RICORDATI DI ME

La verità è che i genitori sono smarriti, hanno esaurito certezze e i figli sono neutrali, impotenti, privi di veri desideri...Secondo Muccino siamo diventati più cinici, più superficiali, più nevrotici, più conformisti, più fragili. Individualisti, arroganti, incapaci di amare e tremendamente insicuri, sempre sospesi tra il disperato tentativo di piacere agli altri e il profondo disprezzo di sé stessi...

RICORDATI DI ME

da Quaderni Cannibali

del 28 novembre 2005

Regia: Gabriele Muccino

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Laura Morante, Nicoletta Romanoff

Origine: Italia/Francia/Gran Bretagna 2002

Durata: 130’

 

Una famiglia a Roma: la madre, Giulia, è una professoressa di lettere che vuole tornare al teatro. Il padre, Carlo, lavora in una finanziaria, ha un romanzo incompiuto nel cassetto, e riprende una relazione con la sua fidanzata di un tempo, Alessia. Il figlio, Paolo, vorrebbe dimostrare a tutti di non essere un buono a nulla, e si strugge dietro una coetanea. Sua sorella Valentina è disposta a tutto pur di diventare una showgirl in televisione. Un incidente che rischia di lasciare paralizzato Carlo metterà tutto in discussione. Per poco.

 

 

Hanno detto del film

“Talvolta Muccino sembra saperla fin troppo lunga e i personaggi soffocano un poco sotto l’implacabile schema sociologico; più che vivere di vita propria sembrano risultanti di una sommatoria statistica, suonano a tratti troppo tipici per crederci fino in fondo. Ma è vero che la loro tragica inconsistenza, la dipendenza reciproca che li condanna ad esistere solo ‘dentro’ la famiglia che li castra e li avvilisce, è il cuore stesso del film. E Muccino strappa alla loro banalità diverse scene memorabili. (...) Convincono meno invece i personaggi maschili. Ma non è certo colpa degli attori, né carenza di scrittura o di regia. È il maschio oggi a essere debole, sfuggente, sfocato come in un film di Woody Allen, e il tristissimo sorriso finale di Fabrizio Bentivoglio è il suggello perfetto di questo film teso, incalzante, senza pause. Che magari attribuisce a Hegel una frase di Hofmannstahl, ma sa catturare in un dettaglio, un gesto, uno sguardo, le aberrazioni del contemporaneo. Come accade quando gli autori parlano di un mondo che conoscono davvero, e magari hanno l’età dei loro personaggi”.

                                                             (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 14 febbraio 2003)

 

La verità è che i genitori sono smarriti, hanno esaurito certezze e i figli sono neutrali, impotenti, privi di veri desideri: il regista sta, anche generazionalmente, in mezzo, da una parte guardando la patetica coppia in esercizio di odio-amore, dall’altra solidale col fratello Silvio Muccino e la scosciata Nicoletta Romanoff. Perfetti come sono, icone pop di una società confusa che il film rispecchia sociologicamente benissimo, pur non carpendo l’attimo poetico della sconfitta, singola e collettiva, e quell’atroce dolore dell’impossibilità di tornare indietro per ricominciare daccapo”.

                                                     (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 12 febbraio 2003)

 

“Ricordati di me” si poteva anche intitolare “Gruppo di famiglia in un inferno”, perché narra un vero e proprio inferno emotivo, attraverso un documento antropologico che fotografa senza remore i valori tipici di una famiglia borghese italiana contemporanea. Secondo Muccino siamo diventati più cinici, più superficiali, più nevrotici, più conformisti, più fragili. Individualisti, arroganti, incapaci di amare e tremendamente insicuri, sempre sospesi tra il disperato tentativo di piacere agli altri e il profondo disprezzo di sé stessi. L’unico valore che può miracolosamente salvarci da qualunque palude è il presunto successo, inteso come fama, perché con esso si spera anche di ricevere dagli altri la consapevolezza del proprio valore: credendo nel miraggio che, se le masse ci adoreranno, ci sentiremo più complete anche come persone. Però allo stesso tempo Muccino fotografa il vuoto in nome del nulla, perché anche i genitori, intellettuali e di sinistra, quando vedono che la figlia ottiene quello che vuole, cioè svendere il proprio corpo in tv da velina, dopo essersi prostituita all’uopo, la riconoscono come persona vincente. Non importa se per questo la giovane ha gettato alle ortiche ogni valore che riguarda il rispetto della propria dignità umana.

                                                                                                    (Piero Spila, www.sncci.it)

 

La “marcia in più” del film deriva stavolta dal non limitarsi a mettere in scena conflitti generazionali, sindromi di Peter Pan e rapporti di coppia con una cifra stilistica inconfondibile, bensì nel guardare ai suoi personaggi da una distanza che consente un’osservazione asettica quanto implacabile, una radiografia al vetriolo della famiglia, del lavoro e dei modelli imperanti. (…) La famiglia è un rifugio necessario, da demonizzare ma da reinventare costantemente in un equilibrio fondato sull’assistenza del più debole e sul soffocamento delle pulsioni.

                                                            (Mario Mazzetti, Vivilcinema n°1, genn./febb. 2003)

 

I genitori hanno sbagliato, perché hanno preso la vita come veniva, abbandonando i loro sogni. I figli o si sentono senza identità (il ragazzo) o hanno ambizioni facili (la fanciulla che vuole essere “velina”). Disegnato il ritratto di famiglia in un interno romano, Gabriele Muccino in “Ricordati di me” segue i destini incrociati dei suoi personaggi, con un montaggio nervoso. Il regista ha voglia di crescere e non ha paura del dolore.

                                                                                     (Claudio Carabba, Sette 20/2/2003)

 

E la smania di emergere, di primeggiare, di distinguersi, di sfuggire alla collettiva mediocrità, di appagare ambizioni sbagliate, di essere qualcuno, è il ben noto vecchio morbo delle società di massa, la malattia crudele che provoca delusioni, frustrazioni, depressioni, infelicità, scontento. Nella storia esposta da una voce narrante, la famiglia (come quella delle statistiche o de «La stanza del figlio» di Nanni Moretti) è composta da quattro persone: padre, madre, figlio e figlia ragazzi, appartenenti alle due età più insofferenti e inquiete, la quarantina e oltre delle ultime occasioni, l’adolescenza assetata di autoaffermazione. (...) Ciascuno rincorre le proprie aspirazioni, la famiglia si disfa: pare ricomporsi quando il padre viene gravemente ferito in un incidente d’auto. Nella rossa banalità del Natale, genitori e figli si ritrovano uniti: ma il padre telefona di nascosto all’amante, tutto sta per ricominciare.

                                                                         (Lietta Tornabuoni, La Stampa 14/02/2003)

 

“Ricordati di me” è un film importante, necessario, spaventoso. Importante perché propone una straordinaria radiografia della salute sociale, politica e mentale dell’Italia post-2000. Necessario perché ad ogni società, in ogni momento della sua storia, è utile avere degli specchi in cui osservarsi senza ipocrisie. Spaventoso perché la suddetta radiografia suscita, appunto, spavento.

                                                                                     (Alberto Crespi, l’Unità 14/02/2003)

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