Questo problema sociale è uno dei “segni dei tempi” della condizione umana contemporanea, cui la chiesa sta già rispondendo. Una rassegna di esperienze realizzate in varie nazioni.
del 01 gennaio 2002
Le cifre danno da sole l’allarme: secondo le statistiche di Amnesty International, si deve parlare di almeno 100 milioni di ragazzi di strada, che salgono a 150 per l’Organizzazione internazionale del Lavoro. Di questi, 45 milioni si trovano in America Latina, 10 in Africa, 40 in Asia, mentre in Europa il fenomeno è forte nella regione orientale, ma è presente anche in paesi come Irlanda, Spagna e Francia, sia pure su scala ridotta. Di fronte all’emergenza, però, ci sono diversi segnali di “speranza”, evidenziati dalla mobilitazione di governi, società civile, organismi non governativi, diocesi, congregazioni e parrocchie.
A parlare di “segno dei tempi” è stato mons. Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per la pastorale per i migranti e gli itineranti, aprendo il primo incontro europeo per la “pastorale dei ragazzi di strada” che si è svolto a Roma il 25 – 26 ottobre.
“Abitanti della strada”
A Dhaka, nel Bangladesh, vivono 10 mila bambine su strada; in Brasile sono 12 milioni i “ragazzi di strada”, a Città del Messico sono quasi 2 milioni; in tutte le Filippine se ne contano 1,2 milioni. Venendo a situazioni più vicine a noi, secondo le statistiche del Consiglio d’Europa, in Francia sono circa 10 mila, in Irlanda tra 500 e 1000, in Olanda 7000, a Bucarest 1500, a Mosca ogni anno ne vengono abbandonati 5000, nel Regno Unito 156 mila giovani sono senza casa e ogni anno scompaiono da casa circa 100 mila giovani. Negli Usa, ci sono circa 500 mila minori scappati e scacciati da casa.
“Abitanti della strada”, li ha chiamati mons. Marchetto, sottolineando che meritano attenzione da parte del Pontificio consiglio, il quale vuole attivare una funzione di monitoraggio e di raccordo di esperienze. Ma anche avanzare delle proposte di natura educativa, in quanto dietro la fuga e l’andare in strada da parte di un ragazzo c’è sempre una situazione familiare di grande disagio. E di pericolo, perché sono in agguato i tanti “Capitan Uncino” – come li ha definiti mons. Marchetto -, cioè spacciatori, turisti occidentali in cerca di sesso facile, procacciatori di “merce” per il traffico di organi, sfruttatori della prostituzione, ma anche “squadroni della morte”, se si pensa che in Brasile negli ultimi cinque anni questi nuovi “tutori dell’ordine” hanno ucciso, per lo più impuniti, circa 16.500 bambini. Conoscere la realtà è dunque il primo passo per “cercare soluzioni adeguate”.
Una visione d’insieme del fenomeno è stata effettuata dal prof. Mario Pollo, sociologo, docente in diverse università pontificie, esperto ti temi giovanili, che ha sottolineato prima di tutto come “l’allarme” e l’alto livello di attenzione che regna in alcuni paesi non sia dovuto a “ragioni umanitarie” ma piuttosto a “esigenze di auto-protezione”, perché i ragazzi vengono visti come coloro che “mettono in crisi la sicurezza della vita sociale”.
Ma quali sono, in concreto, le iniziative di “contrasto” che vengono messe in atto? A questa domanda, il prof. Pollo ha fornito una risposta sulla base dei risultati di un questionario che è stato inviato diversi mesi fa e che ha fatto da base per il dibattito successivo. Sono stati delineati cinque tipi di risposte-intervento. Il primo tipo, mira ad offrire ai ragazzi un luogo di residenza oltre che di accoglienza. Vi rientrano i collegi, le case famiglia, i focolari, gli ostelli-rifugi e le comunità terapeutiche. Il secondo tipo è costituito da strutture di aggregazione, educative, quindi, di tipo prevalentemente diurno, come gli oratori, i centri sociali, gli asili e le attività per le vacanze. Il terzo tipo di iniziative è costituito dalle azioni tese al sostegno, al recupero scolastico e i laboratori professionali. Il penultimo tipo riunisce le azioni educative svolte negli stessi luoghi di vita dei ragazzi, come il sostegno familiare, l’azione educativa di strada, il sostegno individuale e di gruppo e le attività di prevenzione del consumo di droga. Il quinto ed ultimo gruppo è formato dalle attività di sostegno ai bisogni primari, come l’alimentazione, il vestiario e, in generale, la cura del corpo. C’è da aggiungere poi, del versante dell’esistenza cattolica, che una parte significa dei progetti porta a ragazzi a riscoprire il senso della vita, perforando la scorza di rudezza e di insensibilità che si sono costruiti, loro malgrado, per poter sopravviver
Diversi i metodi concreti da usare per avvicinare i “ragazzi di strada” e avviarli ad un “recupero”: si chiamano “sei gradini” in Romania, “la storia di Emmauns” in Olanda e così via. Alla base, però, ci sono solide èquipes di adulti (in Francia), sostegno verso le famiglie di origine (Repubblica Ceca), reinserimento sociale senza rotture con l’ambiente di origine (Polonia), un progetto pastorale d’insieme (Bolivia), mentre, a livello extraeuropeo, dalle Filippine è venuta l’indicazione di avere degli adulti emotivamente solidi, che a loro volta possano contare su gruppi di riferimento.
Rassegna di esperienze
In Romania vele il “metodo dei sei gradini”. Al primo “gradino” si pone la “costruzione di una rete di amicizia”, avvicinando i bambini e accogliendoli nel centro sociale per una prima assistenza, soprattutto igienico - alimentare. Quindi i bambini possono trovare una casa, grazie all’inserimento in una casa-famiglia, preludio al terzo passo che è il “salto” verso l’indipendenza, acquisendo un’istruzione di base e la proposta di proseguirla. Al quarto posto viene la “comunità alloggio” e quindi, una volta stabilizzata la situazione, l’inserimento nel “club concordia”, prima di arrivare al “gradino” finale, che al termine dell’iter vede la trasformazione da “ragazzi di strada” in “ragazzi di speranza”.
“Concordia” è un progetto nato nel 1991 a Bucarest per aiutare i bambini di strada, grazie all’impegno dei gesuiti austriaci che hanno inviato personale, in collaborazione con l’arcidiocesi di Bucarest. Oggi il progetto conta su 200 collaboratori ed ha aiutato oltre mille bambini. Nelle diverse case c’è la disponibilità di 500 posti di accoglienza. Grazie all’impegno delle chiese e alla sensibilizzazione sociale, la situazione sta migliorando e il numero dei ragazzi di strada è in calo. Il progetto impone ai ragazzi delle regole: nei centri – spiega padre Gorge Sporschill – “tutti trovano la porta aperta e l’occasione di fare qualcosa e di mettersi alla prova. Si apre un futuro!”. Ma al primo posto – sottolinea – dev’essere offerto calore e vicinanza, nella disciplina e ordine, che vengono al secondo posto.
Il metodo “Emmaus”, in Olanda, è basato invece su un primo approccio di comunicazione e contatto, che parte dalla realtà della strada per proporre poi dei week end intorno ai problemi concreti dei ragazzi, per far sperimentare loro che è possibile vivere un clima diverso da quello della strada e farli parlare della loro che è possibile vivere un clima diverso da quello della strada e farli parlare della loro vita. Un metodo che ha dei punti di contatto con il Brasile, in cui, dopo la presa di contatto, si lavora per fare in modo che i ragazzi si riconoscono come persone che hanno diritti e doveri e, a partire da un’analisi della storia di ognuno, si possa promuovere il rientro alla famiglia di origine.
In Portogallo, esiste dal 1940 la “Obra da Rua” che oggi ha otto case in cui globalmente si accolgono 450 ragazzi portoghesi e 500 dai paesi africani di lingua portoghese. In 65 anni sono passati ottomila ragazzi per queste strutture, con un successo nel reinserimento pari all’80%. La “pedagogia” di questa istituzione è stata illustrata da mons. Francisco Sanches, presidente della Commissione sociale dell’episcopato, che ha schematizzato in otto punti. Ha parlato di “autogoverno” e “clima di autonomia”, “esercizio della libertà e senso di responsabilità”,” lavoro comunitario e apprendistato professionale”, “educazione alla fiducia e all’autostima”,”educazione di base”, “educazione religiosa e spirituale”,”autonomia personale e sociale” e, infine, “pedagogia dell’incontro”, che vuol dire “della convivenza, delle relazioni personali e dell’amicizia”.
Come è stato evidenziato nel corso dei lavori, tutti i vari “metodi”, compresi quelli elaborati nella Repubblica del Congo o nella realtà polacca, hanno in comune il lavoro di strada per costruire le relazioni, uno o più tappe intermedie di accoglienza in strutture aperte o residenziali e, infine, il rientro in famiglia o in una famiglia affidataria.
Il “metodo” italiano
Differisce dalle precedenti l’esperienza italiana dell’associazione “Nuovi Orizzonti”, nata nel 1991 nell’ambito della realtà di emarginazione della Stazione Termini di Roma, che si basa sulla riscoperta del Vangelo e la proposta di sperimentare la “potenza risanatrice”della fede e che prosegue livello di parrocchie e diocesi con obiettivi formativi e di comunicazione. In questo caso, devo essere gli stessi ragazzi non più in strada a farsi promontori di spettacoli, eventi, centri, capaci di contagiare gli altri e moltiplicare il messaggio di speranza.
Sempre tra le speranze, quella brasiliana dell’Organizzazione non governativa “indica”, alla cui presidenza vi è suor Maria Do Rosario Leite, religiosa salesiana, si basa sul metodo di Don Bosco. Nel raccontare i punti cardine dell’esperienza la religiosa ha sottolineato che “la strada è la fotografia della società” e i ragazzi di strada chiedono, gridano la loro “fame di attenzione”.”Ricostruire una vita distrutta dalla mancanza di amore, è esercitare la paternità spirituale che fa nascere di nuovo” e – secondo la religiosa – il metodo di Don Bosco, fatto di “ragione, religione, amorevolezza” è più attuale che mai. Due i capisaldi dell’azione: prima di tutto “creare” la rete di solidarietà, cercando di capire le cause della situazione, coinvolgendosi in prima persona. Secondo: promuovere le condizioni essenziale perché i ragazzi possano sopravvivere, con un minimo di dignità, grazie all’azione degli adulti che si prendono cura di loro e impostano un possibile reinserimento nelle famiglie di origine.
Che la chiesa si occupi di questa realtà – è stato detto durante i lavori – costituisce certamente un segnale di grande speranza. Ma, allo stesso tempo, è una denuncia fortissima verso l’indifferenza delle strutture. Come ha messo in evidenza il padre Shay Cullen, presidente della “Preda Foundation” delle Filippine, “ i bambini non hanno voce, non hanno voto e dunque non hanno potere. Non hanno nessuno che li protegga in maniera regolare! E così, ad esempio, “il Parlamento filippino non è riuscito a varare un progetto di legge che avrebbe evitato a migliaia di ragazzi di strada con problemi con la giustizia di andare in prigione assieme a criminali adulti in carceri sovraffollate”.
La Settimana
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