La bandiera dell’Inter, campione del mondo nel 1982, a 18 anni: «Per giocare anche quando il campetto era chiuso, scavalcavo». Ho avuto un rapporto speciale con don Filippo, il prete che mi ha sposato
Non ci piove. Nel mondo del calcio chi parla di “zio” si riferisce a lui, Beppe Bergomi, campione del mondo e storico capitano dell’Inter. «Ad affibbiarmi il soprannome fu il mio compagno di squadra Gianpiero Marini per via dei baffi che mi invecchiavano. Quanti anni hai? mi chiese. Sedici. Sedici? Sembri mio zio. Da allora tutti mi chiamano così. E va benissimo».
Dietro quei baffi nessun significato particolare. «Era una forma di imitazione. Mio fratello li aveva e me li sono fatti crescere anch’io. Non era un modo per sentirmi più grande o nascondere qualcosa».
A spiegare Beppe Bergomi bastano i numeri. Sessant’anni appena compiuti, campione del mondo in Spagna a 18 anni, ha giocato 81 partite in nazionale e 756 nell’Inter con cui ha vinto uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e tre Coppe Uefa. L’ultima partecipazione ai campionati del mondo, a 35 anni, nel 1998. «Esserci mi ha dato una gioia particolare. In una carriera ci sono alti e bassi, e quando dopo tanto tempo riesci a riconquistare il traguardo della maglia azzurra è un motivo di grande orgoglio. Devo ringraziare Gigi Simoni che allenava l’Inter di allora. Ci disse che per lui non contava l’età, giocava chi meritava. Feci una stagione bellissima e tornai in nazionale».
Nella sua formazione umana e calcistica è stato fondamentale l’oratorio.
Abitavo a Settala, che allora faceva mille abitanti. O si andava all’oratorio che non sempre era aperto perché don Narciso a un certo punto lo chiudeva, o non c’era niente. E tante volte scavalcavamo per continuare a giocare. Diciamo che strada e oratorio sono stati una bella palestra di vita.
I ricordi sembrano ancora freschi.
Sono molto legato ai tempi dell’oratorio e non solo per il pallone. Ho fatto il chierichetto per sei anni.
Ci sono stati sacerdoti particolarmente importanti, immagino.
Due in particolare. Don Narciso che tra l’altro giocava sempre in coppia con mio papà a scopa d’assi e don Giovanni Brovelli storico “don” di Settala. Con loro ho condiviso l’adolescenza.
Una carriera precoce la sua.
Due anni alla Settalese, la squadra del mio paese e poi all’Inter.
Con un esordio in serie A, arrivato prestissimo, a 17 anni. L’oratorio però non è mai stato dimenticato.
Di quegli anni ti porti dietro le amicizie e quei valori che diventano tuoi, a cui ti aggrappi nei momenti difficili. L’oratorio è un ambiente sano, che ti fa vivere emozioni importanti.
Oggi invece ci sono le scuole calcio.
Adesso i ragazzi passano al campo sei ore a settimana, noi in oratorio giocavamo sei ore al giorno. Oggi ci si diverte molto meno. Ma le differenze rispetto ad allora, riguardano un po’ tutto. Penso alle capacità coordinative, se chiedi a un ragazzo di fare una capriola lo mandi in difficoltà, perché non è abituato. A noi che in oratorio oltre a pallone giocavamo a basket, a pallavolo, a ping pong e ci arrampicavamo sugli alberi, veniva naturale.
Bergomi, interista da sempre e per sempre.
Assolutamente, e andando avanti con gli anni “peggioro”. Naturalmente se è per lavoro guardo la partita. Altrimenti, quando sono in casa, e si gioca il derby o con la Juve, cammino per la camera, butto l’occhio. Poi abitando in zona San Siro arriva prima il boato dello stadio delle immagini. E capisco che abbiamo fatto goal.
Però è bello quando uno riesce ancora a emozionarsi.
Sì, mi succede sia andando negli stadi per commentare le partite, cosa che faccio sempre con grande passione, sia per il senso molto forte di appartenenza e di attaccamento all’Inter.
Tornando al discorso iniziale, la fede è sempre stata importante per lei.
Me l’ha trasmessa soprattutto mia mamma che è molto religiosa e ancora adesso, a 93 anni, frequenta l’oratorio, va in chiesa per la Messa e a recitare il Rosario. E dice che prega per me tutti i giorni. Poi nella vita, sul versante delle fede ci sono stati alti e bassi.
Credo sia normale.
Comunque, la “linea”, se cosi si può dire, l’ho sempre seguita e, ancora adesso, a 60 anni, credere mi fa stare tranquillo e nei momenti di difficoltà mi aggrappo alla fede.
Un aiuto per vivere meglio, per essere una persona migliore.
Sì, per me è così.
Ripensando all’oratorio, e alla parrocchia ci sono stati sacerdoti particolarmente significativi nella sua vita?
A me ha sposato don Filippo Guarnerio, parroco di Gerenzano che, adesso a quasi ottant’anni si è ritirato a Saronno. La prima volta che l’ho incontrato era al Ronchetto delle rane, che si trova in zona Gratosoglio, a Milano, con una chiesetta sperduta in mezzo alle risaie. Lì c’era un campetto di calcio, e lui, che era tifoso del Toro, mi raccontava che quando giocava nascondeva il pallone sotto la veste, per non farlo prendere ai ragazzi. Con lui ho avuto un rapporto speciale. L’ho conosciuto da grande ma è stata una bella persona, che mi ha aiutato tanto.
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Tratto da: https://www.avvenire.it/speciali/pagine/bergomi-l-oratorio-una-scuola-di-vitaparla-la-ba
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