Il Seicento non è lontano come pensiamo, è il nostro secolo, anche se oggi è chiamato Duemila. La giustizia si tiene a stento in piedi ed è nelle mani dei più furbi, non di chi se lo meriterebbe davvero. I personaggi al governo si adornano di retorica insensata...
del 23 aprile 2018
Il Seicento non è lontano come pensiamo, è il nostro secolo, anche se oggi è chiamato Duemila. La giustizia si tiene a stento in piedi ed è nelle mani dei più furbi, non di chi se lo meriterebbe davvero. I personaggi al governo si adornano di retorica insensata...
Laggiù, negli scaffali della vostra libreria, adagiato in un remoto angolino della vostra memoria, si intravede un libro dalla grandezza mediamente consistente: I Promessi Sposi. Un romanzo che forse rievocherà in voi molti ricordi, come le ore di studio che ad esso avete dedicato, la fatica nel comprenderlo a fondo e il terrore inevitabile dell’interrogazione.
Non avete tutti i torti: sicuramente non sarà stata una passeggiata addentrarsi nei boschi narrativi, come direbbe Umberto Eco, di quei trentotto capitoli che assieme vanno a formare quella che forse è la più straordinaria opera in prosa di tutta la letteratura italiana. Se avrete il coraggio di riaprirlo, vi consiglio spassionatamente di farlo. Non perché piaccia a me, fatto ad ogni modo innegabile, ma perché lì vi ritroverete. Saprete incredibilmente orientarvi. Non solo grazie alle espressioni lessicali, che agilmente sanno adattarsi alla mentalità odierna, ma anche per opera dei personaggi che incontrerete durante il vostro cammino. Certamente se avete avuto in passato un ottimo insegnante, non ci vorrà molto prima che voi sorridiate. Se nell’apprendere quest’opera non avete avuto accanto una valida guida, sfogliate le pagine lentamente e con cura, lasciate che le parole vi avvolgano fino a trasportarvi nella vostra quotidianità senza che ve ne accorgiate.
Ebbene sì, il Seicento non è lontano come pensiamo. Esso è il nostro secolo, anche se oggi è chiamato Duemila. La giustizia si tiene a stento in piedi ed è nelle mani dei più furbi, non di chi se lo meriterebbe davvero. I personaggi al governo si adornano di retorica insensata, paroloni altisonanti che di per sé non vogliono dire molto e vengono rigirati come fa comodo a chi ne fa uso. Anche coloro che governano sono oppressi da qualcun altro più grande di loro; oggi forse, più che gli Spagnoli come nel Seicento, è la premura di aver il popolo dalla propria parte, una preoccupazione che li schiavizza più che renderli potenti.
Il popolo è una massa informe e abbandonata al vento che tira, così come la folla manzoniana che vediamo ne I Promessi Sposi e quella nell’Adelchi, «un volgo disperso che nome non ha»: nella loro ottica, è da seguire la persona che, tra quelle emergenti, sembra prometter meglio. E Antonio Ferrer, che giura al popolo di abbassare il prezzo del pane, non si sa secondo quale criterio economico, conosce bene questa debolezza popolare, e si inebria di fama e acclamazioni insensate ed esagerate mentre spera che le sue parole si perdano tra la gente fino a scomparire. Povera gente, disposta ad andare dietro a personalità adulatrici pur di sentirsi dare una risposta. Un’esponente valida della moltitudine è Agnese, che nella propria ingenuità si esprime continuamente attraverso detti popolari che lei pensa possano descrivere e risolvere ogni situazione. Un po’ come accade oggi quando si va ad analizzare l’esito sconcertante delle elezioni e si vede bene che il popolo vota senza aver coscienza dell’importanza del proprio gesto per la propria nazione.
Oltre alla folla però, incontriamo qualcun altro che ha bisogno di risposte. Renzo, ad esempio, che con l’entusiasmo fervido del ragazzo in procinto di sposarsi chiede con insistenza il perché dell’impossibilità nel celebrare le nozze. Don Abbondio, che è avvezzo alle faccende di mondo e non ha certo scelto di esser prete per chissà quale vocazione, sa che queste cose non si possono spiegare ma solo accennare e accettare, perché per vigliaccheria è spinto ad anteporre prima di tutto la propria salvezza, ancor prima della giustizia, posto che in quel mondo esista.
Anche la nostra Gertrude però se n’intende, di risposte da dare. La tipica adolescente odierna che vorrebbe fare qualcosa, vorrebbe dare un senso alla propria vita, ma non può a causa della propria educazione che sempre l’ha spinta a non esprimere ciò che voleva. Manzoni, nella seconda edizione, la cosiddetta Ventisettana, decide di tagliare un lungo excursus che narrava dei tormenti dell’animo della ragazza prima di dir di sì alla vita monastica – ne troviamo comunque in precedenza un accenno dai toni intensi e drastici -, e sostituisce il tutto con l’efficace formula: «lo ripeté, e fu monaca per sempre.». Ripete quel sì, convinta dal padre, per un’inspiegabile forza coercitiva che lei non è capace di contrastare. Forse non accade tante volte anche a noi il voler tirarci indietro senza avere il coraggio e la forza di farlo? E non solo a noi: esiste persino una parola greca che indica tale incapacità che accomuna uomini di tutti i luoghi e tempi!
Non dimentichiamoci del nostro antagonista, il buon don Rodrigo che non incute certo tutto il timore che vorrebbe. Infatti, se notate bene, è parecchio vile: non per altro si circonda di bravi e parassiti che possono svolgere i compiti più scomodi e prendersi a carico la responsabilità del fallimento. Nel capitolo XVIII, Manzoni ci confida che la vita da nobile non è comoda quanto potrebbe sembrare. Perché, secondo voi? Semplice: non è facile mantenere una nomea di signorotto spaventoso. Se si perde la fama è la fine: per un nobile la reputazione vale più dei soldi, perché essere deriso dai compagni è il terrore più grande, soprattutto se anche il cugino Attilio si nomina direttore del coro di beffe. Don Rodrigo, da signorotto rinomato quale è, si rende però conto di essere solo e ricade in uno sconforto innegabile che anche gli animi più freddi sanno provare. Non vi ricorda qualcosa? Questi sono i bulli di oggi. Sapete cosa si dice, no? I bulli non agiscono mai da soli, e spesso sono coloro che più hanno sofferto per qualcosa di cui si devono sfogare con chi non può e non sa reagire. Renzo e Lucia, nel racconto, sono proprio questi ultimi, gli oppressi a cui Manzoni tanto tiene.
Allora sì, in 390 anni esatti non è cambiato nulla, e Manzoni lo sapeva bene. Voleva lasciarci un messaggio, ed è questo che lo differenzia da qualsiasi altro autore della letteratura italiana: l’ha fatto in prosa, nell’Ottocento, quando gli italiani avevano bisogno di trovare una propria identità e soprattutto la verità pura e schietta, in mezzo a tanti ghirigori di retorica di cui alcuni poeti spesso abusano. La prosa arriva a tutti, soprattutto se la lingua è a tutti accessibile. Dante, di questa faccenda, non aveva capito molto, poiché era troppo impegnato ad abbellire la forma stilistica della sua opera e a inventarsi metafore che i posteri avrebbero dovuto sciogliere per riuscire a dare un’interpretazione forse corretta. Ma finalmente, nell’Ottocento, arriva il salvatore della lingua italiana e del suo popolo: egli prende per mano l’Italia, e senza bisogno di alcuna parafrasi o giro di parole riesce a spiegare in trentotto capitoli la corruzione, il sudicio sfarzo, il disorientamento, la paura, la rabbia, la disperazione, la vigliaccheria, la testardaggine, l’impulsività, la meschinità, la violenza, il coraggio, la determinazione, la guerra, la falsità, la speranza, l’amore.
Ci sarebbe così tanto da dire ancora, ma ho la sicurezza che saprete scorgerlo anche voi, con i vostri occhi moderni, senza il bisogno di alcuna spiegazione. Vi rivedrete, vi riscoprirete, troverete risposte. Ragazzi, studiate I Promessi Sposi, studiateli a fondo. Adesso, da adulti, da anziani. Continuamente, leggete, comprendete, andate a fondo nel testo. Scoprirete tra le righe l’immensità disarmante del valore di quest’opera, e se la rileggerete alzerete la testa dalle pagine con un’espressione diversa. E sta solo a voi scoprire quale.
Anna Tonazzi
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