Biografia di Stefano Sandor, Salesiano coadiutore e martire della fede, proclamato beato a Budapest il 19 ottobre 2013.
Il fatidico 1950
Nel mese di giugno del 1950 il governo comunista dichiara “soppressi” gli ordini e le congregazioni religiose in Ungheria. A partire dal 7 giugno cominciano le deportazioni di religiosi/e, internati in luoghi di concentramento (generalmente antichi monasteri). Anche i Salesiani vengono dispersi; alcuni vengono portati nei luoghi di concentramento, i giovani salesiani e i novizi vanno in famiglia, o presso parenti. I Salesiani di Ràkospalota ricevono l'ordine di abbandonare anche le catapecchie in cui si erano ritirati. Rimangono provvisoriamente due nella chiesa parrocchiale. Il superiore dei Salesiani in Ungheria, don Vince Sellye, viene arrestato vicino alla frontiera austriaca, incarcerato a Budapest, con l'accusa di aver tentato di espatriare; viene condannato a due anni e mezzo di reclusione.
Il 30 agosto il governo e il presidente della Conferenza Episcopale Ungherese firmano un “accordo” in base al quale, in cambio di un “appoggio” alle politiche governative, a settembre vengono rilasciati i religiosi/e internati nei campi di concentramento. Ma, poco dopo l'accordo, il 7 settembre l'autorità statale ritira agli ordini e alle congregazioni presenti nel territorio ungherese il permesso di operare; in pratica: scioglimento delle comunità e nazionalizzazione dei beni. Rimane in funzione solo un numero molto ridotto di religiosi, con molte limitazioni, per operare in 8 ginnasi-licei, che vengono restituiti dopo due anni di interruzione (dal 1948): 2 ai Benedettini, 2 agli Scolopi, 2 ai Francescani e 2 (femminili) a una Congregazione femminile locale.
I Salesiani perdono tutto: gli edifici vengono occupati dallo Stato. I religiosi si disperdono e devono trovare vari lavori per poter sopravvivere, ognuno per conto proprio. Alcuni lavorano come organisti, sacrestani, praticando vari lavori manuali; qualcuno è accolto in diocesi e destinato a piccole parrocchie di campagna. Non possono risiedere in città, né mantenere rapporti tra di loro e per lungo tempo sono sottoposti a controllo poliziesco. Il povero ispettore, don V. Sellye, in processo di seconda istanza viene condannato pesantemente a 33 anni di carcere.
Istvàn rimase fin che poté a Ràkospalota, in alloggi di fortuna, continuando a prendere contatti con i giovani dei suoi gruppi. Ma in seguito, per sopravvivere, dovette ritirarsi un tempo a Szolnok, in famiglia, e cercarsi un lavoro in una tipografia. Spiccavano le sue doti non solo tecniche, ma anche di leader educatore con i giovani, per cui fu richiamato a Budapest dall'amministrazione locale, per occuparsi di un gruppo di orfani, raccolti dal partito comunista. Egli continuò intanto il suo lavoro di catechista clandestino in vari modi. Anche nel gruppo di orfani sviluppò le sue doti di educatore cristiano, ben consapevole del pericolo che correva. Alcuni di questi giovani furono scelti per formar parte di un corpo speciale di polizia agli ordini del dittatore Ràkosi, ma essi interiormente rimasero fedeli ai valori dell'etica cristiana, inculcati dal loro animatore.
Nel 1951 ad un certo momento Istvàn, accorgendosi di essere caduto in sospetto presso la polizia politica, cambiò cognome, alloggio e trovò lavoro come operaio nella fabbrica di detersivi Persil, ma continuando il suo apostolato clandestino con i giovani. Vedendo come la polizia stava pedinando il confratello, i suoi superiori, con cui manteneva rapporti di nascosto, pensarono di farlo espatriare. Quando tutto era già pronto per fargli attraversare la frontiera con l'Austria, Istvàn non volle approfittare di questa occasione, ma decise di rimanere in Ungheria. Pensava che non era giusto andarsene, quando i giovani che egli seguiva stavano correndo il pericolo di essere scoperti e condannati. Per lui era come un fuggire dalla sue responsabilità di educatore cristiano.
Scelse allora di cambiare varie volte la residenza. Alla fine accettò di condividere l'alloggio di un suo giovane confratello, che al tempo della dispersione studiava teologia, Tibor Dàniel, rimanendo a Budapest. Questo piccolo appartamento divenne il centro della sua attività apostolica clandestina. Qui, come anche in vari luoghi attorno alla capitale, continuò la sua opera formativa. Gli capitava sovente di ricevere lettere dai giovani che seguiva. La sua corrispondenza non conteneva certo nessuna allusione politica, tanto meno l'idea di un complotto, di cui fu poi accusato. Dava solo risposte e consigli che riguardavano la vita cristiana spirituale, che i giovani desideravano approfondire. Il regime ateo, però, temendo tutto ciò che sapeva di cristiano, si serviva di spie per tenere d'occhio tutti i cittadini, ma seguiva con particolare attenzione l'attività dei religiosi dispersi. Soprattutto premeva al regime mantenere il controllo della gioventù, elemento nevralgico del sistema. Si tenga presente che ancora in occasione della Pasqua del 1989 (vigilia della caduta del regime comunista!) gli agenti della AEH (Allami Egyhazugyi Hìvatal = Ufficio Statale per gli Affari Ecclesiastici) presentarono rapporto sugli impiegati statali, soprattutto insegnanti, che erano stati presenti alle Messe di Pasqua. Si cercava ad ogni costo di tenere la Chiesa lontana dalla gioventù, soprattutto dai lavoratori, base propagandistica del partito. Era considerato un crimine capitale raccogliere dei giovani per dare formazione religiosa. Piovevano subito accuse di complotto, congiura contro lo Stato e ciò comportava severe condanne, specialmente negli anni '50, sotto la dittatura di Matyas Ràkosi. E' su questo sfondo che occorre vedere l'attività del nostro Istvàn.
Arresto e condanna
Proprio nella casa abitata da Sàndor e Dàniel vi era una situazione insidiosa. La padrona dello stabile aveva il marito che lavorava nella famigerata AVO (polizia politica). Notando la nutrita corrispondenza per Sàndor, essa cominciò ad aprire, con vari sistemi imparati dal marito, le lettere. Il loro contenuto veniva così trasmesso alla polizia che teneva sotto controllo il destinatario di esse ed il compagno di appartamento.
Accadde allora un fatto che, per essere compreso, dev'essere inquadrato in una iniziativa del regime. La riprendiamo da uno studioso degli eventi dell'epoca. “Quando la polizia segreta comunista ampliò i propri ranghi, nel 1949, fino a contare 30.000 membri, videro nei giovani orfani e lavoratori i “quadri più affidabili” da cui ricavare, formandoli, buoni poliziotti comunisti. Dopo una sessione formativa di tre mesi, addestrarono i migliori come “guardie del partito”. Ricevettero il rango di sottufficiali e ufficiali e il loro compito fu la protezione/difesa personale dei principali capi del partito – Partito dei Lavoratori Ungheresi, come si chiamava allora – Ràkosi e Géro. Reclutarono Albert Zana ed alcuni suoi compagni (ex-allievi del Clarisseum, seguiti da Istvàn) prima come militari e poi nella polizia segreta (AVO). Questi giovani ufficiali della polizia, anche dopo la nazionalizzazione dell'Istituto di Ràkospalota e l'espulsione dei Salesiani mantennero rapporti coi loro educatori. Sàndor Istvàn […] si incontrava regolarmente con i suoi ex-allievi ed alcuni amici di essi al Clarisseum o in appartamenti privati. Egli si occupava con grande amore dei problemi spirituali dei giovani. Tra di loro si preparavano a resistere alla propaganda atea della dittatura ed aiutavano anche altri a mantenersi fermi nella loro fede. Anche i giovani ufficiali della polizia conquistarono amici alla fede.
Involontariamente commisero un “'errore”. Sulla strada principale di Ujpest in quei giorni aprirono una nuova osteria con l'insegna di “Osteria dell'Inferno”. A fianco dell'entrata vi era un cartello con la scritta: “Entrate nell'inferno”. I giovani considerarono quella scritta come una presa in giro della religione. (Questo è un indice della sensibilità religiosa dell'epoca, oggi quasi inimmaginabile). La mattina del giorno seguente i giovani cosparsero di bitume la scritta. I proprietari del locale avvisarono l'AVO e i cani guidarono i poliziotti al “Clarisseum”. Qui catturarono Hegedus Hajnal, allora quindicenne allievo di ginnasio, che stava arrivando proprio in quel momento. Con torture gli strapparono i nomi degli altri componenti del gruppo e il nome del religioso che li animava. Nel partito vi erano anche persone con buone intenzioni. Appena emesso il mandato di cattura, avvertirono Sándor Istvàn dell'accaduto. Il superiore salesiano, Adam Laszlo, come abbiamo già annotato, aveva previsto la possibilità di fare espatriare clandestinamente il confratello. Ma Istvàn sentì che non poteva fuggire, mentre i suoi discepoli si trovavano in pericolo di vita in patria. Disse agli amici che era pronto anche al martirio. Ma la padrona di casa di Daniel fece imprigionare Istvàn, Daniel ed altri salesiani. In breve tempo imprigionarono anche gli altri giovani implicati. Matyas Rakosi (il dittatore) decise l'immediata condanna dei giovani ufficiali.
Si conobbero, più tardi, alcuni particolari dell'arresto. Il 28 luglio 1952, al mattino si presentò nell'alloggio la polizia politica e arrestò Istvàn. Aspettarono poi il ritorno di Tibor Daniel, al pomeriggio. Quando questi entrò in camera fu accolto da un violento schiaffo. Lo portarono alla sede centrale della polizia, nel famigerato edificio di via Andrassy 60 (oggi “Museo del Terrore”) dove fu sottoposto a ripetute torture che gli rovinarono il fegato e la milza. Infine, per evitare di farne un martire, lo rilasciarono, in condizioni estreme, nel suo villaggio, Asvànyràrò (nel nord, presso la frontiera slovacca). Poco tempo dopo, a conseguenza delle torture subite, morì nelle braccia della mamma e della sorella Elisabetta.
Quanto al nostro Istvàn, fu condotto al carcere del Tribunale Militare di Budapest (zona di Buda, Fo Utca), dove fu sottoposto a percosse e a continui estenuanti interrogatori. La competenza del processo era del Tribunale militare, in quanto tra gli imputati vi erano membri delle forze armate. A causa delle disumane torture e dei procedimenti tristemente noti e usati coi prigionieri “politici” di quel tempo (cfr. card. Mindszenty), Istvàn fu costretto ad ammettere i “crimini”di cui lo si incolpava, ben sapendo che tale dichiarazione avrebbe costituito per il tribunale militare motivo per una condanna a morte.
Il processo iniziò il 28 ottobre 1952. Presenti 16 imputati: 9 avevano servito nei corpi speciali della Polizia; 5 erano Salesiani; 1 giovane studente ed una giovane studentessa. Tutto si svolse a porte chiuse ed in una sola udienza. Fu, come al solito, una farsa già tutta predisposta. Tutto era già stato deciso dal tribunale, presieduto dal tenente colonnello Béla Kovàcs, coadiuvato da due tenenti dell'AVH (polizia segreta). Il pubblico ministero accusatore, maggiore Gyorgy Béres rappresentava l'espressione personale del dittatore Ràkosi. Il tribunale emise subito il verdetto n° I/0308/1952: condanna a morte per Istvàn e tre giovani ufficiali, ritenuti “colpevoli di complotto contro la democrazia popolare e alto tradimento”. Due giorni dopo venne anche respinta la domanda di grazia che era stata presentata d'ufficio.
Dietro la montatura del processo era patente l'ira del regime nei confronti dei religiosi che mantenevano rapporti con i giovani lavoratori, considerati come coloro che dovevano costituire lo zoccolo duro della dittatura.
Negli anni del regime comunista furono alcune migliaia i giovani che, con piena consapevolezza del pericolo che correvano, frequentavano in vari modi gruppi giovanili clandestini cattolici e, col pretesto di gite e festeggiamenti famigliari, partecipavano a incontri di formazione religiosa, esercizi spirituali. Parecchi furono imprigionati, torturati. Molti furono esclusi dalla frequenza alle scuole superiori e all'università, o dovettero dedicarsi subito a lavori di manovalanza.
János SzöKe
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