Il cuore della sua santità: Non basta che i giovani siano amati, ma è necessario che sappiano di essere amati.
Giovannino Bosco (1815-1888) a 2 anni perde il papà a causa di una grave e improvvisa malattia. Facendo fiorire nella Grazia questa perdita gravissima e aiutato da Mamma Margherita, Giovanni Bosco crescerà con un’attenzione colma di carità, sempre maggiore, per la vera felicità e per la scelta cristiana dei suoi amici e compagni. Quando diventerà don Giovanni Bosco, avrà sempre un’attenzione privilegiata per i ragazzi più poveri, sbandati e soli. Fino a commuoversi solennemente: «Ho promesso a Dio che fino al mio ultimo respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo. Per voi sono anche disposto a dare la vita».
Il cuore della sua santità: Non basta che i giovani siano amati, ma è necessario che sappiano di essere amati. O meglio, con le parole stesse di don Bosco: «Chi sa di essere amato ama e chi è amato ottiene tutto specialmente dai giovani. Questa confidenza mette una corrente elettrica fra i giovani e i salesiani [gli educatori]». Tutta questa corrispondenza di affetti appare a prima vista stupenda, graziosa e infinitamente gradevole.
In realtà, affinché si realizzi una relazione pedagogica veramente salesiana è assolutamente indispensabile una esperienza spirituale ascetica e mistica da parte dell’educatore, poi trasmessa per contagio ai giovani che Dio gli affida. Esperienza spirituale significa che l’educatore salesiano incontra Dio in cappellina di fronte al Santissimo e al Crocifisso. Ma poi ri-conosce lo stesso Cristo in cortile dicendo una buona parola al singolo ragazzo e allo stesso tempo nello studio, nella preparazione in vista del dono di sé ai giovani.
Si inizia il cammino salesiano (in ogni sua forma) per i giovani, ma lo si continua solo per Dio.
Questa stessa esperienza è ascetica, in quanto richiede la spogliazione totale da parte dell’educatore di ogni preferenza su se stesso e nei confronti di chi ha di fronte. Non coltivare aspettative: sì, saper sognare in grande, vedere Dio presente anche nel ragazzo più sfortunato. Ma non pretendere di formare i giovani (nelle famiglie, i figli) a propria immagine e somiglianza. Non esiste una ricetta unica e sempre ripetibile per rapportarsi con i ragazzi, l’incontro con ognuno è una scoperta, una sfida, la necessità del coraggio, la coordinazione tra la Grazia e l’impegno personale.
L’esperienza spirituale salesiana è mistica (dono gratuito del Dio Altissimo e della sua Grazia) non solo perché porta ad esperienze di Dio chiaramente straordinarie. Ma soprattutto perché permette di scorgere Dio e la sua azione ogni giorno, in ogni persona che si incontra.
Qualcuno potrebbe essere talmente affascinato da dire: che bello! Voglio anch’io essere come don Bosco! Grandiosa idea. Deve accettare però il rischio di non essere solo «animali da cortile» per una vita, ma che Dio richieda una dimensione ancora più nascosta e probabilmente efficace.
Si tratta del dono di sé nascosto nel servizio. Nella malattia offerta totalmente per i giovani. Nella dedizione illimitata anche quando proprio non se ne ha voglia, nello scendere in cortile anche quando fa freddo, nei periodi in cui sembra proprio di non capirsi con certi giovani, magari i confratelli sono gelosi o invidiosi o non hanno stima di te, nel momento in cui nasce un’antipatia che sappiamo benissimo frutto di «quello del piano di sotto» (come dice il mio amico esorcista).
Concludo riprendendo due sottolineature a riguardo della santità salesiana proposte da don Pierluigi Cameroni, postulatore generale di noi salesiani. Finora si è sottolineata molto la dimensione missionaria del carisma salesiano espressa da un numero notevole di uomini e donne con aspetti molto interessanti: annuncio del vangelo, inculturazione della fede, promozione della donna, difesa dei diritti dei poveri e degli indigeni, fondazione di chiese locali...
Rimane invece probabilmente un dono ancora da scoprire quello della dimensione vittimale oblativa salesiana che esprime la radice profonda del “Da mihi animas” e che eccelle nella testimonianza di alcune figure quali il venerabile don Andrea Beltrami, Il beato Augusto Czartoryski, la beata Eusebia Palomino, la beata Laura Vicuña, la beata Alessandrina da Costa: la fatica, la sofferenza, l’apparente insuccesso per i giovani possiede una carica di santità altissima sia per l’educatore, sia per i beneficiari (che la gran parte delle volte non si conosceranno mai, se non forse in Paradiso).
don Paolo Mojoli sdb
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