Perché amare se poi soffriamo?

Forse questa domanda può rappresentare – in un certo senso – una tentazione, nel senso che, quando ce la poniamo, è perché stiamo cercando di fuggire...

Perché amare se poi soffriamo?

del 21 aprile 2017

Forse questa domanda può rappresentare – in un certo senso – una tentazione, nel senso che, quando ce la poniamo, è perché stiamo cercando di fuggire...

 

Così il piccolo principe addomestico' la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!" disse la volpe, "… piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…"
"È vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe. "Ma allora che ci guadagni?"

 

Di fronte ad una separazione e alla successiva sofferenza, tutti, almeno per un istante ci siamo chiesti: “Ma allora che ci guadagni?”. E la domanda non è banale o scontata, chiedendo motivo di un impegno che prende la nostra vita. Perché soffrire? Non si può evitare? Perché amare, se questo ci porta a soffrire (quando siamo impossibilitati nel continuare a farlo, oppure quando ci viene sottratto l’oggetto d’amore oppure se non siamo ricambiati)? Si può evitare di amare?

Forse questa domanda può rappresentare – in un certo senso – una tentazione, nel senso che, quando ce la poniamo, è perché stiamo cercando di fuggire. Dal dolore. Dalla vita. Dalla realtà. Da ciò che costituisce i nostri giorni e, pur non piacendoci, ci aiuta a diventare ciò che siamo e saremo. L'entusiasmo iniziale nel conoscere persone nuove, specie in chi ha naturalmente indole espansiva e chiacchierona, è spesso molto. Non si pensa al dopo, a quanto potrà conseguire, a cosa comporterà.

E c'è una certezza, piccola, fragile, delicata, ma al contempo persistente e inestirpabile. Ciò a cui consegniamo il cuore non è ciò che ci appartiene, ma ciò a cui noi ci ritroviamo ad appartenere. E di cui dobbiamo prenderci cura, come il Piccolo Principe si prende cura della sua rosa. Ma non per un dovere impostoci da qualcuno, bensì come una conseguenza “naturale” del nostro affetto. Lo slancio iniziale è sempre “agapico”, porta cioè in sé i germi della generosa dedizione, della cura, della tenerezza, della protezione. Tutto ciò nasce spontaneo in noi. L'oggetto d'amore diventa – ai nostri occhi – prezioso ed unico, per questo motivo vogliamo difenderlo da tutto e tutti, ma più di tutto dalla sofferenza. E, stranamente, è così persino quando il nostro amore non è ricambiato, ma a senso unico. L'oggetto del nostro amore diventa oggetto di rispetto e – in un certo senso, venerazione –, motivo per il quale non riusciamo a sopportare che qualcuno possa offenderlo o ferirlo.

Tuttavia, per amore è inevitabile soffrire. Per svariati motivi. Il primo è senza dubbio non vedere ricambiati il proprio amore, la propria cura, il proprio interessamento. Qualcuno obietterà che l'amore deve essere disinteressato, altrimenti non è vero amore. Questo credo sia vero, ma solo in parte. L'amore è disinteressato perché non centellina le attenzioni sulla base del contraccambio (è difficile, del resto, quando non impossibile, pesare con la bilnacia qualcosa che è intangibile, come sono i sentimenti). Tuttavia, l'amore chiama amore, ma non nel senso che chiude il cerchio; piuttosto, il significato è quello che, a cerchi concentrici, l'amore si espande irrimediabilmente. Perché chi ama ha imparato ad amarsi e sentirsi amato (sì perché non sempre basta essere amati, per sentirsi amati: è anche questa una lezione da apprendere, ognuno coi propri tempi…).

Quando amiamo non percepiamo di impoverirci, perché voler bene rappresenta sempre una grande ricchezza, persino quando non si è corrisposti. Amare ci fa esprimere la nostra natura di uomini: è per questo che, quando siamo immersi nell'amore, proviamo una sensazione di pienezza e di realizzazione. In verità, il momento cruciale in cui ci viene da domandarci “cosa ci guadagniamo” è quando ci troviamo a guardare quasi dall'esterno una persona, ripercorriamo i nostri sentimenti per lei e capiamo che non ci appartiene. Che se anche i nostri sforzi potessero essere centuplicati, ancora non basterebbe a proteggerla, che non potremo impedire al male di sfiorarla, a qualche sentimento di ferirla, alle situazioni della vita di deluderla, alla morte di sottrarla al nostro sguardo. E quando la malattia approssima il momento del distacco, la domanda si fa più pressante. Perché percepiamo distintamente come un volto in mezzo alla folla non ci faccia “veramente” soffrire. La mamma africana che sta morendo in questo momento perché non ha le medicine per curarsi non ci provoca una reale sofferenza. Magari un senso di ingiustizia e di impotenza, rabbia e frustrazione. Ma ad addolorarci è la morte di un congiunto, la separazione forzata dall'amico d'infanzia, un matrimonio che fallisce.

Quando amiamo, il solo vedere il volto noto provoca gioia, perché in quel volto ha sede la familiarità, il ricordo, il “sentirsi a casa”. E ciò che ci fa soffrire è la consapevolezza che il per sempre che vorremmo dire ad indicare la nostra perpetua accoglienza, si smorza a fior di labbra al renderci conto che non siamo padroni dei nostri giorni e che la separazione potrebbe essere dietro qualunque angolo.
Il verbo “guadagnare” è troppo legato all'economia e rischia forse di fuorviare dal reale significato della domanda, che forse è più comprensibile così: “che mi rimane, cosa mi resta?”. Perché proprio questo è il senso di tale domanda: perché amare, cosa resterà del mio amore, se poi tutto finisce, c'è la morte per tutti e spesso essa è resa più imminente rispetto alle nostre aspettative, per via di malattie che conducono più rapidamente verso essa?

Probabilmente, senza la fede è più difficile rispondere a questa domanda. Nel senso che credere fermamente che la morte non segni il suggello completo a questa vita, ma porti solo ad un'altra dimensione e prospettiva che non conosciamo spalanca le porte su orizzonti più vasti meglio si concilia al nostro naturale ed istintivo desiderio di “infinito” e di “oltre” (che, anche quando non riusciamo ad identificare, inevitabilmente percepiamo, nel momento in cui ci soffermiamo a domandarci il senso del nostro vivere).

Ma anche per chi non riesce a credere ad una vita oltre questa, credo sia sempre possibile percepire la realtà di ciò: siamo stati chiamati alla vita per amore, d'amore e per amore viviamo. Siamo fatti per amare e nell'amore esprimiamo la verità del nostro essere. Più del nostro lavoro, della nostra professionalità, dei nostri gusti, interessi, cultura, onestà, rettitudine, è precisamente la nostra capacità d'amare a rendere conto, a noi innanzitutto e al mondo intero, su chi siamo. L'amore è la domanda e solo l'amore (o, meglio, l'Amore) può essere la risposta. Anche se, tramite l'amore, potremo incontrare la sofferenza sulla nostra strada, l'amore è più forte. Mille e un motivo potranno metterlo ko: la delusione, la malattia, l'impotenza, la morte, l'angoscia.

Ma è l'amore a renderci veramente uomini e solo l'amore può sconfiggere persino la morte, perché è quel filo invisibile capace di legare due cuori fino all'eternità…

 

Don Marco Pozza

https://www.sullastradadiemmaus.it/

 

 

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