Rwanda, a vent'anni dal genocidio. I missionari: l'ora del «mea culpa»

Le domande di allora risuonano anche oggi in tutta la loro gravità: com'è potuto accadere? E perché le divisioni etniche sono così profondamente penetrate anche dentro la comunità cristiana?

Rwanda, a vent'anni dal genocidio. I missionari: l’ora del «mea culpa»

 

I vent’anni dell’inizio del genocidio rwandese non sono passati inosservati sulla stampa cattolica italiana e, segnatamente, su quella missionaria. Il motivo è presto detto: la violenza che si scatenò all’indomani del 6 aprile 1994 - giorno dell’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano il presidente rwandese Habyarimana e il suo omologo burundese Ntaryamira – nell’arco di pochi mesi avrebbe lasciato sul terreno ben 800mila persone (tra tutsi e hutu moderati). Vittime e vicende che, da allora, pesano anche sulla Chiesa come un macigno. Il Rwanda, infatti, era allora il Paese più cristiano del continente: il 65% della popolazione era composto di cattolici, un altro 15% di protestanti.

 

 

A vent’anni di distanza, le ferite sono tutt’altro che rimarginate. Le domande di allora risuonano anche oggi in tutta la loro gravità: com’è potuto accadere? Che Vangelo era stato annunciato in Rwanda? E perché le divisioni etniche sono così profondamente penetrate anche dentro la comunità cristiana?

 

 

È pur vero che la Chiesa cattolica pagò un prezzo altissimo, con circa trecento tra preti e suore uccisi (compresi un arcivescovo e tre vescovi). Purtroppo, però, non va dimenticato che altri uomini di Chiesa rwandesi si resero complici del genocidio e alcuni di loro sono finiti sotto processo.

 

 

Fortunatamente – ricorda Popoli, magazine internazionale dei Gesuiti italiani in un articolo dal titolo “Gli angeli del Rwanda” – anche in quel terribile periodo non mancarono uomini «che seppero far prevalere l’umanità sulla ferocia». Il pezzo in uscita nel numero di aprile racconta, per esempio la storia di un religioso, padre Alphonse (il nome è stato cambiato per motivi di sicurezza) che, fuggito dal seminario all’approssimarsi della tragedia, riesce a scappare dal Rwanda e raggiungere il Congo grazie a soldati nemici di cui diventa amico. «Sono stati angeli di Dio. Mi piacerebbe ringraziarli ancora. Ma non so dove siano. Oggi, sempre di più, sono convinto che anche da storie positive come quella di questi soldati si può ripartire per riconciliare il Rwanda».

 

 

Un’altra storia positiva è narrata da Marco Trovato sul settimanale Credere della San Paolo, in edicola dal 4 aprile. Giornalista di Africa, edita dai Padri bianchi, Trovato ha raggiunto in Rwanda padre Mario Falconi, settantenne, bergamasco di origine, unico religioso italiano a essere stato nominato tra i "Giusti del Rwanda". Vent'anni fa il missionario barnabita si rese protagonista di uno straordinario atto di coraggio che permise di salvare oltre tremila persone. Racconta: «I miliziani erano come bestie feroci assetate di sangue, facevano a pezzi donne e bambini con il machete. Attorno a me vedevo solo l'inferno. Avevo paura di morire. Non so dire dove ho trovato il coraggio per fare quel che ho fatto». Padre Falconi rifiutò di farsi rimpatriare con gli elicotteri che avevano portato al sicuro gran parte degli occidentali presenti in Rwanda. «Non potevo andarmene e abbandonare chi aveva riposto in me la propria speranza di salvezza», ha detto a Credere. Un racconto commuovente, il suo, emblematico di una Chiesa capace di schierarsi dalla parte dei più deboli.

 

 

Al di là, però, di questo e di molti altri episodi di eroismo, la questione di fondo rimane: perché ha potuto scatenarsi un odio così tremendo in una terra che, per numero di battesimi, era considerata la più cristiana d’Africa? Anna Pozzi, giornalista di Mondo e Missione, ha dato voce, sulla scottante questione, a un importante teologo africano: padre Rigobert Minani, gesuita congolese, responsabile di una rete di associazioni per i diritti umani. «L’Africa dei Grandi Laghi ha conosciuto in questi ultimi vent’anni una situazione di instabilità che pone alcune questioni fondamentali alla Chiesa», afferma Minani. «I Grandi Laghi sono abitati prevalentemente da cristiani, che rappresentano più dell’85 per cento della popolazione. Come si spiega che tale regione si sia distinta per comportamenti tanto orribili e deplorevoli?».

 

 

Nella sua colonna “Ubuntu” sul mensile Jesus, la giornalista torna sulla questione rwandese allargando l’orizzonte e ricordando che il genocidio coincise con le prime elezioni libere in Sudafrica (che, vinte da Mandela, avrebbero segnato la fine dell’apartheid) e con la celebrazione del primo Sinodo dei vescovi africani (10 aprile - 8 maggio 1994). «I due avvenimenti, in particolare il genocidio rwandese, segnarono molto le riflessioni di quell’assise. Anche perché la Chiesa del Rwanda visse drammaticamente sulla stessa sua pelle quella drammatica vicenda», scrive Anna Pozzi. E aggiunge: «Ma mentre il Sudafrica ha provato a fare un vero percorso di riconciliazione, lo stesso non è avvenuto in Rwanda. L’autorità morale di Mandela e quella religiosa di Desmond Tutu hanno fatto appello alla forza del perdono e a quella dell’ubuntu – ovvero alle reti di prossimità e interdipendenza su cui si regge la comunità – per restituire dignità alle vittime e rendere i colpevoli consapevoli delle loro responsabilità. Tutto questo non è stato fatto in Rwanda».

 

 

Da più parti, insomma, viene l’invito a ricordare il ventennale del genocidio in un’ottica di “mea culpa”. Lo fa anche Nigrizia, che, nel numero di aprile, titola un ampio dossier “Benvenuti a Tutsiland”, dichiarando: «Il Fronte patriottico rwandese e il capo supremo Paul Kagame hanno creato una trappola totalitaria. Che sta in piedi perché troppi, anche nella Chiesa, si ostinano a fingere di non vedere».

 

 

Il mensile dei Comboniani accusa l’attuale governo di sfruttare “i dividendi del genocidio”. Scrive Raffaello Zordan: «I padroni del Rwanda stanno traendo dal genocidio del 1994 ogni vantaggio possibile. Il regime poggia letteralmente la propria autorità politica e morale su quelle morti. Ha deciso che la storia ha segnato per sempre chi sono i carnefici (tutti gli hutu) e chi le vittime (tutsi). Ma questa via della riconciliazione a senso unico non porta evidentemente da nessuna parte». Anche il mensile dei Saveriani, Missione Oggi – che affida a Gabriele Smussi, ex volontario Svi in Ruanda, un’acuminata analisi - è molto critico con il governo retto da Kagame; gli imputa, tra l’altro, la responsabilità di aver eliminato, uno dopo l’altro, i testimoni–chiave del genocidio e gli oppositori del regime.

 

 

Ma torniamo a Nigrizia. La sua denuncia non è meno severa nei riguardi della Chiesa: «Inutile cercare, tra chi governa la Chiesa, segnali di critica allo ‘status quo’. Sul bollettino n° 157 (3-7 marzo 2014), la Conferenza episcopale rwandese, presieduta da monsignor Smaragde Mbonyintege, informa che i vescovi hanno incontrato il segretario esecutivo della Commissione nazionale di verità e riconciliazione, strumento del regime, il quale ha illustrato il programma “Ndi umunyarwanda” (“Sono ruandese”). I vescovi, mentre ricordano che la Chiesa ha come missione di cercare l’unità dei rwandesi, sottolineano che “la metodologia della Chiesa non è la stessa di quella dello stato, ma la finalità è identica e c’è dunque complementarietà”». Sferzante il commento: «Un bell’inchino e riverenza a Kagame».

 

 

Ci sono sì associazioni – ricorda ancora Nigrizia - «dove hutu e tutsi, insieme, si sostengono per costruire un avvenire migliore. Ma anche in seno alla Chiesa sono minoranze». Il prestigioso mensile dei Comboniani offre, inoltre, la testimonianza di Guy Theunis, Padre bianco belga, ingiustamente accusato di genocidio e incarcerato. Il quale dichiara senza mezzi termini: «Nella Chiesa rwandese non si intravvede né prospettiva pastorale reale, né un impegno chiaro per superare le divisioni. La Chiesa, le Chiese sono divise tra hutu e tutsi. E finché non affronteranno la questione in modo chiaro al loro interno, non potranno aiutare la popolazione». Una divisione che si ritrova anche all’estero, dove le comunità rwandesi celebrano insieme l’eucaristia e altre feste importanti, «ma gli hutu da una parte e i tutsi dall’altra».

 

 

Divisioni antiche, che già si intuivano prima ancora che scoppiasse la tragedia: basterebbe leggere un romanzo appena uscito da “66thand2nd”, “Nostra Signora del Nilo”, di Scholastique Mukasonga, che descrive, dall’interno, l’ambiente e i pregiudizi circolanti nelle scuole cattoliche del Paese agli inizi degli anni Settanta.

 

 

Per finire, segnaliamo un interessante pezzo che Pier Maria Mazzola, direttore editoriale della Emi, ha postato nei giorni scorsi sul suo blog “L’asterisco”. Dopo aver lamentato una bibliografia quasi a senso unico sul tema (ovvero l’assenza del punto di vista degli hutu moderati), Mazzola segnala che già nel 2001 l’Editrice Missionaria Italiana aveva pubblicato un libro ricostruendo la vicenda di un vescovo rwandese, monsignor Augustin Misago, ingiustamente accusato di genocidio dal presidente della Repubblica. Peccato che – osserva Mazzola - «il marchio mediatico è rimasto. Un’opera uscita successivamente, il citatissimo libro di Philip Gourevitch, ha ‘dimenticato’” l’innocenza del prelato… E anche l’autore di uno dei romanzi considerati più importanti sul genocidio, il senegalese Boubacar Boris Diop, anni fa dichiarava nel corso di una conferenza in Italia, che ‘il massacro di Murambi era stato voluto”’ dal vescovo di Gikongoro…»”. A dire: sul Rwanda, ancora una volta, la memoria funziona a intermittenza.

 

 

Gerolamo Fazzini

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