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del 14 marzo 2008
Il giornalismo televisivo dei grandi network italiani esce davvero con le 'ossa rotte' dal rapporto realizzato da 'Medici senza frontiere', in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, sull’attenzione alle aree di crisi mondiali. Come abbiamo già altre volte stigmatizzato su queste pagine, si tratta di avvenimenti che non fanno notizia o, nella migliore delle ipotesi, vengono ospitati nell’ultimo notiziario notturno o in poche righe tra le brevi.
  Per carità, il criterio della vicinanza geografica avrà sempre un peso discriminante, ma impressiona l’incapacità a riconoscere i grandi drammi del tempo che viviamo. Ed è un fatto che il piccolo schermo dominante si rivela sempre più come un contenitore casereccio nel quale troppe tragedie – poco importa se dovute a guerre, carestie o epidemie – trovano spazio solo quando vengono direttamente coinvolti alcuni nostri connazionali. E allora, spesso, tutto finisce per ridursi a una sorta di discutibile rotocalco. S’intervistano i parenti delle vittime, e magari solo per chiedere loro 'come stanno' (domande che meriterebbero l’applicazione di provvedimenti disciplinari da parte dell’ordine dei giornalisti...). Per non parlare di quando l’intrattenimento prende direttamente il sopravvento al punto che qualche tg arriva ad aprire il notiziario di punta con la cronaca rosa o con la notizia del vincitore del 'Grande Fratello'.
  Se poi, per causa di forza maggiore, i temi sono di respiro internazionale, i casi sono due: o vengono radicalmente ignorati o altrimenti ridotti ai soliti stereotipi stile Western dove fin dalle prime battute si sa chi sono i buoni (i cowboy) e i cattivi (gli indiani) e tutto, comunque è classificato e descritto per contrapposizioni estreme (nero-bianco, reazionario­rivoluzionario...). Il che porta inevitabilmente a banalizzare e a volte, purtroppo, con qualche brutalità semplificatoria realtà invece complesse e articolate.
  Altre volte si ha addirittura la sensazione che l’essenziale, per certi operatori del mondo della tv, non sia spiegare quanto succede in altri Paesi, ma di competere tra tg, come se l’informazione fosse un mediocre gioco in cui gli uni sorvegliano gli altri. Ne consegue che quando scoppia una crisi, come ad esempio quella irachena, le principali testate catapultino i loro inviati nello stesso unico posto. Il resto del mondo non esiste o almeno la vigilanza giornalistica è virtualmente sospeso per rispondere a presunte esigenze di mercato.
  A questo riguardo è bene rammentare che oltre a Msf, anche la stampa missionaria italiana è scesa da tempo in campo sul tema dell’informazione dal Sud del mondo lanciando nel febbraio del 2006 una campagna dal titolo più che emblematico 'Più notizie e meno Gossip'. In effetti, come ha affermato in più circostanze l’attuale corrispondente della Rai a Nairobi, Enzo Nucci, se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione dei missionari. Detto questo proprio perché l’informazione è la prima forma di solidarietà, alla luce anche del dossier di Msf presentato ieri a Roma sulla copertura giornalistica delle aree di crisi da parte di Rai e Mediaset, è evidente che il cammino è ancora tutto in salita. A poco serve avere una redazione del servizio pubblico a Nairobi guidata da un ottimo giornalista se poi gli spazi relativi alla Somalia – Paese i cui trascorsi sono legati all’epopea coloniale italiana – sono pressoché inesistenti.
  Occorre, insomma, cambiare marcia. E rendersi conto che bisogna parlare con serietà e franchezza al grande pubblico televisivo italiano, nella consapevolezza che le questioni internazionali hanno decisamente a che fare col destino comune dei popoli. Il fatto che proprio un’azienda come la Rai abbia permesso alla radiofonia di creare delle finestre aperte sul mondo attraverso programmazioni attente ai temi della solidarietà come 'Oggi Duemila' o 'Radio Tre Mondo' dimostra che questa via è ben percorribile. E che l’interesse degli italiani a essere informati davvero non è affatto un’invenzione dei missionari o delle Ong.
  Parafrasando Martin Luther King, non abbiamo paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti.
Giulio Albanese
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