Il premio del Time come "atleta dell'anno" a Simone Biles perché si è ritirata dalle Olimpiadi e il cortocircuito di un mondo che ha riempito lo sport di retorica sulla fragilità
Punto fermo: Simone Biles, 24 anni, quattro ori olimpici (uno a squadre), 19 ori mondiali in varie categorie, è un’atleta straordinaria e una persona coraggiosa. Protagonista inarrivabile della ginnastica dalla Coppa del Mondo di Anversa del 2013 e arrivata nelle teste e nei cuori della gente alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016, con quelle quattro medaglie del massimo pregio.
Il suo coraggio non è solo quello di librarsi in aria e atterrare con grazia, ma anche quello di avere superato situazioni difficili: la peggiore di tutte la serie di violenze e abusi sessuali commessi su lei e su altre ginnaste da Larry Nassar, medico della nazionale statunitense. Una situazione orrenda, peggiorata dal fatto che a lungo Nassar è stato libero di compiere i propri crimini contando sul timore delle sue vittime a denunciarlo e sulla sua influenza professionale su di loro. A questo si aggiunge la diagnosi di ADHD, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, medicato con farmaci che la Biles ha dovuto segnalare alle autorità sportive per non rischiare l’accusa di doping. Solo stima, solo onore.
Un po’ meno stima, un po’ meno onore, agli strumentalizzatori in servizio permanente effettivo: strumentalizzano i problemi che la ragazza, ora solo 24enne, ha avuto? No, puntano sulla sua decisione, in piene Olimpiadi di Tokyo, di ritirarsi dalle competizioni, sia individuali sia di squadra, perché si sentiva psicologicamente fragile. Ed ecco la rivista Time – “prestigiosa”, per i nostri media, ma solo a seconda di quello che dice – che la designa Atleta dell’anno per il 2021.
Ora, a teoria di riconoscimenti del genere andrebbe dato uno spazio relativamente piccolo: come Oscar, Pallone d’Oro, Pigna d’Oro del Comune di Grottarella di Sotto, si tratta di esiti di decisioni prese da individui, o gruppi di individui, con primi o secondi fini che spesso possono divergere dal semplice premio ai meritevoli. Però, soprattutto in culture e società zeppe di retorica come quella americana, che va avanti a slogan e figure-simbolo, il loro effetto può essere profondo.
Ecco perché la scelta di Time sulla Biles è stata significativa e mirata: un mondo mediatico e una società caratterizzate dal culto per la durezza, per la solidità di carattere, per lo spirito indomito, per il “non mollare mai”, nel giro di due, tre generazioni si trovano a esaltare e premiare chi ha mollato e mostrato spirito domo e fragilità di carattere.
Vero, lo sfoggiare sempre la faccia cattiva, lo spazzare sotto il tappeto della coscienza dubbi e debolezze, il rambismo a tutti i costi sono a loro volta eccessi che possono causare danni a lungo termine. Ma la storia e la retorica dominante per decenni degli Stati Uniti si basano sulla presunzione di coraggio e sprezzo delle difficoltà, sull’efficienza quasi robotica, mitizzata in molti film e che nello sport è diventato stigma per i quitter, quelli che mollano: piuttosto stramazza, ma non smettere di fare flessioni. Una mentalità corroborata da una quantità imbarazzante di slogan motivazionali e che trova nel football il suo paradigma, uno sport dove storicamente la resistenza al dolore e alle difficoltà è in cima ai requisiti, in una retorica gladiatoria che a volte è stata portata all’eccesso (curiosità: Simone Biles è fidanzata proprio con un giocatore della NFL, Jonathan Owens).
Legittimo mollare quando non ce la si fa più? Certo. Anzi, è onesto, ma si tratta di una scelta individuale da apprezzare e rispettare senza che chi la compie debba essere premiato come atleta dell’anno. E se proprio si è convinti che alla gente servano “buoni esempi” per sapere come muoversi, la Biles sarebbe stata perfetta per smantellare un altro punto fermo dei vittimisti a oltranza, il giustificazionismo: una bambina cresciuta in una delle troppe situazioni disastrose della società americana, una bambina che come le due sorelle e il fratello venne più volte data in affidamento per l’incapacità della madre (tossicodipendente) di mantenerli, e che all’età di tre anni fu presa in casa, e poi adottata, dai nonni paterni, che vivevano altrove e non sapevano della drammatica condizione della famiglia (il padre? sparito). Nonostante questo, Simone è diventata un’atleta fenomenale, riuscendo anche nell’impresa di diplomarsi al liceo pur studiando a casa.
Come ebbe a dire anche il fenomenale giocatore di football Herschel Walker, e come hanno dimostrato infiniti altri, se sei afroamericano, hai voglia e talento, nessuno ti impedirà di emergere. Insistere però su questo tema, ribadire che l’impegno porta a risultati a prescindere dal colore della pelle pur nelle ineguaglianze che rimangono, avrebbe voluto dire mettere molte persone di fronte alle proprie responsabilità.
Eleggendo invece la Biles atleta dell’anno nella stagione in cui si è voluta prendere una pausa, Time ha mandato un messaggio preciso, non differente da quello della (“prestigiosa”, avevate dubbi?) testata Sports Illustrated nel 2020: Naomi Osaka sportsperson dell’anno, assieme a quattro altri atleti, non per i suoi successi ma per l’attivismo sociale, che è come dare un Oscar a Diane Keaton per gli eleganti completini che indossa nella vita privata.
La Biles ha detto di essersi ispirata proprio alla Osaka e al suo ritiro dagli Open di Francia per eccesso di stress, chiudendo così il cerchio. Eppure la sua storia sarebbe potuta essere un ottimo compromesso tra il mondo fin troppo granitico della spavalderia a tutti i costi e quello dell’eccesso di vittimismo che avanza: Time ha scelto di sottolineare solo il secondo, con lo scopo di deresponsabilizzare e giustificare. Un po’ come quando vengono aboliti certi test di matematica perché alcune sezioni di studenti non li superano o si dipinge come razzista qualsiasi politica volta a premiare il merito.
Tutto questo, si noti, nel nome di una ragazza che senza le doti classiche di quel primo mondo, cioè la tenacia, la determinazione, la volontà di chiudersi in palestra mentre le coetanee uscivano, non sarebbe mai arrivata a poter rappresentare, in parte involontariamente, il secondo, quello di chi magari, invitato dalla madre a finire i compiti, risponderà ‘no, non mi va’ e verrà magari pure giustificato perché completarli controvoglia nuocerebbe alla sua freschezza psicologica.
Noi tifiamo per Simone – che ha oltretutto effettuato varie volte stupendi lanci di pallina onorifici dopo piroetta, prima di partite di baseball – e per tutti gli atleti che compiono imprese eccezionali, e ci emozioniamo di fronte alla perfezione di certi gesti, ma non tifiamo chi li strattona e trascina in una direzione, sempre la stessa. E pensiamo a come verrebbe giudicato Novak Djokovic se prima di una finale, o a metà, uscisse dall’arena dicendo di non sentirsela. Sarebbe etichettato come perdente.
Di Roberto Gotta
Tratto da Tempi
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