Per fare memoria della primitiva vocazione

Sulle macerie di una storia vocazionale spesso fatta di ritardi e anche di tradimenti, occorre formare di nuovo una coscienza in grado di ascoltare. Occorre ricostruire i rapporti, per rimettere in piedi le persone sconfitte dalla vita e per riedificare una città degli uomini davvero vivibile; occorre, soprattutto, riscoprire tutta la felicità di credere in Gesù Cristo, e la gioia di vivere per qualcosa di veramente grande.

Per fare memoria della primitiva vocazione

Esdra e Neemia, i ricostruttori 

Il ripristino delle piste vocazionali, dopo aver perduto le coordinate di Dio lungo la strada dei molti esodi della nostra vita, le fughe, gli abbandoni, le dimenticanze… Sulle macerie di una storia vocazionale spesso fatta di ritardi e anche di tradimenti, occorre formare di nuovo una coscienza in grado di ascoltare; occorre ricostruire i rapporti, per rimettere in piedi le persone sconfitte dalla vita e per riedificare una città degli uomini davvero vivibile; occorre, soprattutto, riscoprire tutta la felicità di credere in Gesù Cristo, e la gioia di vivere per qualcosa di veramente grande.

Israele torna dall’esilio, non solo lasciando la terra straniera lungo i cui fiumi ha pianto la nostalgia della sua casa, del tempio, delle feste, ma lasciando soprattutto, almeno nell’appello dei profeti, una vita di progressivo abbandono del suo Dio e della sua parola. Ci raccontano questa fase importante della storia dei nostri padri Esdra, sacerdote e scriba, e Neemia, alto funzionario della corte persiana. 

Si tratta di un segmento di storia davvero interessante della vicenda d’Israele, poiché indica a noi tutti, perenni reduci da qualche esilio dello spirito, in quale direzione orientare il ritorno. Secondo questo prezioso libro del primo Testamento ogni ritorno dovrebbe percorrere queste tre piste: la riedificazione del tempio, la ricostruzione della città santa, il ristabilimento della legge. Tre piste vocazionali, potremmo dire. 

Riedificazione del tempio

Per Israele si trattava di una vera e propria ricostruzione, essendo stato abbattuto il tempio precedente. Per noi la riedificazione è simbolica, ma nondimeno impegnativa e importante. C’è un tempio di Dio da ricostruire, in noi anzitutto.  

Ricostruirlo dentro ciascuno di noi vuol dire non solo recuperare in modo un po’ generico e scontato il senso della presenza di Dio in noi, ma imparare a vivere i nostri sensi e la nostra sensibilità come luogo di questa presenza, come mediazione di essa. Il nostro corpo non è tempio dello Spirito Santo, come recitava una volta il vecchio catechismo? In pratica non ci crediamo granché, o lo ricordiamo solo in chiave di contenimento e controllo di certe pulsioni (sessuali) piuttosto vivaci. E intanto andiamo a cercare improbabili teofanie o rivelazioni chissà dove e come, mentre i nostri sensi, male e troppo alimentati, sembrano spenti, li abbiamo persi, o resi incapaci di vedere, sentire, godere ciò che è vero-bello-buono, di toccare e gustare Dio dove e come Egli è presente in noi e attorno a noi. Quel Dio – per altro – che parla, sente, cerca il contatto con l’umanità di ciascuno, gode, soffre, ha un volto, è sensibile… Quel Dio che è con chi “sente” e vibra dentro nel suo nome; con chi dispensa attenzione e cura nel suo nome; con chi ama e si appassiona nel suo nome.  

Ricostruire il tempio vuol dire, allora, occhi nuovi per contemplare, orecchie nuove per ascoltare, parole sagge per consolare, mani capaci di stringere mani e accarezzare volti. Vuol dire essere persone dai sensi spalancati che vivono ogni incontro, contatto e legame con la sensibilità e la passione del Figlio. 

Ricostruzione della città santa

La fede non è mai un fatto privato e in funzione di un interesse soggettivo. Anche se ricorrenti sono la tentazione dello stesso credente di viverla così, e la pretesa di di rinchiuderla in sacrestia da parte di chi non crede. Oggi forse in modo del tutto particolare siamo chiamati a uscire dal tempio, a rendere ragione della speranza che è in noi, a trovare parole per trasmettere la bellezza di ciò in cui crediamo, a lasciare intravedere quale risorsa anche sociale può costituire la fede in Cristo. Non è forse il messaggio che Benedetto XVI da tempo lancia a tutto il mondo: riscoprire la enorme valenza non solo sul piano sociale, ma persino su quello della economia mondiale, della proposta cristiana?  

Nella stagione difficile che stiamo vivendo quanto avvertiamo l’importanza della vocazione del credente chiamato a impegnarsi pubblicamente nella vita civile in quanto credente in Cristo! In questi tempi di malaffare e corruzione, di scadimento morale della figura del politico, come non riscoprire la vocazione del cristiano a lavorare per il bene di tutti, della polis, senza interessi personali, con animo integro, vivendo la politica come una missione!? C’è chi dice che proprio la vocazione del politico credente è quella in crisi e di cui oggi avvertiamo maggiormente la necessità. Per costruire forse non proprio una città santa, ma almeno vivibile. 

Il ristabilimento della legge

Siamo al terzo orientamento del post-esilio d’Israele, che ci richiama così da vicino a un esilio quanto mai attuale: l’esilio della morale. Che vuol dire allergia verso la legge, rifiuto delle norme, abbandono di un paradigma etico comune. E che ha portato a conseguenze gravi e che vanno ben oltre una semplice questione di comportamenti più o meno politicamente corretti. Questo esilio della morale, vogliamo dire, è avvenuto in nome della libertà, intesa come autonomia, indipendenza, soggettività esasperata. Ma ha portato e sta portando, di fatto, a qualcosa che non sembra così liberante, e che è come una dittatura, una dittatura tutta interna alla persona: è la dittatura dei sentimenti, di quel che uno prova dentro di sé, e che proprio per il fatto di essere avvertito come desiderio o esigenza si impone come un assoluto: “lo sento e lo faccio”, “lo voglio e lo pretendo”, “mi va di farlo e dunque è giusto che lo metta in atto, e subito, senza attendere”. È insensato diventare succubi di qualcosa che ci abita dentro e ci sembra amico; e poi ci tradisce. Spesso la persona non si rende conto dell’inganno, e così crede di essere libera e autonoma, ma è dipendente e forse schiava. 

Occorre invertire la tendenza. E qui il pio israelita ha qualcosa da insegnarci. Perché, al di là dell’apparenza, egli aveva un rapporto bello con la legge del Signore: “corro per la via dei tuoi comandi”, “io amo i tuoi precetti”, “essi sono la mia gioia” (cf Sal 118). A partire dal Decalogo, infatti, tutto ciò che nella Parola di Dio è normativo non opprime la libertà del soggetto, al contrario esprime la premura del Padre che vuole la felicità dei suoi figli, e per questo dà loro delle indicazioni per camminare lungo quell’unica strada che porta alla gioia, e che è già fatta di gioia a ogni passo: gioia da degustare con quei sensi rinnovati ed evangelizzati di cui dicevamo prima.  

Forse come cristiani dobbiamo fare un mea culpa al riguardo: non sempre abbiamo espresso questa gioia; in fondo siamo stati noi a creare una certa immagine del credente oppresso dalla legge, un triste osservante, che forse è all’origine di quell’allergia verso la legge di cui dicevamo. Ci siamo più preoccupati di osservare la norma che di sperimentare la libertà e felicità di chi cammina nella via della giustizia; ci siamo più preoccupati di compiere gesti miti, pazienti, misericordiosi…, e un po’ meno di scoprire e manifestare quella gioia intima e pacata, come beatitudine donata al mite, al paziente, al misericordioso.

È ora di raccontare al mondo quant’è bello, non solo doveroso e meritorio, essere credenti in Cristo!

Amedeo Cencini

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