Rubrica di educazione a cura di Richard Kermode.
Un po’ di tempo fa “Avvenire” pubblicava un breve articolo dal titolo emblematico “«Mancano educatori nelle comunità». Così i minori restano in cella”. Una mancanza che tradottaeconomicamente significa: c’è forte domanda, ma manca l’offerta. Verrebbe da chiedersi: come mai?
Certo, l’educatore non ha lo stesso valore simbolico di altre professioni di cura: vuoi mettere lo psicologo? È anche fuori discussione che sia un ruolo non molto apprezzato a livello economico, come è vero che nell’immaginario resta un lavoro un po’ indefinito. Girava una battuta qualche tempo fa che esprimeva bene questo:
- “Cosa fai?”.
- “Faccio l’educatore”.
- “Si, ok, ma cosa fai?”.
Resta una situazione drammatica: l’impossibilità di offrire percorsi alternativi a delle persone, tenendo conto che qui si sta parlando di minori, di ragazzi (e non solo con problemi legati alla giustizia). Nell’articolo, Paolo Tartaglione, referente del settore penale minorile per il Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca), diceva: “Dopo il Covid le professioni di cura hanno perso attrattività. Gli educatori hanno avuto un crollo di popolarità nettissimo: le scuole si sono trovate senza insegnanti e hanno imbarcato gli educatori. Le comunità hanno subito un esodo e molte hanno chiuso. Anche la cooperativa per cui lavoro ha dovuto sacrificarne una delle quattro che gestiva”.
Abbiamo rilevato alcune questioni legate all’educatore, ma credo che ve ne sia un’altra, più profonda, che troviamo su un versante etico: aiutare l’altro è diventata una scelta “personale”, “intima”, un po’ come succede alla fede, qualcosa che non incrocia più il discorso “pubblico”. Tra l’altro qualcosa che spesso non offre grande soddisfazione, grandi successi. Il “fallimento” non è poi così lontano. Aveva ragione il buon Freud a ricordare che l’educazione era cosa “impossibile”.
Sono segnali che, per chi abita il mondo salesiano, indicano la necessità di aguzzare lo sguardo.
So long
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