Reyhaneh Jabbari e Brittany Maynard, il sì alla vita è un'amicizia

Reyhaneh Jabbari, iraniana, voleva vivere e non glie l'hanno permesso, Brittany Maynard, americana, non vuole più vivere e ha deciso di darsi il permesso di morire.

Reyhaneh Jabbari e Brittany Maynard, il sì alla vita è un'amicizia

 

Reyhaneh Jabbari era una bella ragazza iraniana di 27 anni, il fisico un po' appesantito e provato dai lunghi anni passati nel braccio della morte. Brittany Maynard è una bella ragazza americana di 29 anni, anche lei il fisico un po' appesantito dalle cure per il tumore che l'ha colpita al cervello.

 

 

Reyhaneh Jabbari è stata impiccata all'alba di qualche giorno fa, Brittany Maynard si toglierà la vita il prossimo 1° novembre, il giorno dopo il compleanno del marito. Reyhaneh Jabbari voleva vivere e non glie l'hanno permesso, Brittany Maynard non vuole più vivere e ha deciso di darsi il permesso di morire.

 

 

Se oggi c'è una differenza tra terzo mondo — ma esiste davvero ancora? — e mondo ricco — anche questo esiste ancora? — è quella tra chi la vita se la vede togliere per volontà di altri e chi la vita può permettersi il lusso di togliersela da solo.

 

 

Si dirà: Brittany è una malata terminale e sta compiendo una scelta dignitosa, quella di porre fine alla sua esistenza prima che la malattia la devasti nel dolore fisico e mentale. Si dirà anche che i contorni giudiziari del caso che ha coinvolto Reyhaneh Jabbari non sono chiari: omicidio premeditato, il coltello con cui ha ucciso l'uomo l'aveva comprato il giorno prima, c'era una terza persona coinvolta nell'uccisione e quant'altro. Non è così semplice ovviamente: la donna sosteneva invece di essere stata oggetto di tentativo di stupro e l'uomo ucciso apparteneva ai servizi segreti iraniani, dunque, visto il clima che si respira in quel paese, un intoccabile, un essere superiore, e chi ha l'ardire di toccarne uno va punito.

 

 

Ma c'è una costante nelle due storie, che è quella della morte, data e voluta. Perché la morte è la costante in questo mondo del terzo millennio che ci troviamo a vivere. Una morte cattiva, tracimante, un ghigno fastidioso che emerge da ogni notiziario: chi ad esempio ridarà una vita e una speranza alle oltre duecento ragazzine rapite in Nigeria nel momento più bello della loro vita, quello della scuola?

 

 

In America e in Europa invece ci siamo dati un lusso, quello di toglierci la vita quando essa ci sembra diventata insopportabile. Ci sembra, perché la vita in realtà non è mai insopportabile, anche nelle situazioni più estreme. Di fatto oggi in quelle che una volta erano le ricche e opulente società avanzate la vita è insopportabile, malattie a parte. C'è una disperazione silenziosa e strisciante che si sta impossessando di ognuno di noi.

 

 

"Dopo un'operazione e un ciclo di cure, in aprile i medici le hanno detto che il cancro era tornato più aggressivo di prima, e le restavano solo sei mesi di vita, da trascorrere tra atroci dolori. Brittany ha effettuato delle ricerche, scoprendo che non esiste un trattamento in grado di salvarle la vita, mentre con le cure prescritte dai medici le sue capacità intellettive sarebbero decadute inesorabilmente" si legge in giro. E' un modo di riportare una notizia evidentemente tendenzioso che nega ogni possibilità. Ecco dove sta la morte, in questo modo di riportare fatti e realtà. A senso unico tanto da togliere voglia di vivere a chiunque.

 

 

Nei giorni scorsi un seminarista americano ha scritto una lettera aperta a Brittany che in pochi hanno letto. Anche lui è malato di tumore al cervello, però lo è da sei anni. Anche a lui avevano dato pochi mesi di vita, ma è ancora vivo. Bizzarro? Può darsi.

 

 

Nella sua lunga lettera Philip Johnson chiede a Brittany di non uccidersi per non negare a quelli come lui la speranza. Ogni gesto, aggiungiamo noi, anche negli angoli più remoti del mondo, ha delle conseguenze che si ripercuotono poi su tutti. Poi le dice che lui, in questi anni di malattia in cui ha spesso pianto, maledetto Dio — sì, lui, un seminarista — per il dolore e la paura di morire ha avuto qualcosa per cui è stato comunque contento di vivere nelle sue condizioni. Gli amici, la famiglia, Dio, la sua Chiesa. Non è mai stato solo, dice. "Cara Brittany, se sceglierai di combattere questa malattia la tua vita e la tua testimonianza sarebbero un esempio incredibile per innumerevoli altri nella tua situazione, saresti certamente di ispirazione per me che continuo la mia lotta contro il cancro" scrive Philip. E aggiunge: "Ho camminato nei panni di Brittany ma non ho mai dovuto camminare da solo. Tale è la bellezza della Chiesa, delle nostre famiglie e il sostegno che ci diamo l'uno con l'altro tramite la preghiera. Noi non siamo soli neanche nel dolore".

 

 

Alla fine forse è tutto qua: non essere soli. Anche Brittany non è sola, ha una famiglia e degli amici, ma la scelta è diversa.

 

 

Non farlo, Brittany, se non altro in rispetto di Reyhaneh Jabbari. Lei voleva vivere, ma non glie lo hanno permesso. Lei amava la bellezza. Lei che aveva scritto ai suoi parenti, dal braccio della morte: "Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non viene ricercata in quest’epoca. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione e persino la bellezza di una voce dolce"

 

 

Paolo Vites

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