Intervista con Massimo Lippi, poeta e scultore: l'artista non pretende di creare da sé la bellezza, ma la cerca nel creato per ridonarla al Signore
del 19 marzo 2008
      «Vicino alla stazione di Siena c’è un ponte modernissimo sulla strada. Per pochi minuti, alla mattina, se si guarda in controluce la rete di protezione, si vede come il sole la decori di soavità geometriche che paiono stelline. Quelle stelline sono molto simili alle decorazioni romaniche, gotiche e tardo gotiche. Su quel ponte c’è già la proiezione fantasmatica di un’opera d’arte. Questo ben di Dio che è la luce ha colpito un anonimo prodotto industriale. Proprio in questo tempo di bombardamento parossistico delle immagini quelle stelline sono un suggerimento grandissimo per un artista, cristiano o non cristiano».
 
      Così inizia la conversazione con Massimo Lippi, poeta e scultore senese. Lippi ha pubblicato due sillogi di liriche per i tipi dell’editore Vanni Scheiwiller (Non popolo mio – 1991 e Passi il mondo e venga la grazia – 1999) dopo aver esordito, nel 1982, nella collana “Nuovi Poeti Italiani” dell’Einaudi curata da Franco Fortini. Docente di Storia dell’arte e di Scultura presso le Accademie di Belle Arti di Carrara e di Macerata e visiting professor in alcune università americane, ha esposto le proprie opere in tutta Europa. Siena ospita molte delle sue realizzazioni in bronzo, tra le quali i portali della Basilica di San Domenico e un Crocifisso nel Duomo. Gli abbiamo posto alcune domande sull’arte cristiana moderna e contemporanea, sul rapporto fra Chiesa e artisti in questo abbrivio di millennio, sulla bellezza.
 
     
      Lei, osservando quel ponte urbano, cita l’arte antica. Sull’arte cristiana contemporanea c’è da tempo un dibattito tra tendenze “passatiste” e “moderniste”...
      MASSIMO LIPPI: L’arte cristiana quando è vera arte non è mai né modernista né passatista. È vera arte e basta.
 
 
      Però una distanza esiste, per esempio tra i nostalgici dell’imagerie ottocentesca del cosiddetto stile Saint-Sulpice e chi invece sostiene la necessità che la Chiesa continui il dialogo con l’arte contemporanea...
      LIPPI: Sì, ed è bene che il dialogo si mantenga vivo. Ma è bene pure non categorizzare troppo tra “passatismo” e “modernismo”. Michelangelo è “antico” cronologicamente, ma è con la sua Pietà Rondanini che inizia l’arte moderna e contemporanea.
 
 
      Vale a dire?
      LIPPI: Michelangelo ha sentito la fine dell’epoca. Lui aveva una forza più grande che non poteva sottostare ai canoni stabiliti dalle accademie. Reinventa tutto e spiazza coloro che ormai si erano abituati alle novità di Brunelleschi. Nella Pietà Rondanini le regole del fare arte sono state sormontate da una potenza istintuale che era il confronto ultimo, diretto e definitivo fra un’anima e Dio. Aveva novant’anni e a Roma il suo rumore si sentiva appena: un colpo di tosse e uno di mazzolo, col gesto degli scalpellini di Settignano da cui aveva succhiato l’arte. Mi pare di ascoltarlo quel colpeggiare, l’ansito della forma che cerca Dio e che è stata da Dio stesso formata nell’uomo – «la gloria di Dio è l’uomo vivente» –, e mi pare di vederlo, Michelangelo, che cerca di dirgli: io che sono la tua gloria voglio ridarti gloria, così come sono, uomo peccatore, e non attraverso l’estetica dei signori neoplatonici di Firenze. Michelangelo non costruisce un teorema ma fa una preghiera, un gesto liturgico. Una volta ebbe a dire che tutto quello che aveva fatto non valeva niente al confronto di un atto di fede pura di una contadinella o di una donna del popolo romano: per un gesto di fede semplice avrebbe dato via tutta la Cappella Sistina. Avrebbe voluto infilarsi in una processione popolare, andare dietro a una immagine qualsiasi della Madonna. Senz’altro meno bella di come l’avrebbe saputa fare lui.
 
 
      E questo che c’entra con l’arte moderna?
      LIPPI: Quella Pietà ne è l’incunabolo. Quelle gambe liscie, polite, battute dalla luce, mentre la parte alta è ancora un bozzolo scolpito rozzamente dalla subbia e dalla gradina... Non è una vera e propria Pietà, ma è già presentazione dell’imminente aurora del mondo, la Risurrezione. Michelangelo procede per abbreviazioni, per sincopi, per sottrazioni, per ablatio, eliminazione di tutto ciò che è di troppo per arrivare all’essenziale. È anche sproporzione e paradosso – Maria così giovane, «figlia del tuo Figlio»... Non c’è la sacralizzazione della forma. Questa opera non rappresenta la fine dell’arte cristiana, ma la fine della presunzione di chi, invertendo la prospettiva, si era convinto di poter creare da sé la bellezza. L’artista, sembra dire Michelangelo, può con l’aiuto di Dio cercarla nel creato e ridonarla a Lui e alla Sua Chiesa. Questo atteggiamento è modernissimo.
 
 
      Ritorniamo all’arte cristiana contemporanea. C’è una notevole diffusione delle tradizionali icone della Chiesa russa o greca...
      LIPPI: Si tratta di un modo di perpetuare artificialmente una tradizione che è sublime in Rublëv ed è stata efficacissima in un certo tempo e in un certo spazio... Ma oggi rischia di essere, a mio avviso, devozionalismo sciatto. Preferisco l’espressionismo di Francis Bacon a questa liofilizzazione. E questo non deve scandalizzare nessuno. Ognuno è figlio del proprio tempo. Ed è bello che ci sia questa libertà di scelta nella Chiesa, questo relativismo: anche guardando e pregando un’immagine non bella si può diventare santi.
 
 
      Esiste anche una tendenza a utilizzare largamente tutti i più moderni mezzi di comunicazione visiva, come il cinema...
      LIPPI: C’è una voglia malata di dare un surplus di religiosità alla semplice devozione... Così si pubblicizzano film come La Passione di Mel Gibson: una macabra scenata del dolore fine a sé stesso. Una barbarie. Il Mantegna disegna Cristo morto in prospettiva e quella tecnica rappresentativa bidimensionale su tela, quando la osservo, mi tormenta, sì, ma mi lascia libero. È un’illusione che però apre il cuore alla realtà. Invece dopo aver visto un film del genere sento di non poter vivere all’altezza del Cristo rappresentato lì. È un teatro che mi piglia tutti i sensi e mi confonde al punto che ho una sorta di aporia, direbbe Socrate, per cui non riesco a capire qual è la realtà che per me conta e qual è la realtà fantasmatica inventata dal regista. Certi film rischiano di essere plagiari in questo senso: possono usare la religione, anziché l’eros, come elemento scatenante in modo violento e innaturale il pathos. All’opposto, poi, si producono spesso sceneggiati televisivi molto noiosi.
 
 
      Un altro orientamento, minoritario, che parte dalla critica all’“iconosfera” della civiltà delle immagini in cui l’uomo contemporaneo è immerso, rifiuta ogni rappresentazione nella vita cristiana.
      LIPPI: Ci siamo già passati, la Chiesa ha da tempo affrontato i problemi dell’iconoclastia e dell’orientamento cultuale aniconico. Siamo figli del Dio che si è incarnato in un uomo, si è manifestato nel volto e nella persona di Gesù Cristo, che calca la terra. Lavora, piange, soffre e gioisce con noi. Quindi deve essere raffigurato.
 
 
      Nel 1964 Paolo VI, con espressioni appassionate e commosse, chiese agli artisti perdono per come la Chiesa li aveva trattati, e disse loro: «Noi abbiamo bisogno di voi». Nel 1973, giusto trentacinque anni fa, fu inaugurata la Collezione d’Arte Religiosa Moderna in Vaticano. Che è accaduto da allora?
      LIPPI: Paolo VI ha avuto la grande intuizione ma poi non c’è stato nessuno che l’abbia saputa concretizzare.
 
 
      In che senso?
      LIPPI: Sono mancate le persone che andassero in avanscoperta a cercare gli artisti, anche quelli più all’avanguardia, meno noti, che avrebbero potuto fare cose belle per la Chiesa. Invece ci si è affidati, e ci si affida, ai concorsi. Ma questo è assurdo. Tu devi spiare come vive un artista, lo devi conoscere, devi sapere come vive. I papi del Rinascimento lo facevano! Non lo fanno i burocrati della fede di oggi.
 
 
      E che cosa si è fatto invece?
      LIPPI: La Chiesa si è “aggiornata” facendo l’errore esiziale di affidarsi, senza discernimento, al mercato. Nel tentativo di guadagnare qualcosa, ha perso molto. Si è preferito commissionare le opere agli artisti di grido, a quelli più celebri sulla piazza. Oltretutto non scegliendo i migliori, ma quelli che devono far girare il proprio marchio, che prediligono il proprio stile, il proprio solipsismo creativo.
 
 
      Perché accade questo?
      LIPPI: Si è rotta l’unità fra gerarchia e popolo. Un tempo i preti e i pittori, gli scultori, gli architetti, col popolo ci stavano davvero, e lo conoscevano. Oggi l’ortodossia del pensiero e la santa anarchia degli artisti non s’incontrano più, e la scintilla di bellezza, quando s’accende, non viene vista. Ci si beve tutto quello che passa in televisione, la fonte unica della committenza. Oggi l’unico criterio è che se l’artista che decora o progetta la chiesa è famoso, allora anche la chiesa che decora o progetta sarà riconoscibile nel mondo. Così accade che a Roma un personaggio di fama internazionale scolpisca un’Annunciazione in Santa Maria degli Angeli con l’angelo e la Madonna in figura intera ma privi di braccia. Oppure che a San Giovanni Rotondo sia raffigurato un Agnello pasquale senza orecchi, senza coda e con le gambe spezzate... Star internazionali che lavorano coi simboli non sapendo ciò di cui sono segno. È immensamente più santa e più bella una croce graffiata coll’unghia sul muro di una prigione. O una Via Crucis disegnata dai bambini che nulla sanno d’arte e di tecnica.
 
 
      Ci sono esempi positivi cui si può fare riferimento?
      LIPPI: Penso, per citare qualcuno, a Giacomo Manzù, oppure a Georges Rouault o ad Arturo Martini. Ma anche loro sono stati trovati da occhi che hanno saputo guardare. È una questione di fede, di santità di chi deve riconoscere gli artisti. Non di concorsi.
 
 
      Dove bisognerebbe cercare?
      LIPPI: Ovunque, nelle parrocchie, nei paesi, nei quartieri, nelle città, nelle diocesi. Per esempio ci sono degli artigiani che mandano avanti una tradizione decorosa e bella che è quella del presepe. Ma anche molti artisti che lavorano con quell’“abbreviazione” che è propria della modernità, da Michelangelo in poi, con una bellezza che è fatta di scintille, come fanno i bambini, di allusioni, di simboli, di cromatismi che esplodono per forme aguzze e tormentate, apparentemente caotiche, senza prospettiva, sproporzionate. Artisti, anche figurativi – ma di una figuratività viva, cioè non imitazione pedissequa e sciocca – che non fanno scialba imagerie devozionalistica, non hanno rinunciato a vivere nel mondo e usano pure i codici del mondo, compreso l’espressionismo, ma sanno cos’è il cristianesimo, conoscono e amano i suoi simboli, la storia delle sue immagini. Che hanno negli occhi il racemo, il grappolo d’uva, l’uccellino decorativi del romanico: tutta quella bellezza, spesso implicita, degli antichi e sempre nuovi simboli dell’arte cristiana. 
Paolo Mattei
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