveri e immagini di morte, che non risparmiavano neppure i piccoli. La stessa, ad una mia precisa domanda, mi aveva risposto tuttavia che suo figlio passava ore davanti alla TV: la morte a colori, «horror», gratuita, violenta, non la preoccupava più di tanto, era solo televisione!
La mamma di don Bosco, mamma Margherita, una contadina di buon senso, non aveva esitato invece a introdurre il piccolo Giovanni, di tre anni e mezzo, nella stanza di papà Francesco, pochi minuti dopo la sua morte: «Figlio mio, il papà è in Cielo».
Di morte non vogliono sentirne parlare neppure i giovani, diventano superstiziosi, toccano ferro, compiono gesti scaramantici che sfiorano il volgare quando passa un carro funebre ma, se improvvisamente muore una persona cara, vanno in crisi, in depressione: «E poi?». La risposta non deve necessariamente darla un prete: ognuno se la deve ricercare per se stesso o per gli altri, soprattutto se piccoli o giovani.
La morte va preparata alla lontana, resa familiare! Agli occhi della fede non è la fine di tutto ma un ritornare a casa dove il Padre ci attende e riconosce se saremo vivi nell’amore. Non capiterà a noi quello che è capitato a mio fratello: evaso dal campo di concentramento in Germania, arrivando in paese, incontra mio padre e, con buona dose di umorismo, gli chiede in dialetto: «Signore, ha qualcosa da darmi da mangiare?». Malvestito, malnutrito com’era, non venne riconosciuto da papà, che lo congedò con un: «Va’ a lavorare, lazzarone!», risposta comprensibile in una famiglia che viveva in povertà non voluta, quella della guerra.
Mio fratello non replicò, si diresse verso casa, dove si mise in ordine. Quando papà arrivò, gli rivolse la stessa domanda: «Signore, ha qualcosa da darmi da mangiare? ». Riconobbe il figlio, pianse per non averlo riconosciuto prima. Con il Padre nei cieli questo certamente non capiterà: «Morire è come quando dietro il filo spinato del campo di concentramento, risuona l’annuncio sospirato: si torna a casa! Morire è socchiudere la porta di casa e dire: Padre mio, eccomi qua, sono arrivato!»... E Lui ci accoglierà! Naturalmente queste cose vanno imparate da piccoli e non creano angoscia perché la morte è drammatica e angosciosa solo per chi vi giunge impreparato, a mani vuote, a cuore chiuso.
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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