Romani 11,30-33San Paolo si era creduto chiamato a convertire al Cristo i suoi vecchi correligionari, e l'ha confidato ai Giudei di Gerusalemme, come ci riferisce San Luca negli Atti (22,17-21). Gli pare che il suo zelo di un tempo per il giudaismo non potesse che rendere più efficace la sua testimonianza. Ora, è ai pagani che Cristo lo manda...
del 01 gennaio 2002
A conclusione di queste meditazioni che di volta in volta han preso in esame un aspetto particolare della dottrina spirituale di San Paolo, sceglieremo un passo tolto, come il precedente, dalla lettera ai Romani e probabilmente di eguale attualità. L'Apostolo vi ha espresso le sue riflessioni sulla teologia della storia e più precisamente sulla parte che in essa svolge il peccato dell'uomo che Dio, nella sua misteriosa sapienza, utilizza ai fini della sua misericordia. Il passo conclude i lunghi ragionamenti sul problema del rifiuto opposto al vangelo dalla massa del popolo eletto. Davanti all'infedeltà d'Israele, non solo sanguina il cuore dell'Apostolo, che «si augurerebbe di essere anatema, separato dal Cristo per i suoi fratelli, quelli della sua razza secondo la carne» (Rom. 9,3), ma il rifiuto sembra mettere in questione le promesse divine: si tratta di un vero scandalo di ordine religioso. Ora San Paolo comprende che questo rifiuto entra misteriosamente nei disegni salvifici della sapienza divina su tutto il genere umano.
Ecco come si esprime alla fine del cap.11, indirizzandosi alla comunità cristiana di Roma composta in maggioranza da convertiti dal paganesimo.
Come voi una volta avete disobbedito a Dio e ora avete ottenuto misericordia grazie alla loro disobbedienza, così anch' essi al presente hanno disobbedito grazie alla misericordia usata a voi, affinché essi pure al presente ottengano misericordia. Poiché Dio ha racchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per usare a tutti misericordia. O abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Come sono insondabili i suoi decreti e imperscrutabili le sue vie! (Rom. 11,30-33).
San Paolo si era creduto chiamato a convertire al Cristo i suoi vecchi correligionari, e l'ha confidato ai Giudei di Gerusalemme, come ci riferisce San Luca negli Atti (22,17-21). Gli pare che il suo zelo di un tempo per il giudaismo non potesse che rendere più efficace la sua testimonianza. Ora, è ai pagani che Cristo lo manda (v. 21). Di fatto, nonostante tutti i suoi sforzi (1), i Giudei non solo si rifiutano di credere in massa al vangelo (2), ma, gelosi di veder la «parola della salvezza» recata anche agli odiati pagani (cfr. Atti 13,45), fan di tutto per porvi ostacolo, come si lamenta l'Apostolo: «Ci impediscono di predicare ai pagani per la loro salvezza» (3). Così il popolo d'Israele, unico depositario delle promesse della salute per il mondo intero e solo strumento scelto da Dio per portare questa salvezza al genere umano, sembra aver cessato di esser tale a vantaggio dei pagani, nemici di Israele e di Dio. Contraddizione tanto più lampante, se si pensa che le promesse divine riguardo a Israele erano incondizionate, cioè non dipendevano dalla fedeltà degli uomini. Poiché la parola di Dio non può fallire (Rom.9,6), come potrebbe il vangelo di Paolo essere ancora un vangelo autentico, un' autentica «Parola di Dio», se fosse in opposizione così aperta con la parola di Dio infallibile?
Tre capitoli non sono di troppo per esporre la soluzione complessa e sfumata dell' Apostolo. Le promesse di Dio verso il popolo d'Israele, per incondizionate che siano, non si oppongono a una infedeltà da parte degli individui: infedeltà che del resto non si estende a tutti, ma è parziale. Soprattutto poi, nonostante le apparenze, essa è «provvidenziale» o, come dice Paolo, è conforme alla «giustizia» salvifica di Dio (Rom. 9,14), ossia ordinata alla salvezza di tutti (vv. 17 e 22-23). Perciò non esita ad affermare che, se i Giudei hanno disobbedito grazie alla misericordia usata ai pagani (la salvezza offerta ai pagani ha di fatto eccitato la loro gelosia, cfr. Atti 13,4 5), i pagani hanno ottenuto misericordia grazie alla disobbedienza dei Giudei o in termini ancor più chiari afferma che «il falso passo dei Giudei ha procurato la salvezza ai pagani» (Rom. 11,11), «ha reso ricco il mondo»; che «la loro diminuzione è stata la ricchezza dei pagani» (v. 12), e «la loro messa a parte una riconciliazione per il mondo» (v. 15).
Infatti San Paolo conosceva più di tutti fino a qual punto Giudei e pagani sì disprezzavano gli uni gli altri. Se tutta la massa dei Giudei si fosse convertita, poteva con ragione domandarsi se i pagani avrebbero accettato di abbracciare una religione che poteva apparir loro come una setta giudaica. Soprattutto, forse, doveva pensare agli ostacoli d'ogni sorta che i convertiti dal giudaismo avevano costantemente opposto alla sua predicazione del vangelo autentico e ai quali così spesso allude nelle lettere. Se il piccolo numero di questi convertiti aveva reso il suo apostolato così difficile, quale ostacolo non avrebbe costituito la conversione in massa di Israele!
Quindi l'infedeltà di Israele, lungi dal mettere in scacco il piano divino di salvezza del mondo, come un tempo la resistenza del Faraone fa risplendere di luce meridiana la potenza salvifica di Dio (Rom. 9, 17.22-23). C'è di più. Nel pensiero divino l'infedeltà attuale dei Giudei non è una «caduta definitiva», ma un semplice «passo falso» che deve facilitare la conversione dei pagani, ordinato in ultima analisi alla conversione stessa dei Giudei. Dio l'ha permessa «affinché la loro gelosia ne fosse provocata» (Rom. 11,11), affinché essi pure a loro volta ottenessero misericordia.
Per accogliere la salvezza come un dono della misericordia divina bisognava che Israele cominciasse a rinunciare a pretenderla come un diritto, che si spogliasse di quella «sufficienza» in cui San Paolo ravvisa in realtà il più grande ostacolo, il solo in fin dei conti, a una conversione vera (cfr.Rom. 3,27). Questo era già l'insegnamento dei primi capitoli della lettera: se Paolo si attarda a descrivere la «rivelazione della collera di Dio» (Rom. 1,18-3,30), lo fa per preparare l'uomo ad accogliere la «rivelazione della giustizia salvifica di Dio in Gesù Cristo» (Rom. 3,21). Dio ha permesso che il peccato soverchiasse il genere umano, senza distinzione di pagani (Rom. 1,18-31) e di Giudei (Rom. 2,1-3,20), «affinché ogni bocca fosse chiusa e il mondo intero riconosciuto colpevole davanti a Dio» (Rom. 3,19). Se l'uomo vuol essere giustificato da Dio, l'unico atteggiamento da prendere è quello del pubblicano della parabola evangelica (Lc. 18,9-14). Giobbe una volta s'era immaginato che, per vedere riconosciuta da Dio la sua ingiustizia, fosse sufficiente che Dio usasse nei suoi confronti una bilancia esatta: «Mi pesi su una bilancia esatta! Lui, Dio, riconoscerà la mia innocenza!» (Giob. 31,6). Proposta stolta: «Ho parlato alla leggera... piuttosto mi metterò la mano alla bocca» (40,4)... «Non ti conoscevo ancora che per sentito dire. Ritiro perciò le mie parole e faccio penitenza in polvere e cenere» (42,5-6).
L'uomo per essere giustificato deve, col Salmista citato proprio qui da San Paolo (Rom. 3,19), smettere di invocare il «giudizio» di Dio: «Non entrare in giudizio col tuo servo» (Sal. 143,2) e appellarsi invece unicamente alla fedeltà con cui Dio mantiene le promesse di salvezza, ossia a ciò che il Salmista chiama la sua fedeltà e la sua giustizia: «Ascolta la mia supplica nella tua fedeltà, accogli la mia preghiera nella tua giustizia» (Sal. 143,1). Dio non può volere il peccato dell'uomo; ma lo permette. L'uomo solo è responsabile del suo peccato; ma San Paolo non esita ad assegnare a questo un posto nel piano di Dio. Tutti hanno disobbedito, tutti hanno peccato, Giudei e pagani: Dio voleva usare a tutti misericordia!
Un disegno così straordinario strappa all' Apostolo un grido che non è certo di terrore e di spavento come sembrano suggerire certe espressioni di S. Agostino, ma, come ha ben visto Origene, di gioiosa meraviglia e di ringraziamento, davanti all'abisso della ricchezza salvifica di Dio, della sua scienza elettiva, con la quale ha anticipatamente «conosciuto il suo popolo» (Rom. 11,2), e della sua sapienza, sovrana signora della storia: O abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! come sono insondabili i suoi decreti e imperscrutabili le sue vie! Esclamazione cui faranno eco le ultime parole della lettera: «A Dio, unico sapiente, per Gesù Cristo, a lui sia gloria nei secoli dei secoli» (Rom. 16,27). Proprio a proposito del peccato e delle ragioni misteriose per cui Dio lo permette, Paolo evoca in genere - qui e probabilmente anche in 1 Cor.1,21-24 - il tema biblico della «sapienza di Dio», sapienza «dalle risorse infinite» (Ef. 3,10), sorprendente «capacità» che, in una maniera tanto più meravigliosa quanto più sconcerta le nostre intelligenze limitate, sa assicurare il trionfo della misericordia e far servire alla salvezza dell'uomo, purché questo vi acconsenta, persino quel peccato del quale si serve per opporsi alla salvezza stessa.
Questa è una teologia della storia di un ottimismo singolare, che Sant'Ireneo ha magnificamente illustrato in una celebre pagina in cui si riferisce proprio al nostro passo della lettera ai Romani. Egli ci mostra come Dio fin dall'origine, mentre elaborava il suo piano di salvezza, permise che l'uomo fosse inghiottito dall'antico dragone, come più tardi Giona dal mostro marino, non perché rimanesse in quello stato e fosse definitivamente perduto, ma perché risuscitasse dai morti e, ricevendo da Dio una salvezza che non gli era più lecito sperare, rendesse gloria a Dio e così cessasse di credere, nel suo vano orgoglio, di possedere l'immortalità per natura. Così l'esperienza stessa dell'abisso da cui sarebbe stato liberato gli avrebbe rivelato a un tempo e la debolezza sua propria e la grandezza di Dio, capace di conferire l'immortalità al mortale e l'eternità all'effimero. E l'uomo, scoprendo come rivelate nella sua persona tutte le energie divine, avrebbe fatto salire dalla sua anima un canto incessante di ringraziamento: «Come il medico si rivela nei malati, così Dio si manifesta negli uomini. Ecco perché San Paolo ha detto: Dio ha racchiuso ogni cosa nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (4).
[1]. Si veda per es. Atti 13,5 (a Salamina); 13,14-41 (ad Antiochia di Pisidia): 14,1 (a Iconio); 16,13-15 (a Filippi); 17,2-4 (a Tessaloni. ca); 7,10-12 (Berea); 18,2-4 (a Corinto); 18,19-20 e 19,8 (a Efeso); 21,33-22,21 (a Gerusalemme); 28,17-24 (a Roma). [2]. Si confronti specialmente Atti 13,45-47 (ad Antiochia di Pisidia); 18,6 (a Corinto); 19,9 e 20,19 (a Efeso); 21,27-31; 22,22-23 e 23, 12-22 (a Gerusalemme); 28, 24-28 (a Roma). [3]. 1 Tess. 2,16: Paolo pensa probabilmente a quanto era accaduto ad Antiochia di Pisidia (Atti 13,50), a Iconio (14,2), a Tessalonica (17,5) e a Berea (17,13). [4]. Iren., Adv. haer.3,20,1-2.
Stanislao Lyonnet
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