Ogni volta, dopo una breve contentezza, mi sono sentita smarrita: “No, non è qui”. E quante volte sono tornata e sono ripartita per altre mete...
Da tutta la vita mi prende certe mattine una irrequietezza, come la necessità assoluta di andare in un luogo diverso da quello in cui mi trovo. Si impadronisce di me l’idea che, se fossi in quella data città, o se vedessi il mare, sarei felice: e che quell’accidia, quella malinconia che ho sempre addosso se ne andrebbero, se fossi altrove.
Tante volte, fin da quando ero ragazza, ho ubbidito a questo istinto di partire, da sola, sospinta dall’idea che “laggiù” sarebbe stato diverso, oppure, addirittura, sarei stata diversa io. E sono partita per le Dolomiti, assaporando i chilometri sull’autostrada, e la pianura che da Verona si stringe nella valle del Brennero: e il verde denso dell’Adige mi pareva già promettere quell’altro mondo, in cui sarei stata felice. E il profilarsi delle prime vette, nella foschia dell’orizzonte, con più forza mi assicurava che lassù sarebbe stato diverso, e mi sarei sentita in pace.
Oppure andavo in una città grande come Londra, e nelle prime ore la maestosità severa del Tamigi, la vitalità intensa di Piccadilly Circus mi incantavano, tanto che mi dicevo: ecco, vedi, qui è diverso. Eppure ogni volta, dopo una breve contentezza, mi sono sentita smarrita: “No, non è qui”. E quante volte sono tornata e sono ripartita – il viaggio, in questi pellegrinaggi, era sempre la cosa più bella, carico di speranza com’era – per altre mete, in auto, gustando i paesaggi che cambiavano, nella illusione di stare andando finalmente dove mi sarei liberata della mia irrequietezza. E sempre no, invece, ogni volta, delusa, “no, nemmeno qui”.
Ormai mi rifiuto di dare retta a questa ingannevole sirena, che tuttavia mi tenta ancora. Se vado a prendere un figlio che arriva a Malpensa mi soffermo a leggere il tabellone delle partenze: Londra, Palermo, Istanbul… E di nuovo mi convinco che sì, forse, in un altrove lontano sarebbe diverso, e, finalmente, sarei un’altra io. L’ultima volta che ci sono cascata, sono tornata a Parigi. Ma, passata l’ebbrezza delle prime ore, mi sono accorta che fra i viali superbi e i palazzi sontuosi, no, non ero lieta neanche lì. E allora, rintanandomi anzitempo in una camera d’albergo, non ho potuto non domandarmi quale sia davvero l’altrove che domando.
Forse non è un luogo dello spazio, ma del tempo? La nostalgia di una prima infanzia, di cui non ho il ricordo? O che sia la memoria di una origine, di un “prima” da cui veniamo, di quel pensiero di Dio in cui, prima di venire al mondo, abitavamo? Ma, “instabilitas loci”, così san Tommaso, ho scoperto, chiamava la sindrome che ho addosso, e la considerava segno di un disordine interiore. E della stessa malattia, ho scoperto, parlano gli antichi, Seneca, e Orazio, tutti testimoniando l’illusione di questo continuo partire. Descrivono precisamente ciò che provo, ma non dicono come se ne guarisce. Forse allora, mi dico, questa irrequietezza me la devo tenere: come un compito, come una spina che non mi lascia tranquilla. Come un segreto da decrittare; o come una domanda, da avanzare, mendicante – la mano tesa e vuota.
Marina Corradi
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