1. Se non viene papa
Il giovane massaro dei Biglione
Il primo ricordo di Giovanni Bosco è una giornata nera.
Essa si aprì all'improvviso nella sua vita quando aveva solo due anni. Una giornata incorniciata di facce tristi e rigata dalle lacrime di sua madre. La ricorda così nelle sue Memorie:
«Tutti uscivano dalla camera dove mio papà era mancato, ma io non volevo seguirli. Mia mamma mi diceva:
- Vieni, Giovanni, vieni con me.
- Se non viene papà, non vengo - risposi.
- Povero figlio, non hai più papà.
Così dicendo mia mamma scoppiò a piangere, mi prese per mano e mi portò fuori» (Memorie, 12).
Suo papà, Francesco Bosco, era stato per 12 anni il giovane massaro dei signori Biglione, nella loro cascina dei Becchi.
Aveva cominciato a 21 anni, prendendo il posto del fratello maggiore Paolo, che se n'era andato a lavorare in altre terre di Castelnuovo. Francesco abitava nella casa rustica, coltivava le vigne e i campi, «faceva andare» i
prati, allevava e usava per i lavori agricoli le bestie della stalla.
Alla scadenza di ogni annata consegnava ai Biglione (che abitavano a Chieri e a Torino) una quota fissa sul raccolto, corrispondente più o meno ai due terzi. Nel 1817, testimonia un documento, avrebbe consegnato ai padroni, oltre al prodotto della vigna, «otto tese di fieno, otto sacchi e tre emine di frumento, quattro sacchi di barbariato» (CAS 100). Una tesa era un ballotto di fieno lungo m 1,714, un'emma corrispondeva a 23 litri, il barbariato era una mescolanza di frumento e di segala che crescevano nello stesso campo, un sacco andava sui cento chili.
A 21 anni, appena diventato massaro, Francesco aveva sposato Margherita Cagliero, sua coetanea. Essa gli aveva dato il primo figlio, Antonio, e la prima figlia, Teresa. Ma da questo secondo parto, Margherita non si era più ripresa. Nello spazio di un solo anno, mamma e figlioletta se ne erano andate a Dio.
Francesco si era risposato. Aveva condotto all'altare la più brava ragazza di Serra di Capriglio, Margherita Occhiena, di 4 anni più giovane di lui.
«Una crotta e stalla»
Mentre Margherita gli dava altri due figli, Giovanni e Giuseppe, egli raddoppiava il suo lavoro. Non voleva passare tutta la vita a lavorare sulla terra degli altri. Con i risparmi comprò un po' di campo e un po' di vigna, per un totale di 1900 metri quadri. Comprò anche, facendo un debito, «una crotta e stalla accanto, coperta a coppi in cattivo stato» (CAS 97). Usò questa casupola come stalla e vi collocò alcuni animali agricoli, comprati pure questi a credito.
I debiti non lo spaventavano. Era sicuro di saldarli presto con il suo lavoro.
Era un contadino allegro e gagliardo. Tornava al tramonto dai campi, riportava i buoi nella stalla, si tergeva il sudore, poi prendeva in braccio i suoi bambini.
Ma la salute, in quel tempo e su quelle colline, era precaria. Era appena arrivata una malattia nuova che spaventava la gente:
la pellagra. Colpiva chi si nutriva quasi solo di granturco.
La primavera del 1817 portò il tifo petecchiale, che devastò paesi e cittadine intorno a Torino. Francesco Bosco, nel fiore degli anni, fu invece colpito da una malattia antica, la polmonite.
Una sera di maggio di quel 1817, tornato dal lavoro molto sudato, dovette scendere nella cantina fredda. Tornò su che tremava e batteva i denti per la febbre. Il freddo umido gli aveva gelato il sudore addosso.
Fu chiamato il medico, lo speziale di Castelnuovo inviò medicine. Ma non ci fu più niente da fare. Venne il parroco. Lo confessò e gli diede la Comunione come viatico, poi l'Unzione degli infermi. Nell'ultima giornata Francesco parlò con solida fede cristiana alla sua sposa:
- E’ la volontà di Dio, Margherita. Dobbiamo rassegnarci...
Abbi fiducia nel Signore... Ti raccomando i figli, specialmente Giovanni, così piccolo... (MB 1 ,34s).
Nel testamento, dettato al notaio e firmato con la croce degli analfabeti, Francesco nominò tutori dei suoi figli la moglie Margherita e il cugino Giovanni Zucca, e chiese la celebrazione di quaranta sante Messe per la pace dell'anima sua.
Prima che la mamma lo portasse via a forza da quella stanza, Giovannino fissava la faccia pallida di papà. Gli sembrava tutto una cosa strana. Gli sembrava che adesso papà doveva smetterla di stare sul letto. Doveva alzarsi, tornare a ridere e a prenderlo in braccio. Tutto come prima, insomma. Ma la mamma gli disse:
«Non hai più papà». «Quelle parole mi si fissarono nella mente
- dirà tante volte don Bosco -. Non le ho mai dimenticate».
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«Sei nato nel giorno della Madonna»
Sua mamma gli aveva detto tante volte: «Tu sei nato nel giorno della Madonna», e don Bosco ripeté per tutta la sua vita che era nato il 15 agosto 1815, festa dell'Assunta. Non andò mai a consultare il registro parrocchiale dove è scritto che nacque il 16 ago-sto. Un errore della madre? Una distrazione del parroco? Probabilmente né l'uno né l'altra. A quei tempi i parroci esigevano dai loro cristiani che portassero i neonati al battesimo nelle prime ventiquattr'ore. Molti papà, per non rischiare la vita del bimbo, glielo portavano qualche giorno dopo, e per non provocare la sfuriata del parroco posticipavano il giorno della nascita. Così capitò a Giuseppe Verdi, contemporaneo di don Bosco, e a tanti altri. E i figli credevano più alle madri che ai registri. Del resto, giorno più giorno meno, la data di nascita non era molto importante per i contadini. Importante era sopravvivere al primo anno che si portava via il venticinque per cento dei bambini, e ai quattro anni che seguivano, che si portavano via un altro venti per cento.
Mamma Margherita aveva ventinove anni quando suo marito morì. Una donna molto giovane con un grosso peso da portare.
Doveva allevare e educare tre bambini: Giovanni (2 anni), Giuseppe (4 anni), Antonio (9 anni). Antonio, dopo la morte della mamma (avvenuta quando aveva tre anni) aveva assistito impietrito anche alla morte del papà. Questi due avvenimenti lo sconvolsero profondamente. Lo trasformarono in un ragazzo irritabile e scontroso, che cominciò a rendere difficile la vita di quelli che gli vivevano accanto.
In famiglia c'era anche la nonna, Margherita Zucca. Era la mamma di Francesco, aveva 65 anni ed era travagliata da vari acciacchi.
Da maggio a novembre Margherita (facendosi aiutare da due lavoranti) riuscì a portare a termine la stagione e a salvare i magri raccolti. Dall'11 novembre 1817 il rapporto di mezzadria tra i Biglione e la famiglia Bosco cessò. La famiglia si sistemò alla meglio nella casupola comprata dal papà ad uso stalla. Gli zii diedero una mano ad adattarla, ma quella «crotta» (= cantina) rimase la casetta più povera di tutta la località dei Becchi.
Un vulcano lontanissimo
Quello stesso anno che aveva portato la morte del babbo, portò miseria e fame. Dopo una stagione in cui pioveva sempre, venne un'estate senza sole. I raccolti furono scarsissimi. Fu la carestia.
Carestia è parola un po' vaga. Diventa più concreta quando sulle statistiche agrarie del tempo leggiamo che nei tempi di ottima stagione un chicco di grano seminato rendeva da 4 a 6 chicchi. Negli anni di carestia, un chicco seminato ne rendeva al massimo due. Sui documenti, Torino nel 1817 è descritta come una città invasa da file di gente miserabile che ha abbandonato la terra ed è venuta ad accamparsi davanti alle chiese e ai palazzi dei signori.
La causa di quella terribile carestia l'avrebbero scoperta tanti anni dopo gli scienziati. Un lontanissimo vulcano dell'Indonesia, il Tambòra, aveva scagliato nell'aria la più grande eruzione mai avvenuta negli ultimi duemila anni: ottanta chilometri cubi di fuliggine. I venti avevano portato lentamente le immense nubi nere su tutto il mondo. Quegli anni furono chiamati «anni senza estate». Nella Lombardia, per lo scarso fogliame dei gelsi, crollò la coltura dei bachi da seta, magro sostentamento di tante famiglie contadine. Il governatore di Genova scriveva al re: «La fame va distruggendo le intiere famiglie» (PINTO, 243).
Anche nella casetta dei Becchi ci fu fame e paura. «Un giorno - racconterà don Bosco - non avevamo mangiato quasi niente. Mia madre provò a bussare alle case vicine per avere in prestito qualcosa, ma nessuno fu in grado di aiutarci». Allora la mamma, con l'aiuto di un vicino, uccise il vitellino che allevavano nella stalla (e a cui i bambini erano affezionati), fece cuocere un po' di carne «e ci diede da cena. Eravamo affamati fino allo sfinimento. Nei giorni che seguirono riuscì a far arrivare del grano da paesi lontani, a carissimo prezzo» (Memorie, 13). (Questa fu la «versione» contata da mamma Margherita ai figli. La verità era un po' più squallida: il grano non fu fatto arrivare da paesi lontani, ma comprato da un prete vicino, don Vittorio Amedei. Lo vendette a quella vedova a un prezzo da mezzo strozzino: quattro emine a lire 9,17 l'una, mentre il prezzo ufficiale sul mercato di Torino era di lire 7,43) (CAS, 103).
«In quella durissima annata - continua don Bosco - mia madre soffrì e faticò moltissimo. Solo con un lavoro instancabile, un risparmio spinto fino al centesimo, riuscimmo a superare la crisi» (Memorie, 13). Soltanto un anno dopo mamma Margherita fu in grado di saldare il conto con lo speziale Gianella di Castelnuovo «per medicinali spediti al fu suo marito». Gli versò lire 6,15 (dieci camicie da uomo costavano 6 lire). E solo a rate, negli anni seguenti, poté saldare il conto con il notaio Montalenti che era salito ai Becchi per il testamento e l'inventano dei beni di Francesco Bosco: lire 32 (CAS, 104).
3. La mamma
«Cantava con dolcezza»
«Avevo solo quattro anni. Un giorno, tornando dalla campagna col fratello Giuseppe, eravamo tutti e due arsi dalla sete, perché l'estate era molto calda. La mamma andò ad attingere acqua e diede da bere prima a Giuseppe. Io, vedendo quella specie di preferenza, quando la mamma porse l'acqua a me, un po' permalo- setto, feci segno di non voler bere. La mamma, senza dire una parola, portò via l'acqua. Io stetti un momento così, e poi timidamente dissi:
- Mamma, date dell'acqua anche a me? - Credevo che non avessi sete.
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- Mamma, perdono.
- Così va bene.
Andò a prendere l'acqua e me la porse sorridendo».
Questo fatto non c'è nelle Memorie di don Bosco. Lo racconta Giovanni B. Francesia, che afferma: «Noi l'abbiamo appreso così dal labbro stesso di don Bosco, molte volte» (VBP, 19).
Margherita aveva tante e pesanti cose da fare: governare la casa, far andare i campi, zappare la vigna. Ma non dimenticò mai di essere, prima di tutto, la mamma dei suoi bambini. Lo rivela la parola che chiude il raccontino: sorridendo. Una mamma sempre tesa dalla fatica, dalle responsabilità, avrebbe fatto di Giovanni un ansioso. L'amore della mamma fu (fortunatamente per lui) non solo di «fatti», ma anche di «atteggiamenti»: sereno, gioioso. Lo conferma un altro particolare. Tanti anni dopo, don Bosco ricorderà che sua mamma «cantava con dolcezza» (MB 5,568).
Un lusso che faceva borbottare gli anziani
Dai pochissimi documenti contabili di quegli anni, sappiamo che Margherita comprò una vacca vecchia e malaticcia, pagandola lire 24,10, e affittò un pezzo di prato (CAS, 103-5). Giovanni condusse la vaccherella a pascolare (vecchia e malaticcia poteva essere affidata senza pericolo anche alle mani di un bambino di otto anni). Divenne, come tanti suoi coetanei, un fanciullo-pastore.
Ogni pomeriggio slegava la vacca, prendeva la cavezza e scendeva per il sentiero fino alla valle. Portava con sé una pagnotta di pane di frumento per la merenda. Laggiù lo aspettava un altro fanciullo, Secondo Matta. Anche lui con la sinistra teneva la cavezza della mucca e con la destra una pagnotta di pane. Pane diverso, però. «Matta Secondo disse che per due primavere di seguito cambiava il pane con Bosco, dando a lui il nero, e ricevendo il suo che era bianco: questo faceva dicendo che gli piaceva di più». (È una testimonianza sulla fanciullezza di Giovànni Bosco, registrata a Chieri nel 1888) (DESR 421).
Questa faccenda del pane è incomprensibile per noi; perché il pane è «uno» dei nostri cibi, mentre allora era praticamente «il solo» nutrimento. E poi per un altro fatto. Normalmente si masticava lo scuro e aspro pane di segala e di meliga (il pane dei poveri). Solo d'estate ci si rassegnava a impastare il pane con farina bianca di frumento (il pane dei signori), perché quello scuro seccava e si guastava rapidamente (ST 3,19). In qualche famiglia, tuttavia, per i vecchi e i bambini si cuoceva sempre il pane bianco, più digeribile e nutriente: un lusso che faceva borbottare gli anziani.
Quando raccontò questo fatto ai suoi nipoti, Secondo Matta era già un uomo anziano. E aveva capito che Giovanni gli aveva fatto la carità per due primavere, con tanta gentilezza che lui non se n'era accorto.
Il mercato del giovedì
Ogni giovedì Margherita andava al mercato. Scendeva dalla collina dei Becchi (piccola località della frazione di Morialdo), e camminando per cinque chilometri arrivava sulla piazza di Castelnuovo d'Asti, capoluogo comunale. In una cesta o in un paio di fagotti portava formaggi, uova e qualche gallina da vendere. Comprava olio e sale. Vendendo e comprando (e pagando la tassa di entrata sul mercato), Margherita doveva fare rapidi calcoli con monete e soldini di ogni conio. Dopo la sconfitta dei Francesi e il ritorno del re, dal mercato erano spariti i franchi e i centesimi, ed erano tornati a far confusione le parpaiole, i bigattini, i sesini, i quartini, le mutte e le cinquine. Occorreva manovrare leste le dita per calcolare doppi e tripli, e per non rimanere imbrogliati nelle somme e nei cambi.
Oltre al sale e all'olio, Margherita comprava, come le altre massaie, pesce in salamoia. Il cibo quotidiano dei contadini era poverissimo. A tavola si mangiava il pane, l'insalata e l'aglio che crescevano nell'orto e i frutti quando maturavano sugli alberi (per tutto l'inverno c'erano le castagne). Il pesce conservato, insieme al formaggio, aveva il compito di «accompagnare il pane», cioè di rendere il lungo masticare meno insipido. Ma a questo tante volte si provvedeva in modo più spiccio: si sfregava uno spicchio d'aglio sulla crosta del pane e si aggiungeva uno spolvero di sale (per i bambini anche una goccia d'olio). La carne era il cibo della festa, ed era quella di un galletto o di qualche uccello preso nelle trappole.
Un giovedì, mentre la mamma era al mercato, Giovanni volle frugare sull'armadio. Cercava qualcosa. Era piccolo e doveva stare sulla punta dei piedi. Lassù, tra le tante cose, era collocato il vaso di terracotta che conteneva l'olio («tenere fuori della portata dei bambini»). A un tratto, senza volerlo, Giovanni diede uno spin- tone al vaso, che cadde con un tonfo. L'olio cominciò a spandersi sul pavimento. Giovanni tirò su in fretta i cocci, ma non riuscì a salvare più niente. Tornò fuori mortificato a cercare Giuseppe:
- Ho rotto il vaso dell'olio, ma non l'ho fatto apposta. Prestami il coltello.
Andò a sedersi vicino a una siepe, tagliò una verga robusta, la ripulì ben bene. Poi andò ad aspettare la mamma sul sentiero. Appena la vide le corse incontro e le porse la verga:
- Mamma, oggi le merito. Senza volerlo, ho rotto il vaso dell'olio.
La mamma guardò quel suo bambino così schietto e rispose:
- Sono contenta che non sei venuto a contarmi bugie. Però stai attento un'altra volta, perché l'olio costa caro (MB 1 ,73s).
4. Giovanni cresce e la storia cammina
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Sport e incidenti
Nella casetta dei Becchi che è il suo nido, Giovanni cresce. E un fanciullo piccolo e sodo, dai ricci neri e dalla risata squillante. Come ogni piccolo contadino corre tra l'erba, insegue le galline schiamazzanti, si ferma incantato a guardare i pulcini color miele, si arrampica sugli alberi, non piange per le sbucciature ai ginocchi. Vuole un bene da morire a sua mamma e (anche se gli costa) fa i piccoli lavori che lei gli assegna: rompere la ramaglia secca per il focolare, andare a prendere l'acqua alla sorgente, sorvegliare il forno dove cuoce il pane.
Ma quando i piccoli lavori sono finiti, via a giocare. Al bordo dei prati infiniti lo aspettano gli amici: ragazzetti forti, vivaci, a volte rozzi e sboccati. Lo sport «che va forte» è la lippa. Gli strumenti per giocarlo sono due e ognuno se li fabbrica col coltellino. Innanzi tutto la «lippa», un pezzo di ramo lungo dieci centimetri, appuntito alle estremità. E poi un bastone, lungo e robusto. Si colloca la lippa su una spanna di terreno che si è spianato ben bene con le mani. Con il bastone si picchia su un'estremità della lippa facendola balzare in aria. In quell'attimo, mentre è librata nell'aria, la si colpisce con un fortissimo colpo di bastone, facendola volare il più lontano possibile. Si tira a pari e dispari chi deve fare il primo colpo, chi il secondo, chi il terzo e così via. Vince chi (con dieci colpi) ha fatto fare alla sua lippa il percorso più lungo.
Capitano incidenti. Quando il bastone la colpisce male, la lippa invece di volare verso i prati può volare in faccia a uno dei giocatori. Anche Giovanni, più di una volta, si prese in faccia la lippa e corse grondante sangue a farsi medicare da mamma Margherita.
- Un giorno o l'altro mi torni con un occhio rovinato - disse una volta la mamma -. Perché vai con quei ragazzi? Lo sai che qualcuno è un poco di buono.
- Se è per farvi piacere, non ci andrò più. Ma quando ci sono io stanno più buoni. Certe parole non le dicono. La mamma lo lasciò tornare. Sapeva che non le contava storie e che non era uno sventato (MB 1 ,48s).
La sorpresa nei cespugli
Quando la primavera si apriva all'estate, i piccoli contadini trovavano le sorprese. Non nelle uova di Pasqua, ma nei cespugli e sugli alberi: i nidi degli uccelli.
In un cespuglio, mentre giocava con gli amici, Giovanni scoprì una nidiata di cardellini, ben nascosta tra rami e foglie. Con ampi gesti, ma in assoluto silenzio, chiamò gli altri. Si misero tutti intorno. Sorridevano felici come a osservare un miracolo. I piccoli cardellini avevano gli occhi chiusi, si stringevano per scaldarsi, pigolavano piano piano, e allargavano il becco scuro attendendo il cibo della madre.
I ragazzini si distesero a terra tra i cespugli, in silenzio. Ed ecco la cardellina arrivare a volo radente, svolazzare sospettosa a destra e a sinistra per non segnalare a nessuno il luogo del suo nido. Poi si posò in perfetto silenzio sull'orlo. Il pigolio dei piccoli salì un poco mentre il becco della madre depositava nelle bocche spalancate le larve d'insetto e i bruchi che aveva cacciato tra gli alberi (MB 1,113).
Le piume insanguinate del merlo
Su quelle colline non si vendevano canarini in gabbia. Chi voleva allevare un uccello doveva andarselo a prendere nel nido. Giovanni fece così. Prese dal nido un merlo piccolo piccolo e lo allevò. Nella gabbia che aveva costruito con rami di salice, gli insegnò a zufolare. L'uccello imparò. Quando vedeva Giovanni, lo sa- lutava con il fischio modulato, saltava allegro tra le sbarre, lo fissava con l'occhietto nero e brillante. Ragazzo e merlotto divennero amici. (Don Bosco narrava volentieri questo episodio. Domenico Ruffino lo sentì raccontare da lui e ne prese nota).
Ma una mattina il merlo non mandò il suo fischio. Un gatto aveva sfondato la gabbia e l'aveva divorato. Rimanevano poche piume insanguinate. Giovanni si mise a piangere. Un pianto disperato a cui seguì una tristezza profonda. Sua madre a un certo punto lo rimproverò. Gli disse che di merli, nei nidi intorno, ce n'erano ancora tanti. Bastava andarne a prendere un altro. Ma per la prima volta Giovanni non riuscì a capire le ragioni di sua mamma. Certo, di uccelli ce n'erano tanti. Ma «quello lì», il suo piccolo amico, era stato ucciso, non l'avrebbe mai più visto saltare allegro. E tutti i voli degli altri uccelli non potevano cancellare questo fatto sconvolgente: il suo amico era stato ucciso, non l'avrebbe visto più (MB 1,118).
È’ questa la prima manifestazione dell'amore «personalizzato» di Giovanni. È’rivolto a un uccellino, ma non per questo è banale. Giovanni Bosco non si affezionerà mai a nessuno «genericamente». Tutti i ragazzi che l'accosteranno, si sentiranno amati personalmente da lui, non come componenti di un numero o di una co- munità, ma come persone. E la sofferenza di ognuno diventerà la sua sofferenza personale. Dio gli aveva dato un cuore così.
La storia a passi da gigante
Mentre Giovannino, ragazzetto ignaro, cresceva nel suo nido dei Becchi, la storia umana si era messa a camminare con passi da gigante.
La Rivoluzione francese, cominciata nel 1789, aveva gridato all'Europa tre parole affascinanti: libertà, uguaglianza, fraternità. Ma aveva anche rizzato la ghigliottina sulle piazze, aveva sterminato migliaia di persone scatenando il tempo del «terrore».
Le armate francesi, comandate dal giovanissimo generale Bonaparte, avevano invaso l'Europa e portato ovunque le magiche parole della Rivoluzione. I giovani ne erano rimasti ipnotizzati. Avevano alzato alberi della libertà, vi avevano danzato intorno tenendosi per mano. In ogni città erano state scritte leggi nuove, più
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umane e giuste. Le vecchie disuguaglianze, gli insopportabili privilegi dei nobili venivano spazzati via.
Ma Napoleone aveva anche decimato i giovani in gigantesche battaglie. L'Europa era coperta di cadaveri. Il più grande esercito della storia umana (500 mila europei) era stato inghiottito dalle gelide steppe russe.
Sfinita e spopolata, l'Europa del 1814 non ripeteva più «libertà, uguaglianza, fraternità», ma un'altra parola, «pace». Si rassegnava al ritorno delle vecchie disuguaglianze e dei privilegi ingiusti, purché il cannone cessasse di rombare e i giovani avessero speranza di sopravvivere.
Napoleone fu esiliato in un isola dell'Atlantico e tramontò come il sole. Nelle capitali tornarono i re e i nobili, con le vecchie parrucche incipriate. Anche a Torino, capitale del Piemonte, tornò il re Vittorio Emanuele I. Era il 21 maggio 1814. Iniziava il periodo chiamato «Restaurazione».
Su un cavallino sardo, il re
«Io mi trovavo in rango in piazza Castello - scriverà Massimo d'Azeglio - e ho presente benissimo il gruppo del Re col suo stato maggiore. Vestiti all'uso antico colla cipria, il codino e certi cappelli..., tutt'insieme erano figure abbastanza buffe». Il re era su un cavallino sardo, con la sua vecchia uniforme turchina a larghi risvolti rossi, il lungo panciotto, i calzoni bianchi, gli stivaloni fino alle ginocchia, il cappello alla prussiana e la parrucca col codino che gli batteva sulle spalle. «Il buon re, con quella sua faccia - via, diciamolo - un po' di babbeo ma altrettanto di galantuomo, girò fino al tocco dopo mezzanotte passo passo le vie di Torino, fra gli evviva della folla».
Ma alle spalle del re era la rigida figura del generale austriaco Bubna. A Vienna, nel Congresso delle nazioni, si era deciso che l'Austria sarebbe stata il carabiniere dell'Italia. Il suo esercito sarebbe intervenuto in ognuno dei sette Stati in cui era divisa la penisola, ogni volta che «disordini» avessero minacciato una nuova rivoluzione. I sette Stati erano «satelliti dell'Austria a sovranità limitata». Lo sarebbero stati fino al 1848.
Il re abolì le leggi di Napoleone, tolse i diritti ai Valdesi e ricacciò nel ghetto gli Ebrei. La popolazione tornò a dividersi in due classi: quelli che vivevano di rendita (e passavano la giornata nella caccia, nel gioco dei dadi, degli amori e della politica) e quelli che vivevano del proprio sudato lavoro. L'iniziativa privata dei commercianti, che avevano fatto la propria fortuna e dato inizio al benessere dello Stato viaggiando sulle solide strade napoleoniche, fu strozzata. Tornò in vigore la fitta rete di dazi, barriere, pedaggi, che impediva ogni commercio. Gli amministratori dello Stato che avevano servito sotto Napoleone furono allontanati. Li sostituirono vecchi amici del re, per lo più ignoranti. Durando griderà un giorno: «Voi, re, avete fatto di un imbecille un economista, di un bacchettone un uomo di guerra, di un ignorante un magistrato, di uno stupido un amministratore» (PINTO, 158).
Chi soffrì di più questo ritorno alla «ignoranza fedele» furono i giovani intellettuali. Il 7 agosto 1816 Ludovico di Breme scriveva con rabbia: «Un gran ghetto di ebrei tutti falliti, ecco Torino. L'ignoranza, la spilorceria, la viltà, la caparbietà, l'ozio, l'astio vicendevole, la presunzione e tutte le ridicolezze portate in trionfo, mi circondano, mi stanno innanzi agli occhi. Essere piemontese... è vergognosissimo».
5. Dio portato per mano
«È stato lui!»
«Quand'ero ancora molto piccolo - racconta don Bosco - mia madre mi insegnò le prime preghiere. Appena fui capace di unirmi ai miei fratelli, mi faceva inginocchiare con loro mattino e sera: recitavamo insieme le preghiere» (Memorie, 14).
Le preghiere del mattino, in quel tempo di cristiani seri, non erano uno sbrigativo Padre nostro e un'altrettanto sbrigativa Ave Maria. Erano il Vi adoro, mio Dio, il Padre nostro, l'Ave Maria (che cominciava: «Dio ti salvi, Maria»), il Credo, la Salve Regina, la preghiera all'Angelo custode, i Comandamenti di Dio, i Comandamenti della Chiesa, i Sacramenti, gli Atti di fede, di speranza, di carità e di dolore.
«Ricordo - continua don Bosco - che fu lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore, e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Continuò ad aiutarmi fin quando mi credette capace di fare da solo una degna confessione» (ivi).
La confessione fu il primo sacramento che, dopo il Battesimo, Giovanni ricevette. Sui sei-sette anni, come si usava a quei tempi. Il bambino non aveva paura del prete, perché prima aveva visto sua madre inginocchiarsi con fiducia a domandare perdono al rappresentante di Dio.
Dio entrò così, portato per mano da sua madre, nella vita di Giovanni.
Quando lui e Giuseppe partivano per i prati verdi dove li attendevano gli amici per mille giochi, mamma diceva: «Ricordatevi che Dio vi vede».
A volte tornavano imbronciati. Avevano bisticciato. Col muso lungo discutevano fittamente. Davanti alla mamma che domandava cos 'era capitato, alzavano la mano accusatrice dicendo le eterne parole dei bambini:
- È’ stato lui!
Margherita non stava a sentire le lunghe accuse e controaccuse. Diceva soltanto:
- Io non vi ho visti. Ma Dio sì. E sa chi sta dicendo una bugia (MB 1,44).
Ma non era un «Dio carabiniere» quello che lei rivelava ai suoi piccoli. Anche quando il lavoro era noioso e pesante (sorvegliare il forno era una cosa lunga, dava un caldo fastidioso) e nessuno era lì a dire bravo, a battere le mani, mamma diceva: «Coraggio, Dio ci vede. Conta tutti i nostri sacrifici e ci prepara un bel
premio».
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Dio sta qui
In estate, le albe, i meriggi, i tramonti si succedono nello splendore del cielo profondo, inquadrato dalle colline verdi e dalle nuvole bianche.
Alla sera tardi, dopo la stanchezza del lavoro, delle lunghe corse sui sentieri, e dopo la cena consumata a lume di candela, mamma porta fuori i suoi piccoli. Si siedono a respirare l'aria fresca, a guardare il cielo, quel «video» silenzioso e bellissimo che Dio ha acceso da milioni di anni sopra le nostre teste. E dice:
- Quante cose belle il Signore ha fatto per noi!
Giovanni guarda queste cose tranquille e bellissime. E accanto alla mamma, ai fratelli, ai vicini impara a vedere un'altra persona: Dio. Una persona grande, invisibile. Una persona in cui sua madre ha una confidenza illimitata, indiscutibile. Una persona così vicina che può pensare: «Dio sta qui».
I maledetti chicchi di ghiaccio
In agosto, nel cielo carico di caldo opprimente, a volte si addensano cumuli di nuvoloni neri, densi come il piombo. Scintillano i primi fulmini, rotolano tuoni cupi. Uno spettacolo che mette paura. I bambini corrono verso casa, si stringono alla mamma. Ed essa:
- Il Signore è potente. È’ lui il padrone del cielo e della terra.
Quelle nuvolette bianche, che durante il temporale veleggiano insidiose sotto i nuvoloni neri, sono guardate con rabbia dai contadini. Sono le gelide nuvole della grandine, che a volte si abbatte a devastare le vigne. I chicchi di ghiaccio fischiano nell'aria, mordono e triturano le foglie verdi, portano via in pochi minuti il raccolto di tutto un anno di lavoro. La faccia dei contadini si fa scura come la terra, qualcuno bestemmia tra i denti. Guai ai bambini che scherzano in quei momenti. Volano sberle, rabbiose.
Anche Margherita ha la faccia triste. Dopo la grandinata, passa con i figli lungo i filari, prende con delicatezza in mano i pampini recisi, i grappoli ancora verdi triturati dai chicchi di ghiaccio, dice con calma:
- Il Signore ce li aveva dati, il Signore ce li ha tolti. Lui sa il perché. Per i cattivi però questi sono castighi. Con Dio non si scherza.
Ma nei giorni di raccolto abbondante, quando il grano si ammucchia sull'aia tra la polvere della pula e la gioia rumorosa dei contadini, dice:
- Ringraziamo il Signore. È’ stato buono con noi. Ci ha dato il pane quotidiano (MB 1,45).
Quando bussavano di notte
Ma per Margherita, Dio non abita solo in cielo. È’ presente nei poveri, nei malati, nelle persone che hanno bisogno di aiuto.
Nelle sere d'inverno, mentre la campagna era coperta di neve, veniva a bussare alla porta della casetta qualche mendicante. Don Bosco, raccontando ai suoi ragazzi quelle sere lontane, ricostruiva sul filo della memoria i dialoghi sentiti (nella maniera di raccontare dei piemontesi: «Lui mi ha detto... e io gli ho risposto...»):
- Margherita, non ce la faccio più a camminare. Volevo arrivare fino a Morialdo, ma i piedi sono come due pezzi di ghiaccio. Lasciatemi stare qualche minuto accanto al fuoco, per amor di Dio.
Margherita lo faceva venire avanti, poi diceva a Giovanni:
- Fai scaldare una scodella di brodo.
Guardava le scarpe del mendicante:
- Sono proprio a pezzi, e io non so aggiustarle. Vi avvolgerò i piedi in due stracci di lana. Poi andrete a dormire nel fienile. Domani starete meglio (MB 1,154).
Le famiglie dove c'erano anziani malati che di notte si disperavano, qualche volta andavano a chiamare Margherita. Bussavano in piena notte. Sapevano che non diceva mai di no.
Non era comodo alzarsi alle due o alle tre, dopo una giornata di lavoro pesante. Margherita conosceva però le parole di Gesù:
«Ciò che farete a uno di questi poveretti, lo farete a me». Si alzava senza brontolare e andava a destare uno dei suoi figli.
Dormivano il sonno profondo dei ragazzi e sembrava un peccato svegliarli. Margherita però credeva che per aiutare un povero malato occorreva anche interrompere una bella dormita. I suoi ragazzi dovevano crescere uomini robusti, ma anche cristiani seri.
E se non ci si sacrifica per gli altri, che cristiani si è? Si avvicinava a uno dei pagliericci:
- Alzati e vieni con me.
- Adesso? Ma ho tanto sonno, mamma.
- Ho sonno anch'io. Ma c'è da fare un'opera di bene. Alzati adagio, per non svegliare gli altri.
Entravano nella povera casa. Margherita s'informava, faceva lunghi massaggi (quante schiene curvate dalle artriti in quelle case fredde e umide), e il figlio faceva bollire acqua sul fuoco per preparare una tisana. Seduto accanto al focolare, magari si riaddormentava, pensando che essere cristiani come voleva la mamma era una cosa seria (MB 1,157).
Il Dio di sua madre
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È’ forse interessante notare come si costruisce nella mente di Giovanni, in questi anni fondamentali della vita,l'immagine di Dio.
Un suo contemporaneo, il santo Leonardo Murialdo, abita in Torino in via Dora Grossa (ora via Garibaldi). Vede all'alba il sole giocare sui quadri sacri della sua stanza. Dice le preghiere sull'inginocchiatoio. Nella mattinata arriverà l'abate Pullini a fargli lezione di catechismo. Dalla via sente venire il grido dei piccoli spaz- zacamini, e Leonardo chiede alla mamma di farli salire. Li aiuta a pulirsi dal nerofumo con acqua calda e sapone, dà loro la sua colazione (fette di pane imburrate) e i vestiti superflui che stanno nel guardaroba di famiglia. Il piccolo Leonardo si forma così insensibilmente un'immagine di Dio «colta, raffinata». È’ il Dio dei santi che contempla nei bei quadri, il Dio che parla attraverso persone colte e autorevoli come l'abate Pullini, il Dio sovrano che ci invita a chinarci sui fratelli che non hanno la fortuna del nostro benessere.
Quando si desta, Giovanni Bosco vede il sole giocare sulle pannocchie appese a maturare, sui rami verdi degli alberi che sfiorano i vetri della finestra, o il buio che grava sulle distese bianche di neve. Dalla cucina lo chiama la mamma, che si inginocchia sul pavimento e invita i figli a pregare così. Dalla campagna giungono le voci degli altri ragazzi. Nel pomeriggio Giovanni scenderà con loro al pascolo, scalzo come loro, con la faccetta sporca come la loro. Non penserà mai di donare loro vestiti e scarpe, perché il guardaroba di famiglia non c’è. Scambia con uno di loro il suo unico pane, dà ai vecchietti un po' del suo sonno. Pregare è per lui parlare con Dio sul pavimento della cucina, sull'erba, fissando il cielo o rincorrendo una mucca sbandata.
Nel piccolo Giovanni si forma così insensibilmente un 'immagine di Dio «popolana», filtrata dalla natura e dall'esempio di sua madre. Il suo Dio è il Dio del cielo, delle stelle, del sole, della neve, degli alberi, degli uccelli; è il Dio di sua madre che si inginocchia in chiesa o sul pavimento di casa, e poi incoraggia a rimboc- carsi le maniche, a lavorare per far crescere nei solchi il pane quotidiano. Per Giovanni Bosco non occorrerà un inginocchiatoio per pregare, né lavarsi la faccia per diventare cristiani. Insegnerà ai suoi ragazzi che si può incontrare Dio lanciando il grido dello spazzacamino o reggendo la cavezza di una mucca, con la faccia bian- ca di calcina o nera di olio da macchina. Se non si può dare agli altri (in cui c'è Dio) una fetta di pane imburrato, si può regalare un po' di sacrificio, di lavoro, di allegria, di sonno.
È’ questa una delle tante rivoluzioni silenziose che don Bosco porterà tra i cristiani del suo tempo.
6. Il grande sogno
Dio parla
Quando Giovanni compie nove anni, avviene qualcosa di straordinario.
A questo ragazzino avvolto da una calda e genuina atmosfera cristiana, Dio parla. Comunica con lui attraverso un linguaggio misterioso, fatto di immagini e di parole: il sogno.
Questo contatto diretto con Dio lo accompagnerà, ammonirà, orienterà per tutta la vita. Lo lascerà prima incredulo, poi sbalordito, a volte tremante.
«A 9 anni - racconta - ho fatto un sogno. Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una gran quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole.
In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi. Aggiunse:
- Dovrai farteli amici con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva e che l'amicizia con il Signore è un bene prezioso.
Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace di parlare di religione a quei monelli.
In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli schiamazzi e le bestemmie, e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava. Quasi senza sapere cosa facessi gli domandai:
- Chi siete voi, che mi comandate cose impossibili?
- Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili – rispose - dovrai renderle possibili con l'obbedienza e acquistando la scienza.
- Come potrò acquistare la scienza?
- Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti, ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero ignorante.
- Ma chi siete voi?
- Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno.
- La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome.
- Il mio nome domandalo a mia madre.
In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse:
- Guarda.
Ecco il tuo campo
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« Guardai e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c'era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse:
- Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli.
Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell'uomo e a quella signora.
A quel punto nel sogno mi misi a piangere. Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse:
- A suo tempo, tutto comprenderai.
Aveva appena detto queste parole che un rumore mi svegliò. Ogni cosa era scomparsa.
Io rimasi sbalordito. Mi sembrava di avere le mani che facevano male per i pugni che avevo dato, che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti.
Al mattino ho subito raccontato il sogno, prima ai fratelli che si misero a ridere, poi alla mamma e alla nonna. Ognuno diede la sua interpretazione. Giuseppe disse: "Diventerai un pecoraio". Mia madre: "Chissà che non abbia a diventare prete". Antonio malignò: "Sarai un capo di briganti". L'ultima parola la disse la nonna, che non sapeva né leggere né scrivere: "Non bisogna credere ai sogni".
Io ero del parere della nonna. Tuttavia quel sogno non riuscii più a togliermelo dalla mente» (Memorie, 14-16).
Nella festa di San Pietro
Lo storico Pietro Stella cerca di indagare sulle «circostanze che fornirono al sogno le suggestioni fantastiche». Dio, infatti, per parlarci si serve delle immagini e delle parole che ognuno di noi porta nella mente. Avanza come ipotesi che il sogno sia avvenuto «nel periodo della festa patronale di san Pietro» quando nella chie- setta risuonava durante le prediche la frase di Gesù: «Abbi cura dei miei agnelli e delle mie pecorelle». Comunque sia – conclude - «il sogno dei 9 anni condizionò il modo di vivere e di pensare di don Bosco, e condizionò la condotta di mamma Margherita nei mesi e negli anni che seguirono» (ST 1,29-31).
Sembrava a tutti e due che Dio chiamasse Giovanni a diventare sacerdote.
E Giovanni pensò da quel momento che il «suo campo», il luogo dove «doveva lavorare» erano i ragazzi sbandati, senza affetto, avviati per una cattiva strada.
Ma lui era ancora tanto piccolo, 9 anni. Quella meta gli sembrava tanto lontana. E invece...
7. A scuola perché nipote della serva
La testimonianza di Vanin
Per diventare prete, per aiutare i ragazzi del sogno, occorreva studiare. Era la strada obbligata per tanti che volevano spezzare il piccolo orizzonte della vita contadina, raggiungere la città, che allora significava «fortuna», « avvenire», «vita diversa».
Giovanni aveva voglia di studiare e la legge gliene dava il diritto: le scuole elementari gratuite (ma non obbligatorie) erano state imposte a tutti i comuni il 23 luglio 1822. Ma per Giovanni non bastava. Era nato in un cantone sperduto tra le colline. Castelnuovo d'Asti, il suo comune, era distante cinque chilometri. Capriglio era un po' più vicino, ma sempre irraggiungibile a piedi per un fanciullo. L'insegnante, inoltre, non aveva l'obbligo di accettare ragazzetti di altri comuni.
Come tanti bambini intelligenti e curiosi, Giovanni finì per imparare a sillabare da un contadino che sapeva leggere. «Il giovane Bosco - è testimonianza di Michele Rua - ebbe suo primo maestro nel leggere un buon contadino che anni fa si gloriava con me d'aver avuto la fortuna di essere stato di lui maestro».
Poi arrivò un piccolo colpo di fortuna. «A Capriglio era cappellano un certo don Bevilacqua che faceva pure scuole elementari - raccontava il vecchio contadino Giovanni Becchis detto Vanin. - Bosco aveva sette anni, e la madre non volendolo mandare a Castelnuovo perché troppo piccolo, pregò don Bevilacqua di volergli far scuola. (Margherita aveva a Capriglio suo padre e sua madre, i nonni di Giovanni). Esso non voleva perché non obbligato. Gli morì la serva. Il Signore dispose che vi andasse al suo posto una zia di Bosco (Marianna, sorella di Margherita). Questa pregò subito il cappellano di voler far scuola al nipote: il cappellano per riguardo alla serva acconsente, e Bosco Giovanni frequentò la sua scuola» (DESR, 421).
Vanin fa confusione col nome del prete che si chiamava Lacqua. Ma anche don Bosco sbaglierà chiamandolo Dallacqua. Il motivo è che, in quei tempi, i cognomi erano fluidi. Il bisnonno degli Agnelli si firmava Agnel. Il cappellano della marchesa di Barolo, don Borel, era chiamato anche Borrelli, Borello. Al posto di «don Cafasso», don Bosco scriverà sempre «don Caffasso».
Preti, mercanti falliti, studenti spiantati
Giovanni andò dunque ad abitare dai nonni, e per tre ore al mattino (tre ore e mezza con la Messa) e tre al pomeriggio imparava «lettura, religione, aritmetica». La durata dei corsi era esigua, coincideva con la stagione morta dei campi: dal 3 novembre (dopo la festa dei Santi e il giorno dei Morti) al 20 marzo (la vigilia dell'Annunziata).
Appena imposte per legge le scuole, nel Regno di Sardegna ci si era accorti che mancavano testi scolastici, sussidi, insegnanti. Cominciarono a insegnare i preti, che per molti anni furono la stragrande maggioranza dei maestri. Accanto a loro facevano scuola mercanti falliti e studenti spiantati.
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La scuola elementare inferiore durava due anni. Antonio, il fratello più grande di Giovanni, dovette frequentarla almeno per qualche mese. Sapeva infatti fare la firma. Eppure si oppose cocciutamente alla scuola del fratellino. «I desideri di Giovanni di avviarsi agli studi per riuscire prete erano ardenti. Ma gravi difficoltà si opponevano per le strettezze della famiglia e anche per l'opposizione che faceva il fratellastro Antonio, il quale avrebbe voluto che egli pure andasse ai lavori di campagna» (RUA, ib., p. 4037).
Giuseppe, forse per la stessa opposizione, non andò mal a scuola; e per tutta la vita firmò con l'umiliante croce degli analfabeti.
Nella scuola di Capriglio, Giovanni provò le prime amarezze. Veniva da un altro paese e questo ai rozzi contadinotti era sufficiente per prenderlo in giro e tormentarlo. «Lo maltrattavano tenendolo per uno sciocco, senza che egli osasse difendersi». Lo raccontò Antonio Occhiena, già sindaco di Capriglio, che confessava di «aver preso parte egli stesso ai fatti che raccontava».
Le bacchettate di don Lacqua
Don Lacqua, che pure non aveva voluto prenderlo in classe, lo difese. Menò bacchettate (secondo l'uso del tempo) sulle mani e sulle spalle dei rumorosi e maleducati campagnoli. Nelle sue Memorie don Bosco scriverà con riconoscenza: «Mio maestro fu un sacerdote molto pio, don Giuseppe Dallacqua. Mi trattò con molta gentilezza, si prese a cuore la mia istruzione e più ancora la mia istruzione cristiana» (p. 14).
Luigi Deambrogio, frugando negli archivi, ritrovò qualche pagina di don Lacqua. Scrive con commozione: «Quella bella scrittura, ancora con andatura settecentesca, dalla forma armoniosa, composta e chiara. La scrittura di colui che ha insegnato a scrivere a Giovannino Bosco e che gli ha tenuto la mano nelle prime pro- ve!». Ma quella amorosa scuola di calligrafia non dovette essere molto efficace, se don Bosco ebbe poi una grafia pessima, che metteva a dura prova chi doveva ricopiarla o semplicemente interpretarla. (Ne ho fatto la prova anch'io, cavandomi gli occhi su lunghi brani delle Memorie, scritti in maniera veramente impossibile). Quando, vicino alla festa dell'Annunciazione, don Lacqua rimise in libertà i suoi diavolotti, prestò a Giovanni (che aveva più voglia di leggere di tutti gli altri messi insieme) tre libri: I Reali di Francia, Il Guerin Meschino e Bertoldo e Bertoldino. Credeva di rendergli più divertente qualche serata. Invece lo incamminava per una strada di sorprese e di successi.
8. Sopra una panca e sopra una corda
Gli spiriti in soffitta
Giovanni Bosco era un narratore nato. Gli piaceva raccontare (e questo capita a molti) e agli altri piaceva ascoltarlo (e questo capita a pochi).
Fin dai primissimi anni, ricorda nelle sue Memorie, ciò che attirava i suoi giovani amici «e li divertiva moltissimo erano i miei racconti» (p. 19).
Nelle giornate di pioggia i ragazzi si annoiavano. Finivano col ritrovarsi sulla paglia del fienile, e lui raccontava. Che cosa? I fatti più curiosi che gli erano capitati.
Un «pezzo forte», raccontato chissà quante volte e chissà con quante variazioni di sceneggiatura, era l'episodio degli spiriti in soffitta, avvenuto durante una vendemmia a Capriglio. Attorno alla tavola, a notte ormai inoltrata, il nonno narrava sornione di streghe e di spiriti che a volte si lamentavano in soffitta. Voleva mettere un po' di paura a donne e bambini, e invece «patapunf!», un colpo sul soffitto fece balzare tutti col cuore in gola, anche il vecchietto preso in contropiede. E dopo il colpo uno strascichio, rumori strani sulla volta che metteva in comunicazione con la soffitta. Una donna che strilla c'è sempre in questi casi, e qualcuna gridò: «Maria Vergine, i morti!». La paura si toccava. Giovanni invece (e lo raccontava spargendo abbondanti pizzichi di modestia) nemmeno un'ombra di paura. Si alzò, impugnò un bastone e disse al nonno: «Quello che striscia non è un morto, ma una faina che andrà a mangiarti le galline. Vado a cacciarla via». Scena delle donne, mamma Margherita che ha paura anche lei ma finisce per dar ragione a Giovanni, salita sulla scala di legno con due lumi. Nella soffitta, le fiammelle fanno intravedere un cesto di vimini capovolto che viene avanti. Altra scena delle donne, finché Giovanni afferra il cesto e... dà via libera a una gallina spaventata. La povera bestia si era tirata addosso il cesto beccando i grani di frumento imprigionati tra i vimini, e lo spingeva qua e là rabbiosa e spaventata, cercando di liberarsi. Finì tutto in matte risate e con la povera gallina in pentola (MB 1 ,85ss).
Il best-seller delle veglie contadine
Giovanni era un ragazzino e non aveva ancora molti fatti suoi da raccontare. Quindi dopo l'avventura della gallina finita in pentola, e quella del ladro che gli voleva rubare i tacchini, «raccontavo i fatti che avevo ascoltato nelle prediche». Ma sovente i fatti erano finiti e la pioggia continuava. E un giorno gli venne la gran- de idea: «Aspettate, vado a prendere un libro che mi ha prestato don Lacqua». Tornò con I Reali di Francia. Da quel giorno le avventure meravigliose dell'imperatore Carlo Magno e dei suoi paladini, le stragi della spada magica Durlindana, i tradimenti di Gano ebbero un successo folgorante.
Nell'inverno, le famiglie passavano le sere al caldo delle stalle. La voce che Giovanni Bosco leggeva storie meravigliose si sparse velocemente. «Mi invitavano tutti.(...) Erano contenti di passare una serata ascoltando immobili la lettura dei Reali di Francia. Il piccolo e povero lettore stava ritto su una panca perché tutti po- tessero vederlo» (Memorie, 20).
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«A undici anni facevo i giochi di prestigio»
Nel «sogno dei 9 anni» aveva visto una turba di ragazzi, e gli era stato ordinato di fare loro del bene. Quasi senza accorgersene aveva cominciato così: con i racconti nel fienile, nelle stalle. «E curioso il fatto - ricorda - che in giro si diceva: "Andiamo ad ascoltare la predica", perché prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della croce e recitavamo un'Ave Maria» (Memone, 20).
Perché non continuare a far del bene a quei ragazzi nella bella stagione che sbocciava ormai nella campagna, con i petali bianchi dei mandorli e quelli rosa dei peschi?
Ed ecco cosa fece.
«Nei giorni di mercato e di fiera andavo a vedere i ciarlatani e i saltimbanchi. Osservavo attentamente i giochi di prestigio, gli esercizi di destrezza. Tornato a casa, provavo e riprovavo finché riuscivo a realizzarli anch'io. Sono immaginabili le cadute, i ruzzoloni, i capitomboli che dovetti rischiare. Eppure, anche se è difficile credermi, a undici anni io facevo i giochi di prestigio, il salto mortale, camminavo sulle mani, saltavo e danzavo sulla corda come un saltimbanco professionista.
Nei giorni di festa i ragazzi delle case vicine e anche delle borgate lontane venivano a cercarmi. Davo spettacolo eseguendo alcuni giochi che avevo imparato.
Ai Becchi c'è un prato in cui crescevano diverse piante. Una di esse era un pero autunnale, molto robusto. A quell'albero legavo una fune, che tiravo fino ad annodarla ad un'altra pianta. Accanto collocavo un tavolino con la borsa del prestigiatore. In terra stendevo un tappeto per gli esercizi a corpo libero.
Quando tutto era pronto e molti spettatori attendevano ansiosi l'inizio, invitavo tutti a recitare il Rosario e a cantare un canto sacro. Poi salivo sopra una sedia e facevo la predica. Ripetevo, cioè, quella ascoltata al mattino durante la Messa, o raccontavo qualche fatto interessante che avevo ascoltato o letto in un libro. Finita la predica, ancora una breve preghiera e poi davo inizio allo spettacolo. Il predicatore si trasformava in saltimbanco professionista».
Antonio, 18 anni, guardava da lontano
«Eseguivo salti mortali, camminavo sulle mani, facevo evoluzioni ardite. Poi attaccavo i giochi di prestigio. Mangiavo monete e andavo a ripescarle sulla punta del naso degli spettatori. Moltiplicavo le pallottole colorate, le uova, cambiavo l'acqua in vino, uccidevo e facevo a pezzi un galletto per farlo subito dopo risusci- tare e cantare con allegria.
Finalmente balzavo sulla corda e vi camminavo sicuro come sopra un sentiero: saltavo, danzavo, mi appoggiavo con le mani gettando i piedi in aria, o volavo a testa in giù tenendomi appeso per i piedi.
Dopo alcune ore ero stanchissimo. Chiudevo lo spettacolo, recitavamo una breve preghiera e ognuno se ne tornava a casa. Dai miei spettacoli escludevo quelli che avevano bestemmiato, fatto cattivi discorsi, e chi si rifiutava di pregare con noi.
(...) Mia madre mi voleva molto bene. Io le raccontavo tutto: i miei progetti, le mie piccole imprese. Senza la sua approvazione non facevo niente. Lei sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare» (Memorie, 20 s). Ma c'era anche un altro che osservava tutto, il fratello Antonio che ora aveva 18 anni ed era forte e ombroso come un torello. Lo guardava da lontano e masticava rabbia. A tavola qualche volta sbottava: «Io mi rompo le ossa nei campi, e questo qui fa il ciarlatano! Crescerai pieno di vizi». Giovanni soffriva.
9. La prima Comunione
Un libro che accompagnerà la vita
Nel febbraio 1826 morì la nonna. Per Giovanni fu un dolore profondo. (Il nipote più piccolo, si sa, è il cocco della nonna). Ma fu una perdita rilevante anche per la famiglia: la vecchietta era autoritaria, teneva gli occhi sui ragazzi, e sapeva alzare la voce quando occorreva.
Fu probabilmente in occasione della sepoltura che mamma Margherita si sfogò con il parroco don Sismondo. Giovanni cresceva a vista d'occhio, e si manifestava (a differenza di Giuseppe) vivace, appassionato, a volte ribelle. Lei faceva tutto quanto poteva per aiutarlo a crescere bene. Ma alla lunga la mancanza del papà non si sarebbe fatta sentire? Chiese che il suo bambino, pur non avendo ancora undici anni (a quel tempo occorreva averne compiuti almeno dodici), potesse fare la prima Comunione. Margherita era una cristiana vera, e credeva che l'Eucaristia avrebbe dato a Giovanni la forza di crescere bene, in una vita ancora tutta spalancata sull'incertezza. «Forse la particolare condizione affettiva sua (di Giovanni) e della mamma influirono sulla decisione del parroco - scrive Pietro Stella - che gli concesse la Comunione a quasi undici anni» (ST 1,31).
Per essere ammessi alla Comunione occorreva imparare il Breve Catechismo per i fanciulli e poi dare un esame. Giovanni leggeva ormai bene e Margherita conosceva a memoria lunghi brani di quel libretto.
Veniva chiamato Breve, ma per un ragazzo era lungo: 14 lezioni, ognuna formata da una ventina di domande e risposte, sovente minuziose e astratte. Evidentemente un bambino di 10 anni e mezzo non poteva imparare a memoria tutta quella roba. Con l'aiuto della mamma, Giovanni imparò le cose principali, scartando quelle difficili e noiose.
Il «condensato» di don Bosco
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Che cosa prese e che cosa scartò Giovanni? Difficile dirlo. Ma quando sarà prete e dovrà preparare altri ragazzetti alla prima Comunione, don Bosco farà un «condensato» del Breve Catechismo. Lo ridurrà da 14 a 9 lezioni, e in ognuna dimezzerà e semplificherà le risposte. Ripeterà a distanza di anni - possiamo pensare - quello che aveva fatto sulle colline dei Becchi con l'aiuto di sua madre.
Commuove un po' pensare che quelle domande e risposte furono le prime che Margherita aiutò a stampare nella mente del suo Giovanni, orientandolo per sempre sui grandi problemi della vita e della morte. «Chi vuole esplorare le "fonti" della maniera di pensare e di educare di don Bosco, difficilmente potrà esagerare l'influsso esercitato dal Breve Catechismo che egli apprese dalla madre» (P. Braido).
Dal «condensato» che don Bosco ne fece, riporto la prima e la quinta lezione (le esigenze di spazio non permettono di fare di più). Quelle parole semplicissime don Bosco le portò sempre nella mente, le spiegò a infiniti ragazzi, e le impastò instancabilmente nei suoi libri e nelle sue conversazioni. Ci spiegano la sua mentalità.
Lezione prima
Domanda: Chi vi ha creato?
Risposta: Mi ha creato Dio.
D. Per quale fine Dio vi ha creato?
R. Dio mi ha creato per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita, e per questo mezzo andarlo a godere per sempre nella celeste patria.
D. Chi è Dio?
R. Dio è uno spirito perfettissimo creatore e Signore del cielo e della terra.
D. Chi ha fatto Dio?
R. Dio non è stato fatto da alcuno.
D. Dov'è Dio?
R. Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo.
D. Dio vede tutte le cose?
R. Dio vede tutto anche i nostri pensieri.
D. Quanto tempo è che vi è Dio?
R. Dio è sempre stato e sempre sarà.
D. Quali sono i misteri principali della nostra santa fede?
R. I misteri principali della nostra santa fede sono quelli dell'unità e trinità di Dio, e quello della nostra redenzione.
D. Che cosa vuol dire unità?
R. Unità vuol dire che vi è un solo Dio.
Lezione quinta
D. Gesù Cristo non ritornerà più visibilmente su questa terra? R. Sì; egli ritornerà alla fine del mondo.
D. Che cosa verrà a fare alla fine del mondo?
R. Verrà a giudicare i vivi e i morti, cioè i buoni e i cattivi.
D. Di che cosa ci giudicherà?
R. Di tutto il bene e di tutto il male che avremo fatto.
D. Quando l'uomo muore, dov'è portato il corpo?
R. Quando l'uomo muore, il suo corpo è portato al Sepolcro.
D. E l'anima sua dove andrà?
R. L'anima sua che è immortale dovrà presentarsi dinanzi a Dio per essere giudicata.
D. Quante sorta di giudizi vi sono?
R. Vi sono due giudizi: uno particolare, l'altro universale.
D. Qual è il giudizio particolare?
R. È quello che Gesù Cristo fa dell'anima di ciascuno subito dopo la morte.
D. Qual è il giudizio universale?
R. Il giudizio universale è quello che Dio farà di tutti gli uomini alla fine del mondo.
D. Dove vanno quelli che muojono in grazia di Dio?
R. Quelli che muojono in grazia di Dio vanno al paradiso.
D. Che cosa godono i buoni in paradiso?
R. I buoni in paradiso godono la vista di Dio, ogni bene, senza alcuna sorta di male.
D. Quanto tempo staranno i buoni in paradiso?
R. Vi staranno per tutta l'eternità.
D. Dove andranno quelli che muoiono in peccato mortale?
R. Quelli che muoiono in peccato mortale andranno all'inferno.
D. Che cosa patiranno i dannati nell'inferno?
R. La privazione della vista di Dio, il fuoco eterno, ogni male senza alcuna sorta di bene. D. Per quanti peccati si può andare all'inferno?
R. Basta un solo peccato mortale.
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Migliore, almeno un poco
Tra una domanda e l'altra, Margherita raccontava a Giovanni i fatti più belli della vita di Gesù: la risurrezione di Lazzaro, la guarigione dei lebbrosi e del cieco nato, la moltiplicazione dei pani, la tempesta calmata dalle sue parole, l'ultima cena, la passione, la morte, la risurrezione. Come tante mamme che hanno trasmesso ai figli il gusto di immaginare e di raccontare, Margherita doveva essere una grande narratrice. Giovanni, incantato, imparava da lei a conoscere e ad amare Gesù.
Nella quaresima cercò di andare sovente al catechismo. Se pioveva, apriva il parapioggia, e calzava gli zoccoli. Secondo Matta, il piccolo pastore suo compagno, che lo vedeva partire con quel tempaccio, lo racconterà tanti anni dopo.
La Pasqua del 1826 cadeva il 26 marzo. Nella chiesa di Castelnuovo si stipavano tanti ragazzi, tanti papà e mamme, tanti fiori e tanti amici. Don Sismondo non riusciva a tenere tutti zitti. In quell'assemblea chiassosa e un po' confusa, era difficile pensare al «centro» di tutto: all'incontro con Gesù. Margherita, però, era accanto a suo figlio.
«Non mi lasciò parlare con nessuno. Mi accompagnò alla sacra mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento. Quel giorno mi ripeté più volte:
- Figlio mio, sono sicura che Dio è diventato padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai a conservarti buono per tutta la vita.
Ho sempre ricordato le parole di mia madre. Prima non avevo nessuna voglia di obbedire. Rispondevo sempre a chi mi dava un comando o un consiglio. Da quel giorno mi pare di essere diventato migliore, almeno un poco» (Memorie, 23).
10. A 12 anni in cerca di lavoro
Il libro accanto alla zappa
Presso don Lacqua, Giovanni in due inverni aveva compiuto le scuole elementari inferiori. Per Antonio (che aveva già tollerato di malavoglia questa novità) la faccenda era finita. Ora Giovanni doveva prendere la zappa come tutti e sudare nelle vigne.
Giovanni aveva invece la speranza di continuare gli studi: a Castelnuovo, dove il comune aveva aperto accanto alle elementari un corso di latinità articolato in cinque classi; o addirittura a Chieri.
In rapide puntate a Capriglio si faceva prestare nuovi libri dal suo maestro, e usava ogni margine di tempo per imparare qualcosa in più. «Con una mano prendevo la zappa, con l'altra la grammatica».
Insieme con gli altri zappava, sarchiava, raccoglieva l'erba. Ma arrivata l'ora del desinare si metteva in disparte. Mentre addentava il pane, riapriva le pagine. Anche durante la cena, alla sera tardi, un libro era costantemente aperto accanto al suo piatto.
«Nonostante tanto lavoro e tanta buona volontà - scrive don Bosco - Antonio non era soddisfatto. Un giorno, con tono deciso, disse a mia madre e a mio fratello Giuseppe:
- È’ ora di farla finita con questa grammatica. Io sono diventato grande e grosso e non ho mai avuto bisogno di libri.
In uno scatto di dolore e di rabbia risposi:
- Anche il nostro asino non è mai andato a scuola, ed è più grosso di te.
A quelle parole andò sulle furie e a stento potei evitare, scappando, una pioggia di pugni e di schiaffi. Mia mamma era costernata, io piangevo» (Memorie, 27s).
Il freddo nel cuore
Questo scontro (l'ultimo di una lunga serie) avvenne nel gennaio 1827. Ogni anno, alla festa dell'Annunziata (25 marzo), dalle famiglie povere partivano i papà con i figli più grandi. Andavano al mercato. Lì si davano convegno i padroni delle fattorie, che venivano ad «affittare» i ragazzi per un'annata di lavoro. Per otto mesi di lavoro (aprile-novembre) come garzone di stalla o contadino nei campi, il ragazzo riceveva in cambio il cibo e un angolo per dormire. Suo padre riceveva da 5 a 20 lire secondo la robustezza e l'abilità del ragazzo- lavoratore. Anche Giovanni, se non fosse riuscito a diventare uno studente, tra un anno e pochi mesi sarebbe andato al mercato a «offrirsi» a un padrone.
Margherita, però, nella notte dopo la sfuriata di Antonio, prese la decisione più amara della sua vita. Al mattino chiamò Giovanni. Gli disse che Antonio, coi suoi 19 anni, un giorno o l'altro gli avrebbe potuto far del male sul serio. Lei non riusciva più a fermarlo né a ragionarlo. Era meglio che Giovanni andasse via da casa subito, a cercare un posto di garzone. Gli indicò alcune cascine nella zona di Morialdo e di Moncucco. Gli parlò specialmente di una famiglia che conosceva, i Moglia. Abitavano un cascinale a qualche chilometro da Moncucco. La padrona di casa, Dorotea Filippello, era di Castelnuovo.
Giovanni ubbidì a sua madre. Partì da solo, con un fagottino sotto il braccio: qualche fazzoletto, due camicie, due libri imprestatigli da don Lacqua (l'ultimo filo che lo legava a un avvenire diverso). Mamma aveva messo nel fagotto anche una pagnotta di pane, per calmare la fame lungo il cammino. Per la strada lunga, quando più nessuno l'avrebbe visto, Giovanni l'avrebbe ammorbidita di lacrime. C'erano ghiaccio e neve sulle strade e sulle colline.
Scese fino a Castelnuovo, poi svoltò a sinistra per Moriondo, e quindi a destra per Moncucco. Otto chilometri.
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Tentò alle cascine indicate dalla madre. Lavoro per un ragazzino non ne avevano. Nel pomeriggio, col freddo che gli era sceso anche nel cuore, giunse davanti alla fattoria dei Moglia. Era la sua ultima speranza.
La famiglia sull'aia
Nel 1888, a pochi mesi dalla morte di don Bosco, i Salesiani mandarono ai Becchi, a Castelnuovo e alla Moglia, don Secondo Marchisio, perché raccogliesse ogni testimonianza che sopravviveva sulla fanciullezza di don Bosco.
Nella cascina Moglia, don Marchisio trovò, molto vecchia ma molto lucida, la signora Dorotea Moglia, di anni 86. Accanto a lei i figli Anna (nata nel 1822) e Giorgio (nato nel 1825). I figli ricordavano specialmente episodi raccontati dal papà Luigi, mancato 6 anni prima, e ripetuti tante volte quando don Bosco veniva a trovarli. (L'amicizia con i Moglia durò sempre: nel 1840 fu padrino di Battesimo per l'ultimo figlio di Luigi e Dorotea, Luigi Giovanni Battista). Dorotea ricordava invece di memoria sua quel primo, lontano pomeriggio in cui Giovanni era venuto a bussare alla loro porta. Lei aveva allora 25 anni. Traducendo dal piemontese le parole della vecchietta, don Secondo Marchisio poté ricostruire il dialogo che si svolse sull'aia. Ecco la testimonianza nelle precise parole scritte da lui in quel 1888.
«Relazione avuta in casa Moglia ove Bosco Giovanni stette vaccaro dalla metà di Gennaio dell'anno 1827 fino al Natale del 1829.
Si era alla metà di Gennaio del 1827. La famiglia Moglia si trovava nell'aia a preparare i vimini necessari per le vigne, quand'ecco che si presenta un giovanetto con un involto sotto il braccio:
Moglia. Chi cerchi, ragazzo?
Bosco. Cerco Luigi Moglia.
M. Sono io, e che desideri?
B. Mia madre mi disse che venissi a fare il vostro vaccaro.
M. Chi è tua madre? e perché ti manda via piccolo come sei?
B. Mia madre si chiama Margherita Bosco: vedendo essa che mio fratello Antonio mi maltratta e batte
sempre, ieri mi disse: "Prendi queste due camicie e due moccichini (=fazzoletti), va al Bausone e chiama qualche posto da servo: e se non trovi vai alla cascina Moglia posta fra Mombello e Moncucco: là chiamerai del padrone, digli che sono io tua madre che ti mando e spero che ti prenderà".
M. Povero ragazzo, io non posso prenderti adesso siamo d'inverno e i vaccari chi li ha li licenzia: non siamo soliti prenderne fin dopo l'Annunziata. Abbi pazienza e va' a casa.
B. Prendetemi un po'! Datemi anche niente per paga.
M. Non ti voglio, sarai capace a far nulla.
B. (piangendo) Prendetemi: io mi seggo qui per terra e non mi muoverò più.
E così dicendo Bosco si mise a raccogliere cogli altri i vimini sparsi per terra. Moglia Dorotea persuase il
marito a prendere almeno per qualche giorno quel povero giovanetto come si fece. Dopo qualche giorno Luigi Moglia mandò Bosco a casa per dire alla madre che si trovasse a Castelnuovo pel prossimo giovedì e che avrebbe con lei combinato il salario da darsi al figlio. Si convenne di dare per paga a Giovanni Bosco L.15 annue. (Si noti che in quel tempo L.15 annue era una paga piuttosto generosa per un vaccaro di 12 anni)» (DESR, 422). Corrispondevano, più o meno, a 60.000 lire del 1986.
Nelle righe seguenti, don Marchisio prese note di sette fatti che Dorotea e i suoi figli raccontavano sulla permanenza di Giovanni alla loro cascina.
Quando si aprì il «processo diocesano torinese» per far santo don Bosco era il 1893. La signora Dorotea aveva chiuso gli occhi nel 1890. Il figlio Giorgio fu chiamato a testimoniare sui ricordi «uditi dai genitori e dagli altri familiari».
È sul filo di questa sua testimonianza giurata e sui sette fatti annotati da don Marchisio cinque anni prima, che si può ricostruire un'esile trama sui tre anni passati da Giovanni coi Moglia.
11. Piccolo vaccaro
I grani e le spighe
Luigi Moglia affidò Giovanni al vaccaro della fattoria, il vecchio Giuseppe che tutti chiamavano «zio». Al mattino presto, Giovanni si presentava a lui e gli dava una mano nel lavoro di stalla. Mungevano le mucche riempiendo grossi secchi di latte. Poi portavano via, con il tridente e la carriola, il letame e lo sostituivano con un «letto asciutto di paglia», perché le mucche potessero sdraiarsi tranquille.
Era quindi tempo di dar loro la «colazione». Giovanni saliva sul fienile e gettava nelle mangiatoie il fieno. Quindi zio Giuseppe portava gli animali all'abbeverata. Rimaneva l'ultimo lavoro: strigliare energicamente la pelle dura delle mucche perché fossero ben pulite, e mosche e tafani non le tormentassero.
Allora arrivava il tempo della «loro» colazione. Si sedevano su un mucchio di paglia e addentavano adagio il pane.
Prima di colazione, prima del pranzo e della cena, Margherita aveva insegnato a suo figlio a mettersi in ginocchio e a recitare la preghiera dell'Angelus. Giovanni rimase fedele a quella preghiera anche alla cascina Moglia, e Giuseppe sovente lo prendeva in giro. Un giorno egli tornava sudato dalla campagna e vide Giovan- ni inginocchiato che pregava. Gettò là tra il serio e l'allegro: «Ecco come va il mondo. I padroni sudano e i garzoni pregano». Giovanni si era già affezionato a quel vecchio ruvido e bonario, e gli rispose: «Mia madre
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mi ha insegnato che se si prega, da due grani nascono quattro spighe, se non si prega da quattro grani nascono due spighe sole. Dovreste quindi pregare anche voi». Il vecchio rise e borbottò: «Abbiamo anche il maestro».
Al sabato sera, Giovanni si avvicinava alla signora Dorotea e le chiedeva di andare il mattino dopo a Moncucco a sentire la prima Messa. Dorotea non capiva il motivo di quella camminata di un'ora fatta quasi al buio e qualche volta fra la neve. Tanto più che, alle undici di ogni domenica, la famiglia andava alla Messa grande, guidata dal signor Luigi, e ci andava anche Giovanni. Volle vederci chiaro e una domenica mattina, non vista, lo segui. Vide che, entrato in chiesa, Giovanni andava a confessarsi dal parroco don Cottino, sentiva la Messa e faceva la Comunione. Allora capì: nella «Messa grande» che si diceva prima di mezzogiorno, in quei tempi, non si distribuiva la Comunione ai fedeli. Per poter ricevere l'Eucaristia, Giovanni faceva ogni domenica mattina quella camminata.
Tornano i racconti sul fienile
Nel pomeriggio della domenica i ragazzi si annoiavano un po'. Non sapevano come giocare con la neve o la pioggia sui prati. Giovanni chiese di salire con loro sul fienile. Fece qualche gioco di prestigio strappando applausi. E poi si mise a raccontare. Non aveva con sé I Reali di Francia, ma a forza di averlo letto lo ricordava quasi a memoria. E raccontava i fatti più belli della vita di Gesù, come glieli aveva raccontati sua madre. I ragazzi e le ragazzine ascoltavano incantati.
La voce si diffuse: il garzone dei Moglia faceva dei bellissimi racconti. Il fienile divenne un affollato luogo di incontro. Nel pomeriggio di ogni domenica arrivavano di corsa «tutti i ragazzi e tutte le ragazze delle famiglie vicine: salivano tutti sul fienile» (Testimonianza di Dorotea).
Con la bella stagione, il lavoro di Giovanni cambiò. Zio Giuseppe al mattino lo mandava a guidare i buoi che tiravano l'aratro, impugnato dalle mani salde del padrone. Nel pomeriggio gli diceva: «Prendi le mucche e portale al pascolo».
Ed ecco due ricordi di Dorotea trascritti da don Secondo Marchisio: «Andando a guidare i buoi attaccati all'aratro, aveva sempre il libro in mano, tirando così con la destra i buoi e colla sinistra tenendo il libro. Non fu visto una volta andare al pascolo senza libro, ma sempre si metteva all'ombra di qualche pianta studiando o leggendo».
Luigi Moglia non si lamentava: il lavoro era fatto bene. Ma scuoteva la testa come davanti a una stranezza. Un giorno gli domandò perché leggesse tanto e si senti rispondere: «Perché voglio diventare prete». Luigi ci pensò su, e scosse ancora la testa: per pagarsi gli studi fino a diventare prete o medico o avvocato, in quel tempo ci volevano da 6 a 10 mila lire (una trentina di milioni del 1986). Dove li avrebbe presi quel ragazzo?
Attesa da Dio e dagli uomini
Fu raccontato a don Marchisio anche un episodio strano. «Un giorno pascolava le sue vacche in un prato poco distante dalla cascina: ad un tratto la padrona Moglia Dorotea col cognato Giovanni Moglia vedono che Bosco è inginocchiato quasi vicino ad una vacca. Credono che dorma al sole e lo chiamano ad alta voce, ma non vedendolo muoversi Giovanni Moglia si muove per andargli vicino chiamandolo sempre ad alta voce. Arrivato a breve distanza conobbe che Bosco era inginocchiato e che teneva un libro fra le mani penzoloni, la faccia però era rivolta graziosamente al cielo e gli occhi li aveva chiusi. Moglia toccandolo leggermente gli dice: "Perché dormi così al sole?". "No, no, rispose Bosco, io non dormivo"; e così dicendo si alzò tutto confuso per essere stato scoperto nella sua meditazione» (DESR, 421-22).
Dorotea e Giovanni non si erano mossi verso Giovanni preoccupati soltanto che dormisse al sole. In quel tempo i garzoni sottonutriti avevano l'abitudine di mungere di nascosto le vacche e di berne il latte mentre erano al pascolo. Erano quindi sorvegliati. Vedendo Giovanni inginocchiato «quasi vicino a una vacca», i pa- droni s'insospettirono anche di lui. Ma lo trovarono assorto in preghiera. Pietro Stella, in uno dei rari momenti in cui cede alla commozione, commenta: «Furono dunque anni non inutili, non di parentesi, nei quali si radicò più profondo in lui il senso di Dio e della contemplazione, a cui poté introdursi nella solitudine o nel colloquio con Dio durante il lavoro dei campi. Anni che si possono definire di attesa assorta e supplichevole: di attesa da Dio e dagli uomini» (1,36).
La bambinetta indispettita
A volte nel prato scendeva a giocare Anna, la bambinetta dei Moglia. Era stanca di star sola, voleva giocare con qualcuno. Ma Giovanni sovente non si accorgeva di lei, continuava a leggere. Anna metteva il broncio: «Perché non giochi con me?». Giovanni le sorrideva: «Devo diventare prete, devo studiare». Anna, indispettita, scuoteva la testa: «Non è vero. Tu diventerai un vaccaro come zio Giuseppe». «Ascoltami bene - le disse un giorno Giovanni -. Io diventerò prete davvero, e tu un giorno verrai a confessarti da me».
Fu veramente così. Anna si sposò a Moriondo con Giuseppe Zucca, divenne mamma, e sovente veniva all'Oratorio di Valdocco con i figli. Nella piccola chiesa di S. Francesco di Sales si confessava da don Bosco e ascoltava la Messa. Don Bosco l'accoglieva con gioia, come una sorella.
Un giorno del 1828, il padrone condusse Giovanni a piantare un nuovo filare di viti. Quel lavoro stancò molto Giovanni. Al termine disse: «Mi sono costate molto, ma dureranno più delle altre». Dorotea, sessant'anni dopo, raccontava: «Le viti piantate da altri in tanti altri filari sono già state cambiate per due volte perché non davano più frutto; quel filare piantato da don Bosco produce tuttora il doppio di frutto; e di quel filare don
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Bosco conservava sempre cara ricordanza, informandosi sovente e desiderando di assaggiarne l'uva» (DESR, 422s; MB 1, cap. 22).
12. Un vecchio prete e quattro soldi
Addio sull'aia
Uno zio di Giovanni, Michele Occhiena, arrivò sull'aia della cascina Moglia nei primi giorni del novembre 1829. Giovanni stava facendo uscire le mucche dalla stalla. Ebbero una conversazione franca, «tra uomini». A San Martino (11 novembre) scadevano i contratti agricoli. Molti garzoni facevano fagotto e tornavano a casa. Giovanni disse allo zio che non se la sentiva di rimanere lì per un altro anno. Lo trattavano bene, ma lui voleva studiare. A mesi avrebbe compiuto 15 anni. Rimanere un altro anno significava dire addio per sempre alle sue ultime possibilità.
Michele Occhiena aveva relazioni di affari con il Seminario di Chieri (era il fornitore di vino). Poteva avvicinare i preti della zona e trovare qualcuno disposto a far scuola al nipote. Se proprio non ci fosse riuscito, c'era sempre la scuola di Castelnuovo.
La conclusione fu che Giovanni chiudesse la partita coi Moglia e tornasse ai Becchi.
Luigi, Dorotea, «zio» Giuseppe, Anna strinsero la mano a Giovanni. L'avrebbero volentieri tenuto con loro, ma avevano capito che la sua strada era un'altra. Anche Anna, ora, pensava che quel ragazzo serio e intelligente poteva diventare qualcosa più di un «vaccaro».
A casa ci fu una seconda discussione franca, questa volta con Antonio. Aveva 21 anni e si preparava a sposarsi. Ricevuta garanzia che il mantenimento e gli studi di Giovanni non sarebbero gravati su di lui, accettò che facesse ciò che voleva.
Zio Michele cominciò a darsi da fare. Avvicinò alcuni preti. Ma la soluzione arrivò da un'altra parte.
Don Calosso
In quel novembre, a Buttigliera, ci fu una predicazione straordinaria. Molta gente ci andò e anche Giovanni. Alla sera tornava a casa mescolato con altra gente venuta da Morialdo e dai Becchi. C'era anche un prete molto anziano, da alcuni mesi appena cappellano a Morialdo. Camminava tutto curvo, aveva voluto accom- pagnare alla «missione» i suoi parrocchiani.
Si chiamava Giovanni Melchiorre Calosso (portava gli stessi nomi del ragazzo che stava per incontrare!). Si era laureato in teologia all'Università di Torino nel lontano 1782, e nove anni dopo era diventato parroco di Bruino. Dopo 22 anni di parrocchia si era ritirato per curarsi la salute malferma. Era stato ospite di suo fratello, parroco a Berzano, e nell'estate di quell'anno, 1829, aveva accettato la cappellania di Morialdo. Aveva ormai 70 anni.
Camminando, don Calosso vide quel ragazzo piccolotto, dai capelli ricciuti, che non aveva mai visto tra i suoi (Giovanni era appena tornato dalla cascina Moglia). Per farselo amico lo avvicinò con bontà. Nelle sue Memorie don Bosco racconta questo incontro e ricostruisce il dialogo tra lui e il vecchio prete.
- Di dove sei, figlio mio? Sei venuto anche tu alla missione?
- Sì, sono stato alla predica dei missionari.
- Chissà cos'hai capito! Forse tua mamma ti avrebbe potuto fare una predica più opportuna, non è vero?
- È’ vero, mia mamma mi fa sovente delle buone prediche. Ma mi pare di aver capito anche i missionari.
- Su, se mi dici quattro parole della predica di oggi, ti do quattro soldi. (...)
Senza difficoltà esposi l'introduzione, poi i tre punti dello svolgimento (...). Don Calosso mi lasciò esporre per oltre mezz'ora mentre camminavamo tra la gente. Poi mi domandò:
- Come ti chiami? Chi sono i tuoi genitori? Hai frequentato molte scuole?
- Mi chiamo Giovanni Bosco. Mio padre è morto quando ero ancora bambino. Mia madre è vedova con tre figli da mantenere. Ho imparato a leggere e a scrivere.
- Non hai studiato la grammatica latina?
- Non so cosa sia.
- Ti piacerebbe studiare?
- Moltissimo.
- Che cosa te lo impedisce?
- Mio fratello Antonio. Dice che andare a scuola vuol dire perdere tempo. Ma se potessi andare a scuola, io il tempo non lo perderei. Studierei molto.
- E perché vorresti studiare?
- Per diventare prete. (...)
Queste mie parole schiette e franche fecero molta impressione su don Calosso, che continuava a guardarmi. Giungemmo così a un incrocio dove le nostre strade si separavano. Mi disse queste ultime parole:
- Non scoraggiarti. Penserò io a te e ai tuoi studi. Domenica vieni a trovarmi con tua madre, e vedrai che aggiusteremo tutto.
La domenica seguente entrai nella sua casa insieme a mia mamma» (Memorie, 24s).
Si misero d'accordo che Giovanni sarebbe andato a studiare e a vivere con il vecchio prete. Sarebbe tornato a casa solo per dormire.
Per Giovanni cominciarono giorni felici.
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«Provai per la prima volta la sicurezza di avere una guida, un amico dell'anima. Per prima cosa mi proibì una penitenza che facevo, non adatta alla mia età. Mi incoraggiò invece ad andare con frequenza alla confessione e alla Comunione. Mi insegnò pure a fare ogni giorno una piccola meditazione, o meglio una lettura spi- rituale.(...) Studiai tutta la grammatica e mi esercitai nei componimenti. A Natale presi in mano la grammatica latina. (...) Ero felice» (Memorie, 22s).
Quando morì la speranza
Ma la felicità di Giovanni fu purtroppo breve. Era tornato ai Becchi per fare una commissione, quando una persona arrivò ad avvertirlo che don Calosso era stato colpito da apoplessia e chiedeva di vederlo. Era il novembre 1830, un anno esatto dal primo incontro con il vecchio prete.
«Non corsi, volai. Il mio carissimo don Calosso era a letto, non poteva più parlare. Ma mi riconobbe, mi diede la chiave del cassetto dov'era il denaro, e mi fece cenno di non darla a nessuno. Dopo due ore di agonia se ne andò con Dio. Con lui moriva ogni speranza» (Memorie, 29).
Veramente una speranza c'era ancora: nel cassetto che la chiave apriva c'erano seimila lire, i risparmi di tutta la sua vita. Affidandogli quella chiave, don Calosso aveva indicato chiaramente che quei soldi dovevano servire per i suoi studi, per entrare in seminario e diventare prete.
Ma i gesti di un moribondo, davanti alla legge, non hanno valore. O c'è un testamento o i beni passano ai legittimi eredi. I nipoti di don Calosso, quando giunsero, furono molto gentili con Giovanni. Gli dissero: «Pare che lo zio volesse lasciare a te questo denaro. Prendi tutto quello che vuoi». Giovanni ci pensò un poco sopra, poi disse: «Non voglio niente» (MB 1 ,217s). Consegnò la chiave. Era di nuovo e soltanto nelle mani di Dio.
13. Gli zoccoli che puzzano di capra
La famiglia Bosco si divide
La morte di don Calosso ha scosso profondamente Giovanni. Si è sentito sommergere dalla tristezza e piange inconsolabile. Sua madre ne è preoccupata e per distrarlo lo manda dai nonni a Capriglio.
Ma, nella forma che diventerà consueta nella sua vita, anche Dio si mostra preoccupato. «In quel tempo feci un altro sogno. Vidi una persona che mi sgridò severamente, perché avevo messo la mia speranza più negli uomini che in Dio» (Memorie, p. 31).
Don Calosso era mancato il 21 novembre 1830. Alcuni giorni prima la famiglia Bosco si era divisa. Antonio rimase solo ai Becchi e si preparò a mettere su famiglia: il 21 marzo 1831 avrebbe condotto all'altare la castelnovese Anna Rosso. Giuseppe, gagliardo nei suoi 18 anni, prese a mezzadria insieme a Giuseppe Febbraro la vasta fattoria chiamata «Sussambrino», e vi si trasferì con mamma Margherita.
Giovanni, quando si trasferì anche lui al Sussambrino, vide che le scuole di Castelnuovo si erano assai avvicinate: dalla cascina distavano solo due chilometri. Alla fattoria Moglia aveva camminato per prati e vigne. Ora avrebbe camminato per andare a scuola.
La grande camminata dei contadini-studenti
Negli anni in cui Giovanni Bosco cammina tra le colline per raggiungere la scuola di Castelnuovo, tanti altri ragazzi intelligenti e di buona volontà camminano con i libri sotto il braccio in ogni parte d'Italia. La popolazione è frastagliata in nuclei di case sparse per la campagna, le scuole esistono soltanto nei centri comunali, mezzi di trasporto sono i carri agricoli e rare carrozze postali. Tra Roncole e Busseto, negli anni '20, ha camminato Giuseppe Verdi. Tra Riese e Castelfranco, negli anni '40, camminerà Giuseppe Sarto che diverrà Papa Pio X. La grande camminata dei contadini-studenti si prolungherà per tutto il 1800. Ancora nei primi anni del 1900, Angelino Roncalli camminerà tra Sotto il Monte, Caderizzi e Cesana, ritmando i passi con frasi latine e formule di matematica, per non perdere tempo. Angelino diverrà Papa Giovanni XXIII. Dobbiamo a quella grande camminata se tanti ragazzi d'ingegno e buona volontà non finirono dimenticati tra i solchi della campagna, ma divennero la generazione nuova che spinse avanti l'Italia.
Si turavano il naso
A Castelnuovo, in una stessa aula, erano riunite le cinque classi di latino. Per Giovanni Bosco fu un anno di transizione.
All'inizio si rinnovò la situazione di Capriglio. I paesani undicenni guardavano ridendo quello spilungone quindicenne arrivato dalle colline con un paio di grossi zoccoli ai piedi. «Puzza di capra», sibilavano turandosi il naso. Ma il professore, don Emanuele Virano, era una persona gentile e forte. Rimbeccò seccamente i piccoli maleducati, prese da parte Giovanni e in poco tempo lo portò alla pari con gli altri. Quando egli svolse un tema veramente bene, gli fece leggere lo svolgimento in classe e al termine commentò: «Chi fa svolgimenti così, può anche portare zoccoli da pecoraio. Perché nella vita ciò che conta non sono le scarpe, ma la testa».
Il sostituto di 75 anni
Ad aprile Giovanni era tra i primi della classe, ma sopravvenne un contrattempo. Don Virano fu nominato parroco di Mondonio e dovette abbandonare la scuola. Mancavano ancora quattro mesi alla fine dell'anno scolastico (terminava il 14 agosto). Come sostituto venne mandato un prete molto vecchio, don Nicola Moglia,
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75 anni. Era un prete un po' svanito che non riuscì a dominare la scolaresca. Ogni giorno tra i banchi si scatenava la baraonda. Don Nicola tollerava, poi all'improvviso perdeva la pazienza e menava bacchettate rabbiose a chi gli capitava a tiro. Don Bosco ricordava: «Non riusciva assolutamente a ottenere attenzione e silenzio nella classe. In quel disordine, finii per perdere anche ciò che nei mesi precedenti avevo imparato» (Memorie, 33).
Giovanni non si scoraggiò. Si guardò intorno e cercò di occupare il tempo guadagnando qualche soldo per pagarsi il minervale (= tassa scolastica) e la pensione. Nei mesi più freddi aveva smesso di tornare a sera al Sussambrino, ed era andato a pensione dal sarto Giovanni Roberto. Dopo averlo osservato attentamente, provò ad attaccare i bottoni. Roberto trovò che aveva la mano leggera, e gli insegnò a cucire orli e asole. Finì per diventare l'aiutante del sarto, che gli scontava le ore di lavoro sulla pensione.
Poi entrò nella fucina di Evasio Savio, un fabbro suo amico. Imparò a maneggiare il martello pesante, a lavorare alla forgia. Anche Evasio Savio era un uomo onesto, e gli pagava le ore di lavoro.
Giovanni, mentre lavorava per vivere, non sapeva di lavorare anche per il suo avvenire. Quando a Valdocco fonderà i primi laboratori per ragazzi poverissimi, sarà il loro primo maestro nel maneggiare l'ago e il martello.
14. Il nuovo re si chiama Carlo Alberto
Si cambia la cifra: da CF a CA
Nell'aprile del 1831, mentre a Castelnuovo Giovanni Bosco viveva il suo primo infortunio scolastico, nel Palazzo Reale di Torino avveniva un drammatico cambio di guardia.
Re Carlo Felice, dopo dieci anni di regno, era in agonia. Non avendo figli, nella notte tra il 19 e il 20 marzo aveva fatto venire innanzi a sé il principe di Carignano, Carlo Alberto. Dopo lunghe esitazioni e mortificanti ripensamenti, lo aveva designato successore al trono. Ma la situazione non era limpida. Mentre il re era in agonia, si diffusero incontrollabili voci di un colpo di Stato. Scriverà lo stesso Carlo Alberto: «Il console di Francia a Genova si vantava di aver ricevuto dal suo governo l'ordine di fare insorgere quella città (...); il segretario dell'ambasciata francese a Torino, signor Seigmaison, agiva in maniera analoga. Ogni giorno venivano diffuse le notizie più imprevedibili, più gravi. Il duca di Mantova... era sostenuto da una fazione per impadronirsi della corona alla morte del re; era prevista un'insurrezione liberale... per rovesciare il governo; altri avevano progettato, alla morte del re, di prendermi come ostaggio, nel momento in cui mi sarei recato al Palazzo, allo scopo di ottenere una Costituzione; infine, la confusione, l'apprensione erano generali» (PINTO, 159).
Carlo Alberto non perde tempo. Mentre il re sta morendo, fa divulgare la voce che sua maestà si è ripreso ed è fuori pericolo. Si fa giurare fedeltà dalle massime autorità dell'esercito e dello Stato. Sulle insegne militari fa sostituire rapidamente la cifra CF (Carlo Felice) con CA (Carlo Alberto). Quando il re muore (27 aprile) ha ormai le mani saldamente sul trono.
Un principe da rieducare
La storia di questo principe, che tanta influenza avrà sull'opera di don Bosco, è stata e sarà contorta, a tratti addirittura incomprensibile per noi lontanissimi dal romanticismo. Dal momento che né Vittorio Emanuele I né suo fratello Carlo Felice hanno figli maschi, fin da bambino Carlo Alberto (principe cadetto del ramo Savoia- Carignano) è visto come l'erede alla Corona. Ma da ragazzo ha dovuto andare con la sua famiglia in esilio in Francia, ed ha respirato l'aria della Rivoluzione. Per questo, quando rientra a corte, i Savoia lo vogliono «rieducare». Ha 16 anni, ma lo trattano come un bambino di 7. Gli mettono accanto un prete codino che lo costringe a pratiche religiose continue e interminabili. Il suo istitutore, cavaliere Silvano Costa, scrive desolato di lui: «Ha sul suo tavolo molti buoni libri, disgraziatamente sempre aperti alla stessa pagina» (PINTO, 26 s). L'etichetta di corte, rigida e stucchevole come quella di una caserma, lo annoia e lo esaspera.
Nel 1817 (ha appena 19 anni) gli fanno sposare Maria Teresa, figlia del Granduca di Toscana e nipote dell'imperatore d'Austria. Questa principessa diciassettenne un giorno sarà regina a Torino, ammirata per la sua bontà (Don Bosco avrà da lei comprensione e aiuti continui).
Ora è una bambina spaurita nella triste solitudine del Palazzo. Appena può, va a giocare a nascondino con le figlie minori di Vittorio Emanuele I. Non sarà mai una donna felice. Le lettere d'amore che il suo Carlo Alberto riceverà da tante spasimanti e che lui nasconderà disinvoltamente nelle tasche interne della palandrana o nel libro da Messa, la faranno sanguinare.
Nel 1820 a corte si celebrano due avvenimenti: la nascita del primogenito di Carlo Alberto, battezzato con i nomi del re, Vittorio Emanuele, e il matrimonio della sorella di Carlo Alberto, Elisabetta, chiesta in sposa dall'arciduca austriaco Ranieri, governatore del Lombardo-Veneto. Vittorio Emanuele I, che «quando non è a cavallo si addormenta», accetta questo nuovo legame con l'Austria.
In quello stesso anno, il 1° gennaio, scoppia la rivoluzione di Cadice, in Spagna. Ufficiali «democratici» obbligano il re assoluto Ferdinando VII a concedere la Costituzione: una legge fondamentale che limita i poteri del re e concede ai cittadini i diritti civili e politici, compreso quello di votare per eleggere le principali autorità della nazione.
Il tragico 1821
Anche in Piemonte i malumori e le inquietudini si diffondono. Sono il frutto della Restaurazione ottusa. Gli
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uomini della Restaurazione, arretrati e senza idee, non sono riusciti a prendere atto dei cambiamenti irreversibili portati dalla Rivoluzione Francese. Le secolari gerarchie, gli ingiusti privilegi dei nobili sono ormai insopportabili. È’ assurdo nominare ministro delle Finanze un incapace solo perché è di famiglia nobile fedelissima al re. È’ sciocco e criminale demolire strade utilissime ai commerci solo perché le ha fatte costruire Napoleone.
3 marzo 1821. A Torino si diffonde la notizia che sono state intercettate lettere di «carbonari» piemontesi dov'è indicato un piano di rivoluzione. Carlo Felice, fratello del re, non dà peso alle notizie e parte per Modena, a far visita al duca suo suocero. E una mossa che peserà gravemente sull'avvenire di Carlo Alberto. Nessuno a Corte lo sa, ma numerose persone tra gli amici di Carlo Alberto hanno aderito a società segrete (Adelfia, Carboneria, Sublimi Maestri Perfetti...). Hanno due scopi: indipendenza dell'Italia dall'Austria e Costituzione. Nei primi mesi dell'anno, anche il principe ha avuto intense relazioni con gli associati piemontesi e lombardi. Una relazione della spia Carlo Castiglia permette di ricostruire i colloqui segreti di Carlo Alberto con il nobile Giuseppe Pecchio, rivoluzionario lombardo. Il principe non è e non sarà mai un «liberale», ma per salvare il trono ascolta le critiche dei rivoluzionari, e promette graduali riforme nella politica e nell'amministrazione. Gli ha dato l'imbeccata il conte de Maistre, fedelissimo al passato: «L'arte del principe è di regnare sulla rivoluzione e di soffocarla dolcemente abbracciandola». Ci vorrebbe però una mente fredda e lucida, e Carlo Alberto non ce l'ha. Saprà solo tentennare, esitare, dare mezza parola e rimangiarsela.
8 marzo. Carlo Alberto incontra Santorre di Santarosa, capo della congiura. Gli viene chiesto un appoggio esplicito. Il principe non si schiera né con loro né contro di loro.
10 marzo. In mattinata giunge notizia che Alessandria ha dato inizio alla rivolta. Carlo Alberto consiglia a Vittorio Emanuele I di concedere la Costituzione. Il re s'infuria con lui.
11 marzo. Una folla percorre le vie di Torino. Grida: «Viva la rivoluzione! Guerra all'Austria!». Ci sono anche dame dell'aristocrazia. Il re riunisce il consiglio della Corona. «Alcuni sono morti di paura», scrive la regina. Carlo Alberto rinnova l'invito a dare la Costituzione, il re sta per cedere. Ma arriva il Conte di S. Marzano con un messaggio dei sovrani di Austria, Prussia e Russia. Non tollereranno nessuna Costituzione. Un esercito di 60.000 uomini è pronto in Lombardia per intervenire in caso di cedimenti.
12 marzo. Tre colpi di cannone annunciano che la Cittadella è passata agli insorti. Tumulti davanti a Palazzo Reale. È’ la guerra civile? In serata il re annuncia che abdica in favore del fratello Carlo Felice (e si assegna un milione di lire annue - quattro miliardi del 1986 - come appannaggio per consolarsi nell'esilio). Durante l'assenza del nuovo re, Carlo Alberto avrà la reggenza. Il giovane principe non ne vuol sapere, ma a mezzanotte il re fa leggere l'atto di abdicazione. Mentre Vittorio Emanuele I si ritira con la famiglia a Nizza, Carlo Alberto (23 anni) si trova a dipanare la più intricata matassa che gli potesse capitare. Il giorno dopo due rivoluzionari si incontrano con lui e gli impongono di scegliere: o la Costituzione di Cadice o il bombardamento di Palazzo Reale. Dopo consultazioni febbrili, ansia, tentennamenti, il giorno 15 concede la Costituzione, giura di osservarla, ma aggiunge: «Giuro fedeltà al re Carlo Felice».
Due giorni dopo torna il cavaliere Costa, che il principe ha mandato a Modena a informare il re e a chiederne istruzioni. È’ avvilito. Carlo Felice, con occhi fiammeggianti, dopo aver letto la lettera di Carlo Alberto, gliel'ha gettata in faccia. E ha gridato: «Uscite!». Qualche ora dopo è stato riammesso alla sua presenza. Ha dovuto aspettare in piedi che il re, il duca e la duchessa di Modena e il cardinale Albani finissero una partita al tavolo da gioco. Poi Carlo Felice gli ha consegnato un proclama e gli ha gridato: «Dite al principe di Carignano che, se gli rimane ancora nelle vene una goccia del nostro sangue reale, deve partire per Novara e li attendere i nostri ordini». Il proclama annulla ogni atto del principe reggente (PINTO, cap. 11).
L'eroe del Trocadero
Carlo Alberto fa partire la moglie per Marsiglia, poi se ne va. I rivoluzionari tentano di fermarlo, lo chiamano traditore, ma lui se ne va. Prima a Novara, poi a Firenze, dove Carlo Felice gli ha fissato la sua sede dell'esilio. Un esercito austriaco, intanto, è penetrato in Italia e a Novara, l'8 aprile, ha sbaragliato le esigue schiere rivoluzionarie.
Nel 1821 Carlo Alberto, da perfetto romantico, aveva creduto fosse arrivata «la sua stella». Invece s'era inguaiato per sempre. Carlo Felice aveva deciso di escluderlo dalla successione. Ma l'Austria, consultata, aveva risposto che se il principe di Carignano era infido, più pericoloso era rinunciare al principio di legittimità. Il re, allora, ne pensò una delle sue: invitò Carlo Alberto a imbarcarsi per la Spagna e a combattere contro i rivoluzionari che avevano ottenuto la Costituzione dal re. «Così o si farà rompere la testa, e allora tutto sarà finito a suo riguardo, o si potrà mettere nelle condizioni di riparare in parte i suoi torti; poiché non v'è niente al mondo che m'imbarazzi più di quest'uomo» (PINTO, 127).
2 maggio 1823. Il principe di Carignano (facendosi coprire dagli insulti di tutti i liberali d'Europa) s'imbarca a Livorno per la Spagna, dove l'esercito rivoluzionario tiene prigionieri re e regina a Cadice.
Per liberare i monarchi, l'esercito legittimista deve dare l'assalto alle fortificazioni del Trocadero, che dominano la città. L'assalto avviene all'alba del 31 agosto. Racconta il fedele Silvano Costa: «Bisogna attraversare di corsa e allo scoperto un lungo tratto. Carlo Alberto è in testa, accanto all'alfiere. (...) È’ alla baionetta che massacriamo quei poveri spagnoli. (...) Infine conquistiamo la posizione» (PINTO, 133).
Quella battaglia, conclusa vittoriosamente, pose fine alla guerra di Spagna. Carlo Alberto fu insignito della croce di San Luigi. I granatieri gli offrirono le spalline di uno di loro, caduto nell'assalto. Episodio che fece entrare il principe nella leggenda dei salotti di Madrid e Parigi. La stampa francese lo ribattezzò «l'eroe del
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Trocadero». Ma la Gazzetta di Torino soppresse ogni accenno al principe di Carignano. L'antipatia di Carlo Felice continuava. Quella dei liberali di tutta l'Europa, invece, raggiunse il punto più alto. Da allora fu chiamato con disprezzo «il traditore del Trocadero».
Maggio 1824. Carlo Alberto rientra a Torino. Carlo Felice gli fa giurare solennemente di non apportare innovazioni alle leggi fondamentali della monarchia. Solo dopo quest'atto gli concede il titolo di «principe ereditario».
Nel biennio 1825-26 divampano fiammate rivoluzionarie in Portogallo, Polonia, Russia. La repressione è dovunque spietata. Carlo Alberto approva: «La giustizia dev' essere inflessibile», afferma. Nel 1826 licenzia un paggio di 14 anni perché «fa il giacobino».
Quel paggio si chiama Camillo Cavour.
Quando nel 1831 può mettere saldamente le mani sul trono, come primo atto respinge la richiesta di amnistia ai condannati del 1821: i liberali che aveva incontrato in colloqui segreti, con cui si era accordato. Rifiuta ormai ogni violenza dei rivoluzionari, le loro congiure. E convinto che un governo monarchico assoluto ma «il- luminato e temperato», con la sua stabilità può conciliare gli spiriti e garantire il massimo di benessere e di felicità. Ma cambierà ancora parere.
15. Anni fiorenti a Chieri
«Ho sempre avuto bisogno di tutti»
Al termine del mortificante anno scolastico di Castelnuovo, Giovanni Bosco decise, d'accordo con sua madre, di trasferirsi a Chieri. In questa cittadina, a dodici chilometri da Castelnuovo e a dieci da Torino, le scuole pubbliche erano molto serie. Erano addirittura un «distaccamento dell'Università di Torino».
La decisione era coraggiosa, anche perché a Chieri sarebbe cominciato il problema economico: Giovanni doveva pagare il minervale di lire dodici (= tassa scolastica), i libri e la pensione che si aggirava sulle venti lire mensili.
Scrivendo i ricordi raccolti a Castelnuovo «da vani testimoni oculari», nel 1888 don Marchisio scriverà: «Preparando il necessario corredo colle altre cose indispensabili in quel tempo per mandare un figlio agli studi, Bosco si accorse che la sua madre era non poco imbrogliata perché si trovava nelle strettezze. Onde un giorno le disse: se siete contenta io mi prendo due tasche e vado da ogni famiglia della borgata a fare una colletta. Margherita Bosco acconsentì e Giovanni andava di porta in porta chiamando per carità qualche cosa per poter andare a Chieri a studiare. Raccolse pane, frutta, melica, formaggi ed undici emine di grano (un'emina =23 litri): da vani poi ricevette anche qualche soldo. Certo Becchis Giovanni non potendogli dare altro gli condusse gratuitamente il corredo a Chieri» (DESR 424).
Era la prima volta che Giovanni Bosco tendeva la mano per chiedere la carità. Il suo amor proprio si ribellava a quell'umiliazione, ma lo vinse allora e sempre. Al termine della vita colui che fu definito «il più grande mendicante del 19° secolo», dirà: «Ho sempre avuto bisogno di tutti» (MB 1,367).
Subito dopo accettò l'aiuto della vedova Lucia Matta. Andò in pensione da lei. In cambio le prestava i piccoli servizi di casa e aiutava suo figlio negli studi. Mamma Margherita integrava il dovuto con granturco e frumento.
Nei primi mesi provò l'umiliazione più dura per un ragazzo sano e forte: la fame. Giuseppe Blanchard, un giovanottino come lui, se ne accorse e lo aiutò. Lo racconterà cinquant'anni dopo, quasi con vergogna: «Blanchard dice che sovente, avendo pane e frutta, gliene dava dicendo: Giovanin, prendi, che ti farà bene» (DESR 426).
La Società dell'Allegria
A Chieri Giovanni Bosco passò dieci anni della sua vita, dai 16 ai 26. Anni fiorenti, gagliardi, in cui esplose tutta la ricchezza della sua personalità. In un anno riuscì a frequentare tre classi. Nel secondo anno frequentò altri due anni di latinità, con votazioni brillanti. Diventò uno studente di prestigio, ricercato da molti. Ricorda: «Spiegavo ciò che non avevano capito, li mettevo in grado di superare le difficoltà più grosse. Mi procurai in questa maniera la riconoscenza e l'affetto dei miei compagni. Cominciarono a venire a cercarmi durante il tempo libero per il compito, poi ad ascoltare i miei racconti, e poi anche senza nessun motivo, come i ragazzi di Morialdo e di Castelnuovo» (Memorie, 38).
Per la prima volta (e lo farà per tutta la vita) appena si trova circondato da tanti giovani, Giovanni Bosco sceglie i migliori e fonda un gruppo, una società che non si apparti dagli altri, ma diventi l'anima buona, il lievito dell'ambiente in cui vivono. Ricorda:
«Formammo una specie di gruppo e lo battezzammo Società dell'Allegria. Il nome fu indovinato perché ognuno aveva l'impegno di organizzare giochi, tenere conversazioni, leggere libri che contribuissero all'allegria di tutti. Era vietato tutto ciò che produceva malinconia, specialmente la disubbidienza alla legge del Signore.(...) Mi trovai così alla testa di un gran numero di giovani» (Memorie, 38).
Quattro sfide al saltimbanco
Il «momento magico», la Società dell'Allegria lo visse mentre Giovanni frequentava l'ultimo anno di latinità. Gli capitò (quasi senza volerlo) di trovarsi ingolfato in una gara che a Chieri fece epoca. Vi assistette molta gente, tra cui il campanaro del duomo, Domenico Pogliano, che la narrava ancora tanti anni dopo. Ma chi la narrò più
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di tutti fu il protagonista, don Bosco, che ne fece uno dei «pezzi forti» dei suoi racconti ai ragazzi. Ecco come la racconta nelle sue Memorie:
«Arrivò a Chieri un saltimbanco che iniziò i suoi spettacoli con una poderosa corsa a piedi: percorse la città dà un'estremità all'altra in due minuti e mezzo, cioè alla velocità di un treno. Alcuni miei amici me ne parlarono con occhi dilatati, come di un fenomeno.
Senza badare alle conseguenze delle mie parole, dissi che avrei dato chissà che cosa per provare a batterlo. Un compagno impudente riferì la cosa al saltimbanco, che accettò immediatamente la sfida. Per Chieri si sparse in un lampo la notizia: Uno studente sfida un campione professionista.
Il luogo scelto per la prova fu il viale di Porta Torinese. La scommessa era di venti lire. Io non avevo una somma simile, ma molti amici della Società dell'Allegria la misero insieme.
Una moltitudine di gente venne ad assistere alla sfida.
Al via, il saltimbanco mi prese alcuni metri di vantaggio ma presto riguadagnai il terreno perduto, e lo staccai in modo clamoroso. A metà corsa si fermò e mi diede partita vinta.
- Chiedo la rivincita al salto. Ma voglio scommettere 40 lire, e anche più se vuoi.
Accettammo. Scelse lui il luogo. Bisognava balzare al di là di un fosso contro un parapetto che si ergeva vicino a un piccolo ponte. Saltò per primo, e mise il piede così vicino al parapetto, che più in là non si poteva saltare. Potevo perdere, non certo vincere. Tuttavia studiai un espediente. Feci un salto identico al suo, ma appoggiando le mani sul parapetto, prolungai il salto al di là del muro (un rudimentale "salto con l'asta"). Fui sommerso dagli applausi.
- Voglio lanciarti ancora una sfida. Scegli qualunque gioco di destrezza.
Accettai. Scelsi il gioco della bacchetta magica, con la scommessa che saliva a lire 80. Presi una bacchetta, a una estremità misi un cappello, poi appoggiai l'altra estremità sulla palma della mano. Senza toccarla con l'altra, la feci saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del pollice. Quindi la feci saltare sul dorso della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte. Rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta tornò sulla palma della mia mano.
- Stavolta non perderò - disse con sicurezza -. E ‘il mio gioco preferito.
Prese la medesima bacchetta, e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra. Ma aveva il naso troppo lungo, la bacchetta vacillò, perse l'equilibrio e dovette prenderla con la mano per non lasciarla cadere.
Quel poveretto vedeva andare in fumo tutti i suoi risparmi, e quasi furioso esclamò:
- Accetto qualunque umiliazione, ma non quella di essere battuto da uno studente. Ho ancora cento lire e le scommetto tutte su un'arrampicata. Vincerà chi riesce a mettere i piedi più vicini alla punta di quell'albero. Così dicendo indicò un olmo vicino al viale. Accettammo anche questa volta; e in un certo modo eravamo contenti di perdere, perché avevamo compassione di lui. Non volevamo rovinarlo.
Salì per primo, e portò i piedi tanto in alto che, se fosse salito una spanna di più, l'albero si sarebbe piegato e lui sarebbe precipitato. Tutti dicevano che più in su era impossibile.
Toccò a me. Salii fin dove era possibile senza far piegare la pianta. Allora, tenendomi con le mani all'albero, alzai il corpo in verticale, e posi i piedi circa un metro oltre l'altezza raggiunta dal mio rivale. Giù in basso scoppiarono gli applausi.
I miei amici si abbracciavano di gioia, il saltimbanco era nero di rabbia, e io ero orgoglioso di aver vinto non contro ragazzi come me, ma contro un campione professionista.
Quell'atleta però era triste fino a piangere. Abbiamo avuto compassione di lui, e gli abbiamo restituito il denaro a una condizione: che venisse a pagarci un pranzo all'albergo del Muletto.
Si sentì rivivere e accettò immediatamente. Andammo al pranzo in 22: tutti i componenti della Società dell'Allegria. Il pranzo gli costò 25 lire. Le lire che invece poté rimettersi in tasca furono 215.
Quello fu veramente un giovedì di grande allegria. Io mi ero coperto di gloria battendo quattro volte un saltimbanco. I miei compagni avevano condiviso il mio trionfo con vivissima gioia, e avevano avuto un ottimo pranzo. Anche il saltimbanco era contento,
perché aveva riavuto tutto il suo denaro. Allontanandosi da noi ci ringraziò dicendo:
- Ridandomi questo denaro, avete impedito la mia rovina. Vi ringrazio di cuore. Vi ricorderò con piacere, ma non farò mai più scommesse con gli studenti» (Memorie, 58-60).
16. La domanda decisiva
«Alla Pace non troverai la pace»
Il diciottenne Giovanni Bosco si è fatto un esercito di amici e sta riportando voti splendidi. Ma ora deve dare una risposta alla domanda decisiva: «Che cosa farò della mia vita?». Il sogno dei 9 anni gli ha indicato un traguardo: diventare sacerdote. Ma per diventarlo occorre ancora un anno di scuola pubblica, poi entrare in seminario e compiere altri 6 anni di studi ad alto livello. Studi impegnativi e costosi. E lui non se la sente di dire a sua madre, che risparmia sull'unghia per far quadrare il bilancio: «Mantieni-mi ancora per sette anni». Dopo aver pensato a lungo, domanda di essere accettato tra i Francescani di Chieri. Viene accettato il 28 aprile 1834. Mentre prepara i documenti per entrare al convento di S. Maria della Pace, in Chieri, fa un sogno strano. Si sente dire: «Alla Pace non troverai la pace» (VBP, 57). Giovanni ha ormai capito che per lui i sogni non sono un elemento trascurabile, e rimane perplesso. Alla prima occasione va a Torino, e chiede consiglio
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a don Cafasso. Ha solo 23 anni, questo pretino casteinovese mezzo gobbo, ma è già considerato uno dei migliori «consiglieri spirituali» della capitale. Ascolta Giovanni che gli parla appassionatamente del suo problema, poi con calma gli traccia la strada da seguire: frequenterà l'ultimo anno di scuola pubblica, entrerà in seminario e non dovrà più tormentarsi per il denaro. D'ora innanzi ci penserà la Provvidenza. Non si tratta solo di «pie esortazioni»: dalla piccola stanza dove prega come un angelo, dal confessionale dov'è ricercato come un sapiente «direttore d'anime», don Cafasso sta tessendo una rete di benefattori che in silenzio fanno il bene che quel pretino indica loro.
Giovanni obbedisce e ritrova la calma. La ritroverà tante volte dopo aver parlato con quel piccolo prete. Nell'estate del 1835, mentre Giovanni si prepara a entrare in seminario, infuria il colera. L'epidemia minaccia ogni centro abitato. Si è sviluppata con violenza a Genova, a Saluzzo e a Cuneo, dove ha colpito un sesto della popolazione. Il figlio del governatore di quest'ultima città, con involontario e tragico umorismo, scrive: «Qui non si fa altra vita che morire» (PINTO, 231).
Giovanni Bosco entrò nel seminario di Chieri il 30 ottobre. In «tempo massimo». Appena sei giorni dopo, a Castelnuovo la sua «leva» sorteggiava i numeri per il servizio militare. Chi sorteggiava un numero basso doveva prestare un lungo servizio militare. Giovanni Bosco sorteggiò il numero 41. Andò alla visita militare ad Asti. Ma per chi era entrato in seminario a questo punto scattava l'esenzione. Nel comune di Castelnuovo una cartella certifica ancora oggi: «Bosco Gio. Melchior esentato dalla formazione al contingente, come chierico richiamato da monsignor vescovo».
Cinque giorni per martellare un'idea
Giovanni aveva camminato a lungo per le colline della sua terra, s'era arrampicato sugli alberi, aveva respirato a pieni polmoni l'aria libera per vent'anni. Sentì una stretta al cuore quando si vide chiuso tra le quattro mura del seminario: un quadrato severo, come una fortezza dai muri incombenti, in cui avrebbe dovuto vivere per sei anni.
Quella sera stessa, allineati nei banchi massicci della cappella, i seminaristi cantarono l'antica invocazione allo Spirito Santo, Veni, creator Spiritus, e. iniziarono cinque giorni di Esercizi spirituali: silenzio rigoroso spezzato dalla Messa e da quattro prediche quotidiane. In esse fu detto, ripetuto, quasi martellato lo scopo per cui quei giovanotti cominciavano il seminario: avrebbero speso la vita non per una carriera comoda e tranquilla, ma per essere Gesù tra la gente. Gesù aveva portato alla gente la Parola di Dio, aveva invitato tutti a pensare meno alla terra e più al cielo. Era passato di paese in paese per convincere tutti a guarire dal peccato, dall'egoismo, dalla prepotenza, dalla sensualità: i grandi mali che crescono nel cuore e portano alla rovina. Aveva dimostrato un amore di predilezione per i piccoli, i malati, i poveri. Aveva dato la vita in croce per aprire le porte del Paradiso. Diventare prete voleva dire assumere questo stesso programma. Un prete, qualunque prete, doveva far rivivere Gesù tra la gente.
Immerso nel silenzio, Giovanni pregò di poter essere Gesù tra i giovani.
«Gli intimò di tornare tra i monelli»
La meta dell'apostolato tra i ragazzi abbandonati fu sempre «chiara e radiosa» per Giovanni Bosco durante gli anni di Chieri?
Forse no. Forse alla sua mente il sogno fatto da bambino cominciò a scolorire. Fu tentato di considerarlo un episodio senza troppo significato, di fronte alle possibilità concrete che la vita gli spalancava davanti.
C'è un indizio. È nella ripetizione variata del sogno che egli fece proprio in quegli anni. Lo testimoniò Giovanni Cagliero, uno dei primi ragazzi di don Bosco, che lo aveva ascoltato dalle sue labbra:
«Aveva visto la valle sottostante alla cascina del Sussambrino convertirsi in una grande città, nelle cui strade e piazze scorrevano turbe di fanciulli schiamazzando, giocando e bestemmiando. (...)Di carattere pronto e vivace, si avvicinò a questi ragazzi, sgridandoli perché bestemmiavano e minacciandoli se non avessero cessato; ma non desistendo essi dal vociare terribili insulti contro Dio e la Madonna Santissima, Giovanni prese a percuoterli. Se non che gli altri reagirono e, correndogli sopra, lo tempestarono di pugni. Egli si diede alla fuga; ma in quella ecco venirgli incontro un Personaggio, che gli intimò di fermarsi e di ritornare a quei monelli. (...)» (MB 1,424-5). Le sottolineature sono mie.
Anche i santi, come noi, hanno avuto momenti di smarrimento e tentazioni di viltà.
17. Luigi Comollo: «Io sono salvo!»
«Deve arrivare uno studente santo».
Negli anni di Chieri (fuori e dentro il seminario) Giovanni fu segnato in maniera incancellabile dall'amicizia di Luigi Comollo. Fu la prima persona di cui sentì il bisogno di scrivere la vita.
Stava frequentando le scuole pubbliche ed era in pensione presso Giacomo Marchisio, quando sentì dire dal padrone: «Deve arrivare uno studente santo». Giovanni si mise a ridere. «Invece è proprio così - ribatté seccato il signor Giacomo. - È il nipote del parroco di Cinzano. Vedrai».
Veramente Giovanni lo stava vedendo da alcuni giorni. Ma non ci aveva fatto caso. Ed ecco, nelle parole esatte di don Bosco, come venne a conoscerlo. (Incontrare la lingua di don Bosco, per me, è come trovare un fiore delicato tra le pagine di un libro antico).
«È consueto costume degli studenti di passare il tempo d'ingresso in ischerzi, in giochi, e salti pericolosi (...).
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A ciò pure era invitato il modesto giovanetto; ma esso si scusava sempre con dire che non era pratico, non aveva destrezza. Nulla di meno un giorno un suo compagno gli si avvicinò, e colle parole e con importuni scuotimenti voleva costringerlo a prender parte a quei salti smoderati che nella scuola si facevano. "No, mio caro, dolcemente rispondeva, non sono esperto, mi espongo a far brutta figura". L'im-pertinente compagno, quando vide che non voleva arrendersi, con insolenza intollerabile gli diede un gagliardo schiaffo sul volto. Io raccapricciai a tal vista, e siccome l'oltraggiatore era di età e di forze inferiore all'oltraggiato, attendevo che gli fosse resa la pariglia. Ma l'offeso aveva ben altro spirito: egli rivolto a chi l'aveva percosso, si contentò di dirgli: "Se tu sei pago di questo, vattene in pace che io ne sono contento". Questo mi fece ricordare di quanto avevo udito, che doveva venire alle scuole un giovanetto santo, e chiestone la patria e il nome, conobbi essere appunto il giovane Luigi Comollo, di cui avevo sì lodevolmente inteso parlare alla pensione» (OP ED, 35,22s).
Giovanni fu impressionatissimo. Lui, quell'impertinente «oltraggiatore» l'avrebbe sbranato. Ogni ingiustizia gli accendeva il sangue. Avvicinò Luigi, gli parlò, divennero amici. Nelle sue Memorie scrive: «Posso dire che da lui ho cominciato a imparare a vivere da cristiano». Un'affermazione quasi incredibile per il figlio di Margherita.
«La tua forza mi spaventa»
Istintivamente divenne il protettore di Luigi contro i ragazzi grossolani e violenti. Un giorno, a scuola, volevano umiliare e picchiare Luigi e Antonio Candelo, un altro bravo ragazzo. Giovanni gridò di lasciarli in pace. Ma erano in tanti: mentre alcuni facevano muro davanti a lui, altri cominciarono a menare schiaffi. Giovanni perse il lume degli occhi, si fece largo a suon di pugni, afferrò uno degli assalitori per le spalle e se ne servì come di un bastone per disperdere gli altri. In quel momento entrò il professore, e vedendo quel groviglio di braccia e di gambe cominciò a menare schiaffi anche lui «per riportare ordine».
Ad essere impressionatissimo, questa volta fu Luigi. Disse a Giovanni: «La tua forza mi spaventa. Dio vuole che perdoniamo, che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male». Giovanni aveva letto queste parole nel Vangelo, e se le era sentite dire perfino in sogno. Ma gli sembravano un'esagerazione. Come gli sem- brava un'esagerazione la maniera di pregare di Luigi.
Anche lui, Giovanni, pregava. Andava tutte le mattine a servire la Messa in Duomo, prima di recarsi a scuola. Ma Luigi era un'altra cosa.
«Alcune mie circostanze vollero che per più mesi mi recassi al Duomo appunto nell'ora in cui il nostro Luigi vi si recava a trattenersi col suo Gesù. (...) Ponevasi in qualche canto presso l'altare quando poteva, ginocchione, colle mani giunte; col capo mediocremente inclinato; cogli occhi bassi, e tutto immobile nella per- sona; insensibile a qualsivoglia voce e rumore. Non di rado mi avveniva che, compiuti i miei doveri, voleva invitarlo a venire meco per essere da lui accompagnato a casa. Pel che aveva un bel far cenno col capo, passandogli vicino, o tossire, perché egli si muovesse; era sempre lo stesso, finché io non mi accostava scuotendolo. Allora, come risvegliato dal sonno, si muoveva, e sebbene a malincuore aderiva al mio invito» (o. c., 32).
Questi atteggiamenti sbalordivano Giovanni, poi cominciarono a turbarlo. Capiva che non erano stranezze: sotto c'era una grande ricchezza spirituale. Luigi gli rivelava orizzonti nuovi, fin'allora insospettati: il semplice abbandono in Dio, il rifugiarsi nei valori eterni dando importanza relativa alla vita terrena. Giovanni, che si è arrampicato sugli alberi della cuccagna, ha sfidato i saltimbanchi, ha gustato gli applausi degli amici, si sente dire da Luigi le parole antiche (e a lui sembrano nuove in quel tono che le dice): «Che importa guadagnare anche tutto il mondo, se poi si perde l'anima?».
La mano del Signore
In seminario, Luigi Comollo entra nell'ottobre 1836. Giovanni se lo ritrova accanto. Si ricostruisce la coppia fissa, 1 amicizia inossidabile.
Ma mentre Giovanni pensa al suo avvenire di prete, al bene che farà alla gente e ai ragazzi, Luigi è in un'atmosfera diversa. Un giorno del 1838 sono usciti a passeggio, e guardano dall'alto di una collina i campi bruciati dalla siccità. Giovanni pensa alla pena dei contadini.
«- Vedi, Luigi, - presi a dirgli - che scarsezza di raccolti abbiamo quest'anno! Poveri contadini! Tanto lavoro e quasi tutto invano!
- È la mano del Signore - egli rispose - che pesa sopra di noi» (o.c., 61).
Durante la meditazione del mattino, Giovanni lo vede leggere e rileggere lo stesso libro. Gli domanda che libro sia. Si sente rispondere:
«Quest'anno lessi sempre in cappella meditazioni sull'inferno, le ho già lette e le leggo di nuovo, e benché triste e spaventosa ne sia la materia, tuttavia vi voglio persistere, affinché considerando l'intensità di quelle pene, mentre vivo, non le abbia a sperimentare dopo morte» (o.c., 69).
Marzo 1839. La salute di Luigi crolla di colpo. La febbre è altissima. Non ci sono speranze. Giovanni è accanto a lui in infermeria. Luigi gli dice:
«Eccoci, o caro amico, eccoci al momento, in cui abbiamo per alcun tempo a lasciarci. Noi pensavamo di confortarci nelle vicende della vita, aiutarci, conciliarci in tutto quello che ci avrebbe potuto giovare alla nostra eterna salvezza. Non era scritto così nei san-ti e sempre adorabili voleri del Signore. (...) Ma prima di lasciarci ascolta alcuni ricordi di un tuo amico. (...) Non sai ancora se brevi o lunghi saranno i giorni di tua vita; ma checché ne sia sull'incertezza dell'ora della morte, n'è certa la venuta; perciò fa' in maniera, che tutto il tuo
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vivere altro non sia che una preparazione alla morte, al giudizio. (...)Se poi sarai chiamato dal Signore a divenir guida delle anime altrui, inculca mai sempre il pensiero della morte, del giudizio» (o.c., 83s).
La notte indimenticabile
Luigi muore all'alba del 2 aprile. Non ha ancora compiuto 22 anni. Ed ecco, dalle parole di don Bosco, che cosa avviene nella notte sul 4 aprile.
«Nelle nostre amichevoli relazioni avevamo pattuito fra di noi (...) che colui, il quale per primo fosse chiamato all'eternità, avrebbe portato al superstite notizie dell'altro mondo. Più volte abbiamo la medesima promessa confermata. (...) Nel corso della malattia del Comollo si rinnovò più volte la medesima promessa, e quando egli venne a morire se ne attendeva l'adempimento, non solo da me, ma eziandio da alcuni compagni che ne erano informati.
Era la notte del 4 aprile, notte che seguiva il giorno della sua sepoltura, ed io riposava cogli alunni del corso Teologico (...). Ero a letto, ma non dormiva e stava pensando alla fatta promessa (...). Quando, sullo scoccare della mezzanotte, odesi un cupo rumore in fondo al corridoio. (...) Non saprei esprimermi se non col dire che formava un complesso di fragori così vibrati e in certo modo così violenti da recare spavento grandissimo. (...) I Seminaristi di quel dormitorio si svegliano, ma niuno parla. (...)Si apre da sé violentemente la porta; continua più veemente il fragore senza che alcuna cosa si veda, eccetto una languida luce (...).Ad un certo momento si fa improvviso silenzio, splende più viva quella luce, e si ode distintamente risuonare la voce del Comollo che, chiamato per nome il compagno tre volte consecutive, dice:
- Io sono salvo!
(...) Il cessato rumore di bel nuovo si fa udire (...) ma tosto cessò ed ogni luce disparve. I compagni balzati dal letto fuggirono senza saper dove; si raccolsero alcuni in un angolo del corridoio, si strinsero altri intorno al prefetto di camerata, che era D. Giuseppe Fiorito di Rivoli; tutti passarono la notte, aspettando il sollievo della luce del giorno.
Io ho sofferto assai e fu tale il mio spavento, che in quell'istante avrei preferito morire» (o.c., 105-7).
Quelle parole «Bosco, io sono salvo!», risuoneranno per tutta la vita nella mente di don Bosco. La teologia che il chierico Giovanni Bosco studiava in quegli anni metteva ogni cosa «sotto la luce del conto da rendere al giudice divino, nell'attesa della vita o della morte eterna» (ST 1,61). Ma io sono convinto che la familiarità con Luigi Comollo e quelle parole risuonate in una notte di aprile, furono per Giovanni Bosco un marchio indelebile più di ogni libro di studio. L'affermazione: «Da lui ho cominciato a imparare a vivere da cristiano» acquista un senso preciso. Significa: «Ho imparato da lui a mettere la salvezza eterna al di sopra di tutto, a considerarla come l'unica cosa veramente importante».
Don Bosco tornerà a fare i giochi di prestigio, a correre in allegria per i prati con i suoi ragazzi. Ma dirà loro mille volte: «Se salvi l'anima salvi tutto. Se perdi l'anima perdi tutto». E indicherà nella tranquillità della coscienza, nell'essere sempre pronto a presentarsi davanti al Giudice divino la radice della contentezza, della vera e profonda allegria.
Ai giovani che nel giorno del suo onomastico avevano cantato e recitato in suo onore (era il 24 giugno 1868) rivolse parole d'affetto, domandò di aiutarlo a fare del bene e concluse dicendo che «l'unico scopo dell'Oratorio è di salvare anime» (MB 9,295).
All'ex re di Napoli Francesco Il, esule a Roma, che l'invitò a Palazzo Farnese e gli domandò se poteva sperare di tornare sul trono, rispose: «Maestà, pensiamo ad acquistare il regno di Dio! (...)Le cose di questo mondo se si perdono oggi, domani si possono riacquistare. Ma perduta una volta l'anima, tutto è perduto e per sempre».
18. Don Cocchi, il prete insultato
Un prete ogni 137 abitanti
Il 5 giugno 1841 Giovanni Bosco è ordinato prete dall'arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni. Diventa «don Bosco». Un giovane prete che cerca la sua strada.
Non è un modo di dire. Secondo una statistica del 1838, a Torino, su 117.072 abitanti, ci sono 851 preti: uno ogni 137 persone. Troppi. Diventare prete, in quel tempo, significa rischiare la disoccupazione. La preoccupazione di tanti giovani preti è quella di cercare un posto, di iniziare una carriera. Tanti di questi preti ("rendo le notizie dalle prediche di don Cafasso) non chiedevano nemmeno il permesso di confessare e di predicare. Diventavano «preti di famiglia» (una specie di decoro delle famiglie cristiane benestanti) o insegnanti, o impiegati comunali. Molti (ed era di questi che si lamentava don Cafasso) si davano alla politica e alla vita dei caffè, tra bicchierini e pettegolezzi.
Don Bosco, diventato prete, che farà? Vuol dedicarsi ai giovani poveri e abbandonati, ma essi non sono lì sulla porta ad aspettarlo. Come capita in quel tempo, alla sfornata di un prete bravo e povero, gli amici si danno da fare per trovargli «un buon posto». Una famiglia di nobili genovesi lo chiede come istitutore e offre uno stipendio di L.1000 annuali. A Morialdo lo vogliono cappellano: il signor Spirito Sartoris ha legato alla cappellania una rendita annua di L.800. (È forse interessante fare un confronto con gli stipendi correnti in quegli anni. A Carmagnola, grosso paese vicino a Torino, un professore di grammatica ha un reddito annuo di L.640. Nel 1845, a Torino, un filatore o un tessitore di cotone guadagna L.188 l'anno, un tintore raggiunge L.322, un muratore L.500. Nel 1850 gli impiegati «applicati» - i meno retribuiti - avranno a Torino uno
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stipendio oscillante tra le 500 e le 2400 lire).
Gli interventi a favore di don Bosco sono caratterizzati dalla preoccupazione di procurargli un dignitoso stipendio, che deve ricompensare i disagi affrontati da lui e dalla famiglia. Solo mamma Margherita, la donna che ha sempre spaccato in due il centesimo per mettere insieme il pranzo con la cena, gli dice parole dure: «Se per sventura diventerai ricco, non metterò mai più piede a casa tua» (MB 1,296). Questa vera cristiana capisce che se il suo Giovanni sfrutterà il posto di prete per diventare ricco, sarà un fallito.
Per troncare ogni tentennamento, don Bosco va a Torino da don Cafasso, e gli domanda: «Cosa devo fare?». Quel pretino che ha appena quattro anni più di lui gli risponde: «Lasciate tutto. Venite qui al Convitto a imparare a fare il prete».
Nemmeno questo è un modo di dire. Chi esce dal seminario difficilmente sa fare il prete per quel tempo nuovo e difficile che sta cominciando.
Torino è una città che sta scoppiando: quartieri nuovi, gente nuova, problemi nuovi.
È in arrivo il Risorgimento, con le guerre d'Indipendenza, ma soprattutto è in arrivo la «rivoluzione industriale», rotolata giù lentamente dall'Inghilterra e dalla Francia.
Il tempo del capitale e dei proletari
Occorre spendere qualche parola su questa rivoluzione, «uno dei più grandi e radicali cambiamenti che si sono verificati nella storia umana» (C. M. Cipolla).
Alla fine del 1700 cominciò ad esistere la fabbrica.
Prima la gente coltivava i campi, faceva il commerciante, esercitava un mestiere artigiano (fabbricava scarpe, tesseva stoffe...). Nell'Inghilterra del 1700 la tessitura della lana era un'attività molto diffusa tra gli artigiani; molte famiglie avevano in casa un filatoio o una macchina per tessere, e vi lavorava tutta la famiglia.
Nel 1769, a Glasgow, James Watt brevetta la «macchina a vapore». Un avvenimento che li per li sembra di scarsa importanza e che invece rivoluzionerà il mondo. Una sola macchina di Watt (potenza 100 cavalli vapore) sviluppa una forza pari a quella di 880 uomini. Una filanda, adottandola, può mettere in azione con- temporaneamente 50 mila fusi, e produrre tanto filo quanto ne avrebbero prodotto 200 mila uomini. Per badare a 50 mila fusi bastano 750 lavoratori.
La produzione così facilitata abbassa di colpo il prezzo dei filati, e ne sviluppa enormemente il mercato. Contemporaneamente c e un enorme incremento nella utilizzazione del ferro (per la fabbricazione delle macchine e il trasporto delle merci su ferrovia) e nella estrazione del carbon fossile (che permette il funzionamento delle macchine a vapore e la lavorazione del ferro).
Questo insieme di avvenimenti mette in crisi gli artigiani, che si trovano di colpo senza lavoro. Una valanga di gente si rovescia dalle campagne verso la città. Nascono le fabbriche, cioè grandi capannoni sotto cui sono piazzate le macchine che i lavoratori devono accudire. Non sono più i lavoratori ad avere nella loro casa la macchina da lavoro, sono le macchine a radunare nelle proprie «case» i lavoratori. E questi finiscono per portare le proprie famiglie attorno alla fabbrica, per essere vicini al posto di lavoro.
La nascita e lo sviluppo delle fabbriche viene chiamata «rivoluzione industriale».
Essa portò alla gente, a lungo andare, un progresso materiale enorme: macchine, strade, viaggi, comodità... Ma nei primi 150 anni questo benessere fu pagato dai lavoratori ad un prezzo disumano, sanguinante.
Nelle città incominciò a formarsi una classe nuova, quella degli operai o dei proletari, così chiamati perché non possedevano più niente (né campi, né casa, né macchine) eccetto due cose: le proprie braccia e i propri figli (chiamati prole). Questi figli, anche piccolissimi, erano portati in fabbrica dal padre e dalla madre, e dovevano «rendere» lavorando come potevano, poiché la famiglia non aveva altri mezzi per campare. Sfruttati più delle bestie (la giornata lavorativa può arrivare a 18 ore), i proletari capiscono che devono unirsi, per trattare coi padroni da pari a pari. Ma i padroni (in base a una dottrina economica chiamata «liberismo») ottengono dai governi la proibizione delle «unioni operaie», e ottengono che venga considerato un delitto lo «sciopero». L'affermazione principale dei liberisti è questa: «Negli affari, lo Stato non deve entrarci». È un'ipocrisia grande come una montagna, è la legge della giungla. Il padrone, ricchissimo, può permettersi di chiudere la fabbrica e di condannare così a morte i suoi lavoratori. I lavoratori, per non morire di fame, sono costretti ad accettare anche le paghe più avvilenti. Se poi si uniscono per difendere i loro diritti, o dichiarano lo sciopero, lo Stato (che non dovrebbe entrarci, secondo i liberisti) deve intervenire proibendo le unioni operaie e sparando sugli scioperanti.
Il 16 agosto 1819, 60 mila lavoratori invadono le vie di Manchester per protestare contro la vita impossibile. La polizia li disperde facendo fuoco sui dimostranti.
Nel novembre del 1831 i lavoratori della seta di Lione, in Francia, si sollevano contro le 18 ore di lavoro giornaliere. Marciano per le strade gridando: «Vivere lavorando o morire combattendo». Sono dispersi a cannonate: 800 uccisi.
Solo tra il 1866 e il 1906 i governi europei riconosceranno il diritto degli operai ad unirsi in «associazioni» (= sindacati). Negli stessi anni, in molti Paesi, lo sciopero cesserà di essere considerato un delitto. A Milano, ancora nel 1898, uno sciopero generale verrà stroncato con i cannoni: 80 morti e 300 feriti.
Fabbriche di armi in riva alla Dora
A Torino la rivoluzione industriale arriva negli stessi anni in cui arriva don Bosco. Nascono le prime fabbriche, notevoli quelle di armi e di divise militari in riva alla Dora. Con lo sviluppo delle fabbriche (e dei cantieri edilizi)
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lo sviluppo della popolazione è rapidissimo.
Nei quartieri di periferia che si allargano a vista d'occhio, vengono ad abitare settemila nuove famiglie. Sono famiglie misere, venute dalla campagna e dalle valli montane a «cercare fortuna»; ragazzi e adulti malnutriti, sudici, malvestiti, in pessime condizioni igieniche. All'interno della città non sono graditi se non per lavori provvisori. La «fortuna» cercata è sovente una vita di stenti e un'elevata mortalità.
La periferia nord (specialmente Borgo Dora, accanto a Valdocco e al Martinetto) intorno al 1850 raddoppia la popolazione e la miseria. Diventa la «cintura nera» dove scoppia regolarmente il colera ogni due o tre anni. Il 4OWo di questa gente è analfabeta. E questo non vuol dire che non è capace di leggere i Promessi
sposi, ma che non è in grado di leggere un contratto di lavoro, di controllare i conti del padrone e del panettiere, di capire i propri diritti e difendersi da condizioni disumane.
La «fabbrica dei preti nuovi»
Il Convitto per giovani preti è stato fondato presso la chiesa di S. Francesco d'Assisi. Prepara sacerdoti degni e pronti ai tempi nuovi per la diocesi di Torino. Non pronti alle novità politiche, ma alla formazione cristiana della gente che sta piovendo in città.
Don Bosco arriva al Convitto nei primi giorni del novembre 1841.
In quei mesi la città, e specialmente i nuovi preti, parlano di don Giovanni Cocchi. È’ un prete popolano. Come capita a tutti quelli che tracciano strade nuove, è segno di contraddizione: di lui si dice tutto il bene e tutto il male possibile.
Il ragazzino di Druent
Nato due anni prima di don Bosco a Druent, un paesino della cintura torinese, Giovanni Cocchi aveva accompagnato da ragazzetto sua mamma che veniva a far la serva in città. Abitavano in una casa poverissima nella zona dell'Annunziata, vicino al Po.
Una sera che non avevano pane, Giovanni andò a domandare l'elemosina al parroco. Il prete fu così colpito dalla sua intelligenza e bontà, che lo mise a studiare.
Giovanni Cocchi diventa prete nel 1836. Suo padre è già morto. Sua madre, consumata dalla fatica, muore l'anno dopo. Nessuno riuscirà mai a cancellare dalla mente e dal cuore di don Cocchi i poveri.
Comincia come viceparroco all'Annunziata e normalmente torna a casa tardi, senza calze e senza camicia, perché le ha date a gente miserabile. Anche l'orologio passa molte volte dalle sue mani a quelle dei bisognosi. Una sera il suo parroco, don Fantini, preoccupato della «dignità sacerdotale» del suo giovane viceparroco, gli domanda seccamente l'ora. Don Cocchi rimane mortificato a capo chino. «Anche questa volta l'hai dato via! Quando ti correggerai di questa tua mania?». Forse chi deve correggersi è chi sta parlando, ma don Cocchi non osa certo dirlo.
Vedendo che molti vecchi muoiono soli nelle soffitte, don Cocchi apre un ospedaletto in Borgo Vanchiglia. È’ subito affollato. Ma il prete di Druent (e sarà sempre così) non sa organizzare la beneficenza. È’ un impulsivo che davanti alla miseria dà tutto e crede che tutti debbano fare come lui. Non riesce a capire l'egoismo della gente, non lo capirà mai. Per questo comincerà molte opere di bene confidando nell'aiuto di tutti. Ma l'aiuto non verrà, e dovrà mestamente chiuderle.
Dopo poco tempo, l'ospedaletto chiude. Intanto però don Cocchi ha scoperto un'altra miseria: le fanciulle orfane e abbandonate, e cerca di radunarle. È’ facile dir male di un prete giovane che raduna fanciulle abbandonate, e le male lingue si mettono d'impegno. Don Cocchi ne è così irritato che decide di partire missionario per l'America. Ma a Roma, dove è arrivato nel 1839, cambia parere. Vede un oratorio per ragazzi presso la Bocca della Verità, si domanda perché a Torino non ci sia niente di simile, e torna nella sua città.
Ci sono «poveri e derelitti fanciulli che gironzolano scioperati e senza istruzione alcuna per le vie e per le piazze». C'è specialmente la zona malfamata del Moschino. Le case del Moschino sono umide, sporche, anguste, prive di ogni misura igienica. Ogni malattia contagiosa trova tra quelle case uno sviluppo spavento- so. «È difficile dire del Moschino tutto il male che si merita - scrive A. Viriglio -. Agglomerato più di covili di belve che di abitazioni umane, ricetto a banditi della peggiore specie, nido di una "coca" temuta, pericoloso di giorno e inaccessibile di notte persino alla polizia, che vi penetra di rado e solo con formidabili armamenti» (cf ST 3,71).
Dentro il Moschino, nel 1840, presso un'osteria, don Cocchi fonda il primo oratorio torinese. Non osa chiamarlo «oratorio» (nome troppo clericale). Lo chiama in piemontese «i saut» (= i salti). Messa e catechismo in parrocchia, poi, presso l'osteria, teatrino, ginnastica e specialmente le gare di salto, che tanto entusiasmano i ragazzi.
L'anno dopo (1841, lo stesso in cui don Bosco è ordinato prete) don Cocchi trasporta l'oratorio in Borgo Vanchiglia, sotto una tettoia messagli a disposizione da un avvocato. Nel cortile rustico tira su una cappella che serve anche da teatrino. Lo chiama «Oratorio dell'Angelo Custode», e durerà fino al 1849.
Il futuro di don Cocchi
Negli anni seguenti, continuando la sua attività vulcanica, don Cocchi ne indovinò molte, qualcuna la sbagliò. Lo sbaglio più grosso lo fece conducendo i più grandi del suo oratorio a partecipare alla battaglia di Novara. Credeva così di schierarsi «col popolo». Ma il popolo vero (quello che non gridava nelle piazze e guardava la guerra come un castigo di Dio) vide con indignazione quel prete portare in battaglia ragazzi giovanissimi, e lo
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coprì di villanie quando tornò con le squadre alla rinfusa, affamate e impolverate (erano arrivati a battaglia finita, e nessuno gli aveva dato da mangiare).
La indovinò quando, senza perdersi di coraggio, in quello stesso 1849 lanciò l'idea di un istituto per gli Artigianelli. I denari non arrivarono, ma arrivarono ragazzi orfani e abbandonati. I primi tre dormirono con lui nell'oratorio, poiché non aveva posto dove metterli.
Nel 1852 don Cocchi è tormentato da un'idea nuova. Non tutti i ragazzi sbandati sono adatti alla vita delle fabbriche e della città. Molti muoiono giovanissimi. Finisce per affidare l'istituto degli Artigianelli ad altri preti (don Tasca e don Berizzi). Lui va a fondare una colonia agricola a Moncucco, nella più isolata campagna. In quella colonia non riceve solo ragazzi sbandati che gli mandano i suoi amici preti di Torino, ma anche quelli che gli mandano dal correzionale «La Generala», o che gli porta la Questura. Con quei ragazzi la vita è durissima. Don Cocchi fa per anni il contadino, il viticultore, il tracciatore di strade, il papà di quei ragazzi che a volte gli scappano via per la campagna. Lotterà contro l'ingratitudine, i debiti, le grandinate. La colonia comincerà a decadere nel 1868, chiuderà nel 1877 (don Bosco avrà già spedito i suoi missionari in America). Don Cocchi finirà la sua lunga e cristianissima vita nell'istituto degli Artigianelli diretto da Leonardo Murialdo, considerato da tutti come «il nonno».
Uguale e diverso dal prete di Druent
Don Bosco, appena arrivato a Torino, ascoltò con interesse le vicende di don Cocchi. Erano della stessa razza. Anche per lui era intollerabile che centinaia di ragazzi vivessero allo sbando nelle piazze e nelle soffitte. La «dignità sacerdotale» lo spingeva ad andarli a cercare. (Il Vangelo raccontava che il «buon samaritano» non aveva aspettato la vittima dei banditi in canonica). Ma don Bosco era un contadino. La campagna gli aveva insegnato a moderare gli slanci, a misurare il passo prima di farlo, ad agire con astuzia e prudenza. Conosceva la povertà della campagna, ma non sapeva ancora niente della miseria delle periferie. Voleva conoscere la situazione prima di buttarsi. Don Cafasso (contadino anche lui) gli disse: «Andate. Guardatevi intorno».
E lui andò.
19.L'agonia dei piccoli lavoratori
«Aspettiamo qualcuno che ci prenda a lavorare»
«Fin dalle prime domeniche (don Bosco) andò per la città, per farsi un'idea della condizione morale in cui si trovava la gioventù» - scrive Michele Rua, uno dei primi ragazzi di don Bosco -. Vide «un gran numero di giovani d'ogni età, che andavano vagando per le vie e per le piazze, specialmente nei dintorni della città, giuocando, rissando, bestemmiando e facendo anche di peggio».
Un vero «mercato delle braccia giovani» lo trova sulla piazza del mercato generale di Porta Palazzo. Alla domenica il mercato è chiuso, e la piazza è affollata di commercianti, sensali, ragazzi in cerca di lavoro, che intanto si arrangiano facendo i merciaioli, venditori di zolfanelli, lustrascarpe. Dalle statistiche del Mellano possiamo farci un'idea del loro numero: «(...) senza professione poveri (maschi) 885; (...) lavoratori alla giornata senza mestiere determinato 1222» (ST 1,104). Un ragazzo che visse accanto a loro ci descrive la loro condizione: «Scapigliati, senza scarpe, cenciosi, sporchi ».
«Che cosa aspettate?», domanda don Bosco. «Qualcuno che ci prenda a lavorare, in cantiere, a bottega o in officina». Alcuni sono in cerca del primo lavoro, altri hanno già provato, ma sono stati scartati perché non sufficientemente forti per sopportare i ritmi di produzione.
Sono come lui, quando andò a bussare alla cascina Moglia con un fagotto sotto il braccio. Ma non avranno mucche da strigliare o prati verdi da percorrere. Il lavoro di città darà loro mezza lira al giorno (circa 2000 lire del 1986) e li trasformerà in muratori sfiniti nei cantieri o in piccoli sepolti vivi nelle manifatture o nelle officine.
I ragazzi dei cantieri
Rasentando le case in costruzione (ce ne sono moltissime in questo tempo) nei giorni di lavoro, don Bosco vede «fanciulli dagli 8 ai 12 anni servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, alla pioggia; salire le ripide scale a piuoli carichi di calce, di mattoni e di altri pesi, senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi o scapaccioni» (MB 2, 57-8).
La giornata lavorativa andava dalla primissima alba alla notte. Il vitto «al mezzogiorno consisteva di polenta cucinata da qualche muratore, il quale poteva assentarsi prima degli altri dal lavoro, per la sua occupazione speciale all'impasto o alla estinzione della calce. Il companatico era rappresentato abitualmente da un pezzo di formaggio o dalla ricotta. Alla sera mangiavano una minestra di pasta, riso o verdura; talvolta prendevano qualche po' d'insalata. Il vino, riservato per i giorni festivi, lo si beveva di solito all'osteria» (ST 3,205).
Molti giovani muratori non avevano una famiglia o dei parenti che li aspettassero alla sera. Erano immigrati stagionali. «Convivevano a decine, e sui magri salari dividevano le spese dell'affitto e della polenta in comune. Il primo che arrivava dal lavoro accendeva il fuoco e appendeva il paiuolo con l'acqua. Il poco com- panatico arrivava da casa ogni quindici giorni, a mezzo del conducente che portava la sacca del pan nero e degli indumenti puliti e ritirava la sacca della biancheria sporca» (Buscaglia in ST 3,163).
I piccoli operai
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Quelli che trovavano lavoro nelle officine e nelle manifatture iniziavano (secondo la tragica espressione di Bertrand Russeli) l'agonia dei ragazzi torturati.
In Piemonte «i padroni, per ridurre i salari, assumevano al posto dell'operaio adulto, la donna e il fanciullo. Si ebbe così una nuova figura nel campo del lavoro: il fanciullo operaio ad otto anni. Scandalosi erano i modi di reclutamento e inumani i metodi di lavoro. I fanciulli, i giovani operai, erano impiegati come degli adulti per 13 o 14 ore al giorno e per sette giorni alla settimana. La tenera età, i locali insalubri, antigienici, il lavoro sfibrante e monotono, l'orario estenuante, crescevano torme di fanciulli seminutriti, anemici, quasi inebetiti di sonno e di stanchezza, amareggiati e ribelli ».
E non erano poche decine. Nel 1844, in Piemonte, «si contavano 7184 fanciulli impiegati nelle fabbriche di seta, di lana e di cotone, al di sotto dei 10 anni ».
Don Bosco, nel suo Oratorio, accoglierà piccoli muratori, spazzacamini, giovani artigiani e apprendisti. Vedrà pochi ragazzi operai. Essi vivevano e morivano nell'officina o nella filanda, sepolti «per 13 o 14 ore al giorno e per sette giorni alla settimana». Erano gli infelici fratelli dei piccoli lavoratori sfruttati in quel tempo nel Lombardo-Veneto, in Francia, in Belgio, in Germania, in Inghilterra. Il grande capitale che avrebbe donato benessere e cultura all'Europa si stava costruendo con il sangue dei ragazzini.
Nell'Inghilterra (che aveva dato al resto del mondo i modelli della fabbrica, delle leggi, dell'organizzazione del lavoro) gli orrori erano tali che per molti anni si cercò di non parlarne. Eppure per capire questo tempo, scrive Russel, «qualcosa ne va detto».
Il terrore con i bambini
«Molti fanciulli (in Inghilterra, nei primi decenni del 1800) furono costretti a cominciare a guadagnarsi di che vivere all'età di sei o sette anni, e talvolta anche prima.
Entravano dai cancelli della filanda alle cinque o alle sei di mattina, e ne uscivano (al più presto) alle sette o alle otto di sera, compreso il sabato. Tutto questo tempo restavano rinchiusi (...) L'unica sosta durante questa reclusione di 14 o 15 ore era costituita dalle ore dei pasti, al massimo mezz'ora per la colazione e una per il pranzo. Ma ore regolari per i pasti erano un privilegio degli adulti soltanto: per i ragazzi, per tre o quattro giorni alla settimana significavano unicamente un mutamento di lavoro: anziché badare a una macchina in azione, pulivano una macchina ferma, sbocconcellando e trangugiando il loro pasto come meglio potevano in mezzo alla polvere e alla lanugine. I bambini perdevano presto ogni gusto per i pasti mangiati nella fabbrica. La lanugine soffocava i loro polmoni.(...) Un fanciullo nel seguire la macchina per filare (1percorreva) almeno la distanza di venti miglia (=32 chilometri) in dodici ore. Vi erano, è vero, brevi intervalli di riposo, ma nessun sedile su cui sedersi, essendo questo contrario alle regole.(...) Nei momenti di gran lavoro, le ore erano elastiche e talvolta si allungavano a un punto quasi incredibile. Il lavoro dalle tre del mattino alle dieci di sera non era sconosciuto; nella filanda del signor Varley, per tutta l'estate, si lavorava dalle 3,30 di mattino alle 9,30 di sera. Nella filanda, chiamata a ragione «baia d'inferno», per due mesi alla volta, non solo lavoravano regolarmente dalle 5 del mattino alle 9 di sera, ma per due notti alla settimana lavoravano ugualmente tutta la notte. I datori di lavoro più umani si contentavano quando erano occupati per un periodo di sedici ore (dalle 5 antimeridiane alle 9 di sera).
Era materialmente impossibile mantenere intatto un tale sistema, eccetto che con la forza del terrore. (...) Le punizioni per il ritardo la mattina dovevano essere così crudeli da vincere la tentazione, nei fanciulli stanchi, di restare a letto più di tre o quattro ore. Un testimonio davanti alla Commissione Sadler aveva conosciuto un bambino il quale era giunto a casa, una notte, alle undici, si era alzato la mattina dopo alle due terrorizzato ed era corso zoppicando al cancello della filanda. In alcune filande a malapena un'ora in tutta la giornata passava senza rumore di battiture e grida di dolore. (...) Nel pomeriggio lo sforzo diventava così severo che il pesante bastone di ferro, conosciuto sotto il nome di billy-roller, era continuamente in attività e, anche allora, non era raro il caso che un fanciullo più piccolo, nell'assopirsi, rotolasse dentro la macchina accanto a lui, da rimanere storpiato per tutta la vita o, se era più fortunato, da trovare una quiete definitiva, più lunga del sonno mancato.(...) Coll'avanzare della sera il dolore, la stanchezza e la tensione mentale diventavano insopporta- bili. I ragazzi imploravano chiunque andasse loro vicino di dire quante ore avevano ancora davanti a sé. Un testimonio disse alla Commissione di Sadler che suo figlio, un fanciullo di sei anni, gli diceva: "Babbo, che ora è?". "Gli ho detto che erano circa le sette". "Oh! ancora due ore alle nove? Non ce la faccio più!" ».
La bambina che non cantava nel buio
«I ragazzi non soffrivano soltanto nelle filande del cotone; ma erano sottoposti a condizioni altrettanto orribili nelle miniere. Vi erano, per esempio, i trappers, generalmente dai cinque agli otto anni, i quali per dodici ore sedevano in una piccola buca, fatta di fianco alla porta, tenendo in mano una cordicella, di regola stavano al buio, ma qualche volta un minatore di buon cuore dava loro un pezzo di candela. Una bambina di otto anni - secondo la relazione della Commissione per l'assunzione dei fanciulli nel 1842 - disse: «Io devo stare alla trappola senza luce e ho paura. Entro alle quattro e qualche volta alle tre e mezzo la mattina, ed esco alle cinque e mezzo (del pomeriggio). Non vado mai a dormire. Qualche volta canto, quando c'è luce, ma non al buio: allora ho paura di cantare».
La risposta degli scienziati
Alcuni vescovi cattolici (insieme agli anarchici, ai socialisti «utopici» e presto ai marxisti) alzarono la voce
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contro questa situazione tragica. Ketteler (1811-77), vescovo tedesco di Magonza, si batteva per le associazioni cattoliche degli operai, perché uniti potessero difendere i loro diritti. Proponeva leggi che limitassero il «ferreo diritto alla proprietà privata», facessero uscire dalle fabbriche donne e bambini. Rendu, vescovo di Annecy, dove sorgeva il più grande cotonificio dello Stato savoiardo-piemontese, in un memoriale a Carlo Alberto nel 1845 gli descriveva le condizioni disumane degli operai, e chiedeva «una legge che possa introdurre la giustizia». Due anni dopo, nel 1847, il vescovo di Pinerolo, Charvaz (che era stato l'istitutore del principe ereditario Vittorio Emanuele) in una lettera pubblica denunciava «la nuova specie di schiavitù» instaurata dall'industria per la «sete di arricchirsi nel minor tempo, con ogni mezzo e minori spese», con la conseguenza di «aver cambiato l'uomo in bestia ».
Ma gli industriali piemontesi, riuniti nel Congresso degli scienziati italiani (1844), avevano già risposto che il lavoro infantile nelle
officine e nelle fabbriche era necessario: solo così si poteva reggere la concorrenza dei prodotti stranieri. Quegli uomini colti, che si definivano «umanitari, filantropi, scienziati», e che oggi sono considerati tra i benefattori della nostra patria, avevano rinforzato il loro ragionamento con una raffinata inimagine poetica: «Non si può troncare l'albero e perderne il frutto per non avere l'ombra ».
La durata media della vita di un operaio, tra il 1830 e il 1840, era di 17-19 anni. L'ombra era pesante.
20. Muri neri e facce nere
Otto anni, professione spazzacamino
In piazza San Carlo, dove da tre anni dominava il monumento a Emanuele Filiberto (chiamato dai torinesi '1 caval 'd bruns), davanti al Duomo e in piazza Susina (ora Savoia), don Bosco incontrò le facce nere dei piccoli spazzacamini. Avevano lì le loro tre «stazioni», e alla domenica si ritrovavano per scaldarsi al sole e per parlare dei loro paesi lontani.
Quelli di 7-8 anni (erano la maggioranza) si esprimevano solo in patois, il dialetto delle loro valli. Ma i ragazzotti, che tornavano a Torino da alcuni anni, sapevano ormai parlare il piemontese.
Conversando con loro (gli spazzacamini avevano molto rispetto per i preti) venne a conoscere la loro storia. Disse: «Quanti buoni giovani ho trovato fra gli spazzacamini. Era nera la loro faccia, ma tante volte quanto bella era la loro anima» (MB 3,173).
Chiamavano il Piemonte gran-dzou, grande pane. Quando nelle valli d'Aosta, della Savoia, del Canton Ticino cominciava la brutta stagione, il pane si faceva scarso. Allora i genitori accompagnavano i figli dal couèitse, l'adulto capo-spazzacamini, scelto per la sua onestà e la sua esperienza. Egli li avrebbe accompagnati, su carri tirati da muli, in Francia, in Svizzera o in Piemonte. Nei paesi e nelle città i camini avrebbero presto cominciato a riscaldare le case, e perché il tiraggio fosse buono occorreva liberarli dalla fuliggine accumulata nell'anno trascorso. In cambio di quel lavoro, gli spazzacamini avrebbero ricevuto un gran-dzou, un grande pane.
Dopo sei-sette mesi di lavoro il couèitse avrebbe ricondotto a casa i ragazzi consegnando per ognuno ai genitori lo stipendio di 25-30 lire (120 mila circa del 1986).
Durante il lavoro, il capo-spazzacamini si impegnava a procurare due libbre (780 grammi) di pane ogni giorno a ciascuno dei ragazzi. Minestra e carne dovevano elemosinarle nelle case dove raschiavano i camini.
La mamma consegnava a ogni figlio che partiva tre camicie di tela grossolana e un berretto (l'avrebbero calcato in testa salendo nei camini, per ripararsi dalla fuliggine). E faceva tre raccomandazioni al couèitse: di fargli dire una piccola preghiera al mattino e alla sera, di non lasciargli prendere il vizio di fumare, e di stare attento che non finisse sotto le carrozze (po se fée écrasé i bou).
Ogni capo-spazzacamini aveva la sua zona o «stazione», suddivisa in quartieri. Ogni quartiere era servito da un cap-gaillo, un giovanotto di 15-18 anni, troppo sviluppato ormai per arrampicarsi per la cappa dei camini. Egli sorvegliava una squadra di piccoli spazzacamini (gaillo) di 7-10 anni. Durante il lavoro lucidava gli arnesi del focolare, raccoglieva la fuliggine (che avrebbero rivenduto come fertilizzante) e dopo il lavoro esigeva la paga pattuita.
Il grido ripetuto tre volte
Il gaillo, lo spazzacamino piccolo e esile, doveva compiere il lavoro più duro. S'arrampicava all'interno dei camini servendosi delle mani, dei gomiti, dei ginocchi e dei piedi. Nei camini più larghi si appoggiava alle pietre sporgenti. Salendo, con una piccola raspa (la rhllia) scrostava la fuliggine raggrumata sulle pareti. Quando il piccolo arrivava alla sommità del camino, gridava per tre volte «spaciafournel». Era la sua maniera di avvertire il cap-gaillo che aveva finito il lavoro. Allora poteva ridiscendere per la stessa via.
Durante una giornata di lavoro, un piccolo spazzacamino arrivava a pulire anche quindici camini.
Chiamavano la fuliggine che cadeva (e che impregnava gli abiti e la faccia) con la stessa parola con cui chiamavano la neve, beuilburne.
Il capo-spazzacamini (che durante il lavoro delle squadre faceva il venditore ambulante) affittava uno stanzone o una soffitta, dove gli spazzacamini dormivano sulla paglia e passavano i giorni quando veniva la febbre. Perché quel lavoro intasava i polmoni dei piccoli, e portava bronchiti, polmoniti, tubercolosi. Anche gli incidenti (quando un piccolino precipitava giù dalla cappa) potevano essere gravi. Ogni anno bisognava mettere in conto la morte di qualcuno. (Un gruppo di 24 spazzacamini valdostani, uno dei pochissimi su cui si
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può tentare una statistica, perse in pochi anni 9 componenti).
I piccoli spazzacamini si muovevano raramente da soli in città. Essendo giovanissimi e mingherlini, correvano il rischio di essere pestati e derubati dagli altri ragazzi lavoratori.
Dal giorno del suo primo incontro, don Bosco ebbe un'attenzione speciale per loro. «Scendevano innocenti dalle loro montagne senza alcuna malizia del mondo. Perciò non solo avevano bisogno di istruzione religiosa, ma era necessario preservarli da scellerati compagni» (MB 3,173).
(Sulla figura dello spazzacamino don Bosco scriverà una commedia, e la farà recitare molte volte dai suoi ragazzi. La pubblicherà, ridotta a un atto unico, nel 1866. In essa insisterà sulla bontà degli spazzacamini, e sulla malvagità di chi ruba loro i sudati risparmi).
Nelle carceri: adulti, ragazzi e pidocchi
A questo punto, don Bosco conosce i ragazzi che a Torino lottano per vivere: giovani muratori, piccoli operai e apprendisti, spazzacamini, ragazzi in cerca di lavoro. Non conosce ancora quelli che, in questa lotta per la vita, hanno già fallito: i ragazzi carcerati.
Sulle colline dov'è cresciuto, se un ragazzo rubava in una vigna, lo sgridavano, gli davano magari un paio di scapaccioni. In città lo portano in prigione, dove adulti e giovani saranno mescolati fino al 1845.
Carlo Alberto è cosciente che questo sistema è disastroso. A Cesare Balbo, incaricato di migliorarlo, scrive: «Le comunicazioni che essi (colpevoli e innocenti) hanno tra loro, accelerano i progressi di corruzione. (...) Questa contagione morale è talmente accertata che generalmente si crede all'impossibilità di colui che entra innocente in prigione non ne sorta pervertito» (PINTO, 212).
Don Cafasso è uno dei cappellani delle carceri. Perché don Bosco capisca fino in fondo la realtà dei giovani, un giorno che parte per le prigioni lo invita ad accompagnarlo.
Entrano nelle carceri vicine al Senato. Don Bosco è turbato profondamente dai corridoi oscuri, le mura umide, l'aspetto triste e squallido dei detenuti ammucchiati in stanzoni. Prova ribrezzo e anche la sensazione di soffocare. C'è un gran numero di «giovanetti dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio. Vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece inorridire» (Memorie, p. 102).
Torna altre volte con don Cafasso e anche da solo. Cerca di parlare con loro non solo facendo l'obbligatoria «scuola di catechismo» che viene vigilata dalle guardie, ma a tu per tu. All'inizio le reazioni sono aspre. Deve mandare giù insulti pesanti. Ma a poco a poco qualcuno si mostra meno diffidente, parla da amico ad amico. Don Bosco viene così a conoscere le loro povere storie, il loro avvilimento, la rabbia che a volte li rende feroci. Il «delitto» più comune è che hanno rubato. Per fame, per desiderio di qualcosa oltre il sostentamento scarso, e anche perché appartengono a «cocche» manovrate da adulti e da giovanotti che li mandano a rubare e poi si appropriano della refurtiva.
Si informa delle loro condizioni. Sono nutriti a pane nero e acqua. Devono obbedire ai secondini che hanno paura, e perciò picchiano selvaggiamente al minimo pretesto. La cosa peggiore è che i carcerati adulti, a volte veri delinquenti, in quegli stanzoni diventano «maestri di vita».
Da quegli stanzoni, a volte, don Bosco non esce «solo». Il barone Bianco di Barbania, che una sera l'ha invitato a cena, gli vede sulla spalla uno schifoso pidocchio. Si allontana di scatto: «Voglio dare da cena a lei, don Bosco, ma non ad altri! ».
Ma da quando ha visto quella situazione, nemmeno i pidocchi riescono più a preoccuparlo. Si fa amici uno ad uno quei ragazzi, e riesce a strappare loro una promessa: «Quando uscirete di qui, mi verrete a cercare alla chiesa di San Francesco. E io vi aiuterò a trovare un posto di lavoro onesto. Promesso?».
Aveva concluso che «molti erano arrestati perché si trovavano abbandonati a se stessi». Pensava: «Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro, li assiste, li istruisce, li conduce in chiesa nei giorni di festa. Allora forse non tornerebbero a rovinarsi» (Memorie, 103).
Comunicò questo pensiero a don Cafasso, e chiese al Signore di indicargli come tradurlo in realtà, «perché sapevo che senza il suo aiuto ogni nostro sforzo è vano».
21. Il primo si chiama Bartolomeo
Le botte del sacrestano
Girando per le strade e le piazze, don Bosco si è fatto un gruppo di piccoli amici. È’ capitato e capiterà sempre così. Lo seguono dappertutto, quando va a far catechismo dai Fratelli delle Scuole Cristiane, quando raggiunge le carceri con le tasche piene di pagnotte e di nocciole. Stanno volentieri con iui, anche pochi minu- ti, perché sta ad ascoltarli, si interessa dei loro piccoli problemi, dice «bravo» e sorride quando gli raccontano i loro piccoli successi. È’ un amico.
Don Bosco vorrebbe radunarli in qualche luogo, rifare con loro la «Società dell'Allegria», e magari qualcosa di più. Ma non ha ancora trovato questo «luogo».
Don Cafasso, durante le estati trascorse, faceva ogni domenica catechismo ai garzoni muratori in una saletta vicino alla sacrestia di S. Francesco d'Assisi. L'ultima estate non ce l'ha più fatta, per i molti impegni che riempivano le sue giornate. Don Bosco pensa che potrebbe riprendere lui quel catechismo, e radunare i ragazzi nella saletta. Ma aspettare l'estate è una faccenda lunga.
Ed ecco l'incidente che gli fa rompere gli indugi.
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Mercoledì 8 dicembre è la festa della Madonna Immacolata (festa di precetto). Don Bosco sta preparandosi a dire Messa quando sente tonfi e grida vicino alla porta della sacrestia. Guarda e vede il sacrestano Comotti che caccia fuori a bastonate un ragazzotto, un muratorino. Le botte che piovono su un ragazzo hanno sempre acceso il sangue di don Bosco. Anche se è vestito per la Messa si mette a gridare: «Comotti! Perché picchia quel ragazzo? Che male ha fatto?». Il sacrestano impreca contro tutti i ragazzi dell'universo che vengono a disturbare la sua tranquillità, e magari a rubare. E finisce dicendo: «Ma a lei cosa importa?». E don Bosco indignato: «Mi importa perché è un mio amico. Lo chiami subito. Ho bisogno di parlargli».
Walter Nigg, con un pizzico di poesia, scrive: «Don Bosco con quelle parole che gli erano venute spontanee alle labbra, aveva intonato la melodia della sua vita. La nuova tonalità che egli avrebbe dato all'educazione si chiamava amicizia. Voleva riconquistare la gioventù attraverso l'amicizia».
Intanto Comotti sudava le sue camicie per far tornare il ragazzo. «Quell'altro non si lasciava avvicinare, temendo di essere battuto e non credeva guarì alle sue promesse che non gli avrebbe fatto nulla» (VBP, 93). Quando don Bosco l'ebbe vicino, lo vide mortificato e tremante. Cercò di calmarlo. «Vieni ad ascoltare la Messa. Devo dirti una cosa che ti farà piacere». Don Bosco ammette che non intendeva fare nulla di speciale, solo cancellare la pessima impressione che il ragazzo doveva essersi fatto sui preti di quella chiesa. Fu probabilmente durante la Messa che gli balenò l'idea che quello poteva essere l'inizio di un centro per ragazzi in difficoltà, dove anche gli spazzacamini e gli ex carcerati avrebbero potuto venire a cercarlo, avere un punto di riferimento.
Orfano e analfabeta
Il dialogo che si svolse dopo la Messa nella saletta accanto alla sacrestia, don Bosco l'ha conservato nelle sue Memorie. «Con la faccia allegra gli assicurai che più nessuno l'avrebbe picchiato, e gli parlai:
- Mio caro amico, come ti chiami?
- Bartolomeo Garelli.
- Di che paese sei? - Di Asti.
- È’ vivo tuo papà? - No, è morto.
- E tua mamma?
- Anche lei è morta.
- Quanti anni hai?
- Sedici.
- Sai leggere e scrivere?
- Non so niente.
- Hai fatto la prima Comunione?
- Non ancora.
- E ti sei già confessato?
- Sì, ma quando ero piccolo.
- E vai al catechismo?
- Non oso.
- Perché?
- Perché i ragazzi più piccoli sanno rispondere alle domande, e io che sono tanto grande non so niente.
- Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo?
- Molto volentieri.
- Anche in questo posto?
- Purché non mi prendano a bastonate.
- Stai tranquillo, nessuno ti maltratterà. Anzi, ora sei mio amico, e ti rispetteranno. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?
- Quando lei vuole.
- Stasera?
- Va bene.
- Anche subito?
- Con piacere.
Mi alzai e feci il segno della santa Croce per cominciare. Mi accorsi però che Bartolomeo non lo faceva, non ricordava come doveva farlo. In quella prima lezione di catechismo gli insegnai a fare il segno della Croce, gli parlai di Dio creatore e del perché Dio ci ha creati» (Memorie, lOSs).
Il nocciolo dell'Oratorio
Quel dialogo sembra banale. Invece è un esame della realtà, un test molto accurato. Don Bosco si informa sulle tre agenzie (come oggi vengono chiamate) che dovrebbero operare in quel momento alla formazione di quel sedicenne: famiglia, scuola, Chiesa. E viene a sapere che i genitori non ci sono più, alla scuola non è mai andato, non ha fatto la prima Comunione e non sa nulla di catechismo. Una situazione disastrosa, che può essere facilmente la premessa di un fallimento nella vita.
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E don Bosco in maniera semplice, rudimentale, cerca di ricostruire immediatamente per quel ragazzo i tre elementi fondamentali: con la sua amicizia gli fa ritrovare un poco di calore familiare; proponendogli un poco di scuola cerca di ridare fiducia alla sua intelligenza, di fargli riscoprire la sua dignità: non tutta la vita è fatta di calce e di mattoni; mettendo in questa scuoletta se stesso, prete, come insegnante, e il catechismo come oggetto di insegnamento, fa tornare Bartolomeo alla Chiesa, la quale aveva rischiato di cacciarlo con il bastone di un sacrestano. Questo incontro è il nòcciolo che contiene già tutta l'originalità dell'Oratorio di don Bosco: un' amicizia che fa sentire in famiglia, una scuola che dà il senso della dignità, una chiesa che fa incontrare Dio e fa sentire la pace profonda di essere suoi figli.
Don Bosco raccontò diecine di volte questo dialogo ai suoi ragazzi e ai suoi Salesiani. E aggiungeva due battute che divennero celebri: «Sai cantare?» e «Sai zufolare?». Bartolomeo avrebbe risposto con un «no» alla prima e con un sorriso alla seconda domanda. Don Lemoyne le registrò in MB 2,73. Ma esse nel mano- scritto di don Bosco non esistono.
(Quando nella mia trascrizione delle «Memorie» di don Bosco qualcuno notò la mancanza di queste due battute, fui accusato frettolosamente di «manipolazione». Un'accusa che una più precisa documentazione avrebbe potuto evitare).
Don Bosco terminò il primo incontro con Bartolomeo regalandogli una medaglia della Madonna e facendosi promettere che sarebbe tornato domenica (quattro giorni dopo), e soggiunse: «Non venire solo. Conduci anche i tuoi amici. Avrò un piccolo regalo per te e per loro» (MB, 2,75).
22. I fratelli Buzzetti
Tre muratorini addormentati
La sera di quello stesso 8 dicembre, durante la predica dei Vespri, don Bosco incontrò Carlo Buzzetti. (Così almeno attesta Giovanni B. Francesia, che fu compagno d'oratorio di Carlo per molti anni). Stava dormendo con altri due muratorini presso un altare della chiesa. Don Bosco lo destò e sottovoce:
- Chi sei? Come ti chiami?
- Io sono Carlo Buzzetti, di Caronno-Ghiringhello (ora Caronno Varesino) in Lombardia. Questi sono mio fratello e mio cugino.
- È da molto che siete a Torino?
- È il primo anno. Lavoriamo da muratori.
- Perché non ascolti la predica?
- Ci sono stato attento per un poco, e poi non intendendo nulla mi sono messo a dormire, aspettando che sia terminata.
- Venite con me: d'ora innanzi ve la farò io (VBP, 94; MB 2,76).
In sacrestia don Bosco chiede altre notizie. Viene a sapere che i fratelli Buzzetti sono in tutto sette. I due maggiori sono venuti a Torino in comitiva a piedi, nel mese di marzo. Hanno camminato con altri paesani pratici del percorso, portando in spalla il fardello dei loro poveri indumenti e dormendo presso qualche casci- nale di fortuna. Hanno lavorato nei cantieri per nove mesi. Ora, poiché arriva la stagione morta per i muratori, stanno per riprendere la strada verso il loro paese. Ritorneranno a Torino in primavera con il loro terzo fratello, Giuseppe.
Don Bosco dice loro buone parole, li invita a tornare domenica mattina, regala loro una medaglia.
Quattro giorni dopo, nella sacrestia, arriva Bartolomeo accompagnato da sei amici, arrivano i fratelli Buzzetti alla testa di una squadra di cugini e compaesani. «Fin dal principio - testimoniò un Salesiano della prima generazione - fu numeroso il gruppo dei giovani lombardi, gruppo che si fece sempre notare per un certo affiatamento, per quel carattere aperto e sincero, per quell'allegria un po' chiassosa, soprattutto per quella bonarietà che è caratteristica della gente ambrosiana ».
Dopo la Messa e la colazione, don Bosco li raduna nella saletta, e fa loro il catechismo seguito da un bel racconto.
A cercare i ragazzi che lavorano
Comincia così la vita del primo Oratorio. Se c'è il sole escono nel cortiletto. Non hanno voglia di correre. Sono stanchi della lunga settimana di lavoro. Si siedono al sole. Don Bosco si siede con loro e parlano delle loro famiglie lontane, del lavoro. Qualcuno si lamenta del padrone, delle ore di fatica che non finiscono mai. Raccontano gli incidenti che capitano quando sono troppo stanchi, della cattiveria di qualche compagno di lavoro adulto. «Verrò a trovarvi durante la settimana, promette don Bosco, e cercheremo di aggiustare ciò che non va».
Da quel momento trovare alcune ore per andare a cercare i suoi ragazzi che lavorano diventa un impegno quotidiano per don Bosco. Scrive: «Durante la settimana andavo a visitarli sul luogo del loro lavoro, nelle officine, nelle fabbriche. Questi incontri procuravano grande gioia ai miei ragazzi, che vedevano un amico prendersi cura di loro. Faceva piacere anche ai padroni, che prendevano volentieri alle loro dipendenze giovani assistiti lungo la settimana e nei giorni festivi.
«Ogni sabato tornavo nelle prigioni con la borsa piena di frutti, pagnotte, tabacco. Il mio scopo era di mantenere il contatto con i ragazzi che per disgrazia erano finiti là dentro; aiutarli, farmeli amici e invitarli a venire all'Oratorio appena fossero usciti da quel luogo triste» (Memorie, p. 109).
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La pentola degli spazzacamini
Nei mesi seguenti arrivano anche gli spazzacamini, a squadre intere: non si muovono da soli. Siccome non parlano piemontese, finiscono per far gruppo a sé. Per far loro catechismo, per divertirli, negli anni che seguono si affiancano a don Bosco preti più giovani: don Carpano, don Ponte, don Trivero. Un addetto alle pulizie del Convitto ricorda che nel 1844 «vedevamo dalle finestre molti spazzacamini ricrearsi e fare un po' di merenda, ogni domenica e festa di precetto, nel piccolo cortile dell'istituto (...) pane bianco accompagnato qualche volta anche da una fetta di salame ».
Nel dicembre del 1847, diventando direttore del secondo oratono aperto da don Bosco a Porta Nuova, don Carpano vi radunerà gli spazzacamini della zona di piazza Susina. Michele Rua, suo successore, diventerà amico e confidente di tanti piccoli valdostani.
Don Ponte, quando diventerà cappellano della Marchesa di Barolo, aprirà per la terza volta (dopo don Cocchi e don Bosco) l'oratorio San Martino presso i Mulini Dora, e vi accoglierà gli spazzacamini della zona del Duomo. «I piccoli spazzacamini valdostani, dopo la Messa e il catechismo, venivano radunati intorno a una gran pentola e ricevevano una distribuzione di minestra». Il vecchio spazzacamino Evariste Pariset ricordava con venerazione «l'abbé Pierre Ponte», che alla fine della stagione di lavoro «donava a ogni spazzacamino una camicia nuova».
All'oratorio di don Bosco, accanto ai muratorini e agli spazzacamini comincia ad arrivare qualche ragazzo della periferia nord, che si estende a 600 metri di distanza: Borgo Dora e Vanchiglia. Sono ragazzi miseri perché la zona è misera. Si respira un'aria cattiva e umida. Le fognature non esistono e gli scarichi privati e pubblici corrono nel bel mezzo delle strade prima di gettarsi nella Dora.
L'affitto delle case costa poco e i poveri si rassegnano ad abitare nell'umidità che lima la salute. Per i ragazzi delle tremila famiglie che abitano a Borgo Dora non c’è una scuola pubblica né una chiesa. «Il giaciglio di molti consisteva in un lurido sacco ripieno di foglie o di paglia, in stamberghe in cui la fanghiglia, la sporcizia e l'umido non differivano da quelli delle stalle o dei pollai» (ST 3,162).
L'aggressività di questi ragazzi è molto più dirompente di quella dei muratorini e degli spazzacamini. Per questo don Bosco, «fin dai primi giorni, per assicurarne la disciplina e la moralità, ebbe la precauzione di invitare alcuni (giovani) di buona volontà e già istruiti. In generale egli li veniva a conoscere nelle scuole dette allora di Santa Barbara, tenute con grande amore e profitto, a nome del Municipio, dai Fratelli delle Scuole Cristiane» (VBP, 97).
Cantavano a squarciagola sui sentieri
Quando il tempo era gelido, quando nevicava, non si poteva nemmeno uscire nel cortiletto. E allora don Bosco, nella saletta piena come una scatola di sardine, faceva i giochi di prestigio e insegnava a cantare. Appena il tempo lo permetteva, uscivano dalla città, e cantavano a squarciagola sui sentieri, tra una sfida e l'altra a palle di neve. Ma in chiesa sapevano cantare con delicatezza.
Il 2 febbraio 1842 è la festa della Purificazione di Maria (allora «di precetto»). Durante la Messa, seguendo i cenni di don Bosco, quei ragazzi cantano la prima, semplicissima lode alla Madonna che hanno imparato:
Lodate Maria, o genti fedeli, risuoni nei cieli
la vostra armonia.
Lodate, lodate, lodate Maria.
Alla fine i ragazzi sono fieri come di un successo straordinario. E anche la gente, che fino allora ha guardato i
monelli di quel prete «venuto dai campi» con una certa diffidenza, è meravigliata.
Arriva Giuseppe, 10 anni
Senza piani grandiosi, ma con gesti concreti, don Bosco comincia a salvare i giovani che riesce ad avvicinare. Qualcuno gli manifesta il bisogno di imparare a leggere e a scrivere, a fare le quattro operazioni. E lui trova le ore e le persone adatte per fargli scuola.
Nei momenti più difficili qualcuno gli confessa arrossendo che ha bisogno di denaro, e don Bosco rovescia il borsellino nelle sue mani. Non sempre c'è qualcosa di più di qualche soldino. Anche don Bosco è povero... Ma il suo affetto è grande. Una delle frasi che dice è:
- Ti voglio così bene, che se un giorno avessi solo più un pezzo di pane lo farei a metà con te.
Una delle sue preoccupazioni, perché abbiano un pezzo di felicità, è farli incontrare con Dio. Lungo la settimana, e specialmente nei giorni di festa, il suo confessionale è attorniato dai ragazzi che vogliono il perdono del Signore. Alla sua Messa molti fanno la Comunione.
Quando parlano nel cortiletto (o quando si sgranano per le passeggiate nei dintorni di Torino), don Bosco passa con facilità dalle barzellette, dalle notizie curiose, a parlare di Dio. Guarda i suoi ragazzi e dice:
- Che bellezza quando saremo tutti in Paradiso! Che festa faremo!
Nella primavera del 1842 tornano dal loro paese i fratelli Buzzetti, accompagnati da Giuseppe, il fratellino che ha appena compiuto dieci anni. È un fanciullo pallido, tutto spaurito. Don Bosco lo guarda con tenerezza, gli parla da amico. Giuseppe gli si affeziona come un cucciolo. Non si staccherà più da lui. Anche quando i fratelli, finita una nuova stagione di lavoro, torneranno a Caronno, lui rimarrà con il «suo» don Bosco. E don Bosco lo vede con pena portare i mattoni nel cantiere. C'è tanta intelligenza e tanta bontà in quegli occhi. Fra qualche anno lo chiamerà con sé, e gli proporrà di condividere la sua vita.
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Michele Rua, colui che diventerà il secondo don Bosco nella Congregazione salesiana, è ancora un bimbetto di quattro anni. Ma colui che sarà il suo braccio forte nella costruzione dell'Oratono, è già arrivato. È’ Giuseppe Buzzetti.
23. A Palazzo Reale
Ferrovie e fucilazioni
Mentre l'Oratorio di don Bosco vive i suoi primi, incerti anni (dicembre 1841 - ottobre 1844), «avvenimenti nuovi, mutamenti e anche sofferenze si affacciavano all'orizzonte» (Memorie, 110).
I primi dieci anni del regno di Carlo Alberto (1831-41) hanno visto caute riforme. È’ stata abolita la tortura, le tasse sono state distribuite con maggiore giustizia, i provocanti privilegi doganali della corte e dei cortigiani sono stati cancellati (1832). Il dazio sul grano (che garantiva fame uguale per tutti) è stato ridotto (1834). L'esportazione della seta è stata dichiarata libera e Biella è diventata di colpo il centro del mercato europeo (1834).
Il conte Camillo Cavour (24 anni), che non è mai stato tenero verso Carlo Alberto, annota nel 1834: le finanze del regno sono «le più belle d'Europa» (PINTO, 216).
Peccato che queste belle finanze siano in buona parte sprecate in iniziative pazzesche di politica estera. Carlo Alberto sostiene con ingenti somme di denaro tutte le cause perse: i Borboni in Francia, i Carlisti in Spagna, i Michelisti in Portogallo. Si crede investito dalla Provvidenza, e invece è solo mal consigliato da Solaro della Margarita, un ministro degli Esteri fanatico e ignorante.
Fortunatamente altri capitali pubblici e privati imboccano strade diverse dal sostegno ai principi decaduti. Dal 1833 al 1843 è raddoppiata la rete di canali (investiti 33 milioni, circa 140 miliardi di oggi). Sono costruite tre importanti linee ferroviarie ed è autorizzata la Genova-Novara. Il progetto più ambizioso è il traforo del Frejus, tra Bardonecchia e Modane, attraverso le Alpi. Quella galleria di km 13,5 entusiasma Cavour, che scrive: «La ferrovia da Torino a Chambery, attraverso le più alte montagne d'Europa, sarà il capolavoro dell'industria moderna... sarà una delle meraviglie del mondo... Questa linea farà di Torino una città europea» (PINTO, 219).
Verso i mazziniani, Carlo Alberto ha continuato a fare la faccia feroce. Il 20 aprile 1833 è stata scoperta, per rivelazione di «pentiti», una congiura a Genova. In una lettera, il re riassume così la repressione: «Quindici condanne a morte, delle quali dodici eseguite, una in contumacia, due commutate alla galera a vita» (PINTO, 192). Nuove cospirazioni falliscono nel 1834, con altre due condanne a morte.
Finalmente, nel 1835, Carlo Alberto compie due atti di coraggio. Si libera del ministro dell'Interno, Lascarena, che gli ha fatto firmare condanne che hanno infangato il suo nome. Ed espelle dal Regno Tiberio Pacca, comandante della polizia, che «fabbrica-va» le prove delle congiure.
Si balla per Radetzky
Il 1842 e il 1843 (mentre il primo Oratorio di don Bosco gioca nel cortiletto di S. Francesco d'Assisi) segnano un cambiamento profondo nella persona e nella politica del re.
11 aprile 1842. Il principe ereditario Vittorio Emanuele sposa Maria Adele, figlia di Ranieri, viceré austriaco della Lombardia. Nella sua prosa laccata, la Gazzetta Piemontese riferisce: «Le LL.AA.RR. e Il. il Viceré e la Vice regina del Regno Lombardo-Veneto, Augusti Genitori della Serenissima Fidanzata... sono arrivati al Real Castello di Stupinigi, ieri, verso le due pomeridiane. Il Re Carlo Alberto è andato incontro agli eccelsi Congiunti al seguito dei quali era il Feldmaresciallo Radetzky, comandante in capo delle forze dell'imperatore in Italia» (AL GR, 10).
Questo Radetzky (che tra sei anni sarà la persona più odiata in Piemonte) è centro di inchini e di salamelecchi. Appena arrivato è ricevuto e ossequiato dal re, e siccome deve tornarsene immediatamente a Milano e non potrà assistere al torneo in piazza organizzato per gli augusti sposi, Carlo Alberto ordina che se ne faccia per lui un'anteprima nel giardino del palazzo reale.
Vittorio Emanuele (22 anni) è un giovanotto rude, sanguigno. Il suo volto gagliardo è sottolineato da larghi baffi e illuminato da occhi saettanti. Ha già dimostrato di essere assolutamente inadatto alla riflessione e allo studio. Per tutta la vita dimostrerà la sua straordinaria vitalità più combattendo che governando.
Nel giorno delle nozze Carlo Alberto concede la sospirata amnistia per i rivoluzionari del 1821. Sono sopravvissuti pochi a 21 anni di carcere o di esilio. Liso, Caraglio e il capitano Ferrero sono accolti con soddisfazione dalla società torinese.
Otto nomi e cento colpi di cannone per un bambino
Spente le luci della festa, la sposa di Vittorio Emanuele «è stata presa da un'estrema curiosità di vedere le botteghe dei portici sul Po; s'è rivolta alla regina: questa le ha risposto che una cosa simile non s’era mai fatta e che ella non s’arrischiava a condurvela. La duchessa provò a rivolgersi al re, il quale le rifiutò il permesso. (...) Malgrado tutti i rifiuti, essa si è ben velata, ben incappucciata, con suo marito, ed eccoli fuori, chi dice alle otto del mattino, chi alle otto di sera. Poveretti! Quando rientrano il re mandò Vittorio agli arresti» (Marchesa d'Azeglio, in PINTO, 236).
Il 1843 è l'anno di due libri famosi: Del primato morale e civile degli italiani di Vicenzo Gioberti e Le speranze d'Italia di Cesare Balbo. Segnano l'inizio del «neoguelfismo», il movimento che cercherà l'unità d'Italia
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consegnando «la spada a Carlo Alberto, la presidenza al Papa». Il re, in privato, se ne compiace; in pubblico ignora tutto e si professa amico dell'Austria.
Nel marzo 1844 nasce il primogenito di Vittorio Emanuele. Riceve il nome di Umberto Ranieri Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio. L'artiglieria della Cittadella saluta con cento colpi il «sospirato evento». Il Vicario di Città, Michele Benso di Cavour (padre di Camillo) fa affiggere un manifesto: «Invitiamo gli abitanti a concorrere tutti nel fare questa sera una generale illuminazione della città». Tra migliaia di lumini accesi sui balconi, Carlo Alberto, con la fierezza di un «nonno reale», percorre le vie della città tra la folla che applaude. Il principino cresce - annota Alfassio Grimaldi - attaccato alle gonne della nonna più che a quelle della madre, sempre ammalata.
Sotto l'uniforme militare un re vecchio
I capi del movimento liberale italiano stanno spingendo a tutta forza in due direzioni: ottenere dai re assoluti la Costituzione, raggiungere la libertà e l'unità d'Italia con una guerra all'Austria. Massimo d'Azeglio, romanziere e pittore, durante il 1845 ha fatto il giro d'Italia riempiendo taccuini di schizzi, ma sotto quella copertura ha incontrato i leaders liberali. Tornato a Torino, è ricevuto da Carlo Alberto alle 6 del mattino. Dopo la sua esposizione franca, si sente rispondere: «Faccia sapere a que' signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che stiano certi, che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita de' miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito tutto sarà speso per la causa italiana».
Il re non è liberale, ma crede nella necessità di fare ogni cosa possibile per evitare la rivoluzione e la fine della dinastia. Dirà l'anno dopo all'ambasciatore austriaco Buol: «Il veleno rivoluzionario 5 e diffuso dappertutto, non ha risparmiato alcun paese; anche da voi il popolo non la pensa più come vent'anni fa. Non èpossibile combattere il nemico di fronte» (PINTO, 260).
Carlo Alberto ha solo 47 anni, eppure è invecchiato in maniera impressionante. La lunga faccia è solcata da rughe profonde, il corpo altissimo è incurvato, il passo barcollante. Indossa costantemente la divisa militare per darsi un tono marziale, ma non illude nessuno.
«Devo saldare i debiti con gli sfruttati»
Nella nobiltà torinese occupa un posto di primo piano, in questi anni, la marchesa Giulia Viturnia Francesca Colbert, vedova Falletti di Barolo. Ha come segretario uno dei più famosi scrittori italiani del tempo, Silvio Pellico, autore di Le mie prigioni (1832). È’ fuggita bambina insieme ai suoi dalla Francia in preda alla rivo- luzione. Ha sposato a Torino il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, che nel 1825 è stato sindaco della città. Carlo Tancredi, da tempo malato, è morto durante un viaggio in una poverissima locanda vicino a Chiari. Quella morte la scuote profondamente. Il giorno dopo scrive: «La vita ha talvolta degli ammonimenti atroci. Bambina, ho sentito narrare le vicende paurose di quegli antenati miei di Francia, che hanno lasciato la testa sul patibolo. Ieri ho veduto spezzarsi la mia ragione di vita, e in un'ora cupa di silenzio, dinanzi al mistero augusto della morte, nella tragica veglia funebre (...) ho sentito l'anima mia trasformarsi. In nome di Colui che è finito come un pezzente, devo dedicarmi a tutti i miserabili. Devo scontare tutti i secolari privilegi degli avi, devo saldare i debiti che hanno contratto con i paria e gli sfruttati; devo pareggiare l'implacabile conto che ciascuno ha con la propria coscienza... Buon Dio, in Vostro nome, andrò a mutare le lacrime della disperazione in quelle della speranza» (dalle Memorie, cit. in PINTO, 223s).
Non sono solo parole. Da quel momento si dedica completamente alle donne e alle ragazze emarginate. Per vedere chiaramente quali sono le condizioni delle donne carcerate, passa per molti mesi tre ore al giorno chiusa anch'essa negli stanzoni con loro. È’ umiliata, insultata, picchiata. Alla fine, la sua relazione alle autorità è così convincente che ottiene per le carcerate un edificio più salubre e condizioni di vita molto più umane.
Da quell'esperienza fatta sulla sua pelle (e dal suo immenso patrimonio) nascono le sue attività. Nel quartiere di Valdocco, accanto alle opere del Cottolengo, costruisce il «Rifugio», un istituto che accoglie le donne di strada che vogliono rifarsi una vita. Accanto, apre la casa delle Maddalenine, per le ragazze pericolanti che hanno meno di 14 anni. Va a raccoglierle lei stessa per le strade o gliele porta la polizia. Nel 1844 (ha ormai 59 anni) inizia una terza costruzione, l'Ospedaletto di Santa Filomena, per le bambine ammalate e storpie.
Don Bosco non lo sa ancora, ma fra pochi mesi diventerà cappellano di questo Ospedaletto, e nella Marchesa incontrerà una carissima nemica del suo Oratorio.
24. Sette mesi presso la Marchesa
Il padre piccolo
Erano passati tre anni e don Bosco aveva «imparato a fare il prete».
Nell'autunno 1844, don Cafasso lo chiamò e gli disse:
«Faccia la valigia e vada da don Borel al Rifugio. Sarà direttore del piccolo Ospedale di Santa Filomena. Lavorerà anche nell'Opera del Rifugio. Intanto Dio le indicherà ciò che deve fare per la gioventù».
«A prima vista - commenta don Bosco - quella decisione era in contrasto con le mie inclinazioni. Dovevo assumere la direzione di un ospedale, e inoltre predicare e confessare in un Istituto che ospitava quattrocento ragazze. Come avrei trovato il tempo necessario per l'Oratorio? Eppure, questa era la volontà di Dio. L'avvenire l'avrebbe dimostrato» (Memorie, 112).
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Don Giovanni Borel, che in quell'anno era diventato direttore del Rifugio, era un personaggio di spicco nella città di Torino. Godeva dei favori della corte reale da ben vent'anni. Nel 1824 era stato ammesso nella reggia come «chierico di camera e cappella del re». Nel 1831 era stato promosso «cappellano del re». Proprio in quel 1844 poté fregiarsi del titolo di «regio cappellano». Da vent'anni questo prete (chiamato per la sua statura «padre piccolo») conosceva personalmente la più esclusiva nobiltà di Torino, e poteva facilmente avvicinare i principi, le potentissime regine e lo stesso re.
Quando don Cafasso manda il giovane don Bosco da lui, vuole innanzitutto procurargli un lavoro e uno stipendio, garantiti dalla Marchesa di Barolo, perché sia più libero di dedicarsi ai giovani. Ma vuole anche mettere l'Oratorio sotto la protezione di don Borel, perché sia lui a trainare l'operazione, a prendere sotto l'ala il giovane prete dei Becchi e a procurargli quegli aiuti e quegli appoggi di cui ha bisogno.
L'amicizia di don Bosco con il regio cappellano, d'altra parte, si è già cementata in questi anni. Scrive: «Nei tre anni che avevo trascorso al Convitto, mi aveva più volte invitato a predicare e a confessare al Rifugio, dove faceva il prete in maniera eccellente. (...)Mi sono consultato più volte con lui per migliorare il mio lavoro nelle carceri (dove faceva apostolato pure lui) e per fissare le norme essenziali per un lavoro efficace tra i ragazzi. Il problema dei giovani abbandonati e in pericolo di rovinarsi richiamava sempre più l'attenzione» (Memorie, 112).
Negli anni seguenti, l'anima dell'Oratorio sarà don Bosco. I giovani si addenseranno intorno a lui. Invece di «andiamo all'Oratorio» diranno «andiamo da don Bosco». Ma il direttore «ufficiale», quello che chiede i permessi alle autorità civili ed ecclesiastiche, quello a cui vengono intimati gli sfratti e concesse le facoltà, è don Borel. Per alcuni anni dopo il 1844, mi assicura il prof. Giuseppe Bracco, «per trovare don Bosco fra le carte degli archivi municipali, bisogna anche e soprattutto cercare don Borel».
Il sogno ritorna
Il 12 ottobre 1844 è sabato. Il giorno dopo don Bosco dovrà comunicare ai ragazzi che l'Oratorio si trasferisce nella periferia di Valdocco. Sono solo 600 metri di distanza, e molti ragazzi (quelli che abitano in Borgo Dora) si troveranno addirittura più vicini a casa. Eppure don Bosco ha il cuore inquieto: non sa dove li radunerà, come saranno accolti, chi l'avrebbe seguito e chi no.
«In quella notte - scrive - feci un nuovo sogno, che mi sembrò la continuazione di quello fatto ai Becchi». Rivede il gregge sconfinato, la Signora vestita da pastorella che l'invita a mettersi alla testa del gregge «mentre essa lo precedeva». Vanno per luoghi diversi e si fermano tre volte. Mentre sostano in un prato, don Bosco si sente stanco, ma la Signora l'invita ad andare avanti.
«Percorso un ultimo, breve tratto, eccoci in un vasto cortile. Aveva tutto intorno un porticato, e all'estremità una chiesa. Il numero degli agnelli divenne grandissimo. Sopraggiunsero parecchi pastori per custodirli. Ma si fermavano poco, presto se ne andavano. Allora successe una meraviglia: molti agnelli si mutavano in piccoli pastori, che crescendo si prendevano cura del gregge. (...)
La Signora mi invitò a guardare verso sud. Vidi un campo seminato a granturco e patate... "Guarda un'altra volta", mi disse. Guardai di nuovo e vidi una chiesa alta e stupenda. (...) All'interno della chiesa correva una fascia bianca su cui, a caratteri enormi, stava scritto: "Questa è la mia casa. Di qui uscirà la mia gloria». (...) Quel sogno era durato quasi tutta la notte. Vidi tanti particolari che qui non ho saputo descrivere. Allora credevo poco a ciò che avevo visto, e meno ancora capivo che cosa significasse. Ma capii tutto man mano che gli avvenimenti si verificarono. Anzi, questo sogno insieme a un altro, mi servì più tardi come programma delle mie decisioni» (Memorie, lì 3s).
San Francesco di Sales sulla porta
Nelle prime domeniche don Bosco e i ragazzi dovettero arrangiarsi. Locali non ce n'erano, escluse le stanze di don Bosco e di don Borei. Ma c'erano i prati intorno, e la Marchesa aveva promesso «due camere spaziose all'interno dell'edificio» in costruzione.
8 dicembre 1844. E’ ancora la festa dell'Immacolata, come quando don Bosco incontrò Bartolomeo Garelli. Scrive: «Fa molto freddo e sta nevicando in maniera impressionante. Con il permesso dell'Arcivescovo benediciamo la sospirata cappella (nelle due camere concesse dalla Marchesa). Celebro la Messa, piango di consolazione perché l'Oratorio mi sembra cosa fatta. Potrò finalmente raccogliere i giovani più abbandonati e più in pericolo di incamminarsi per una cattiva strada. Potrò dar loro la possibilità di diventare amici del Signore» (Memorie, 117).
L'Oratorio, che viene da S. Francesco d'Assisi, da questo momento si chiama «di S. Francesco di Sales». Perché? Risponde don Bosco stesso nelle sue Memorie: perché l'immagine di questo santo savoiardo era stata fatta dipingere dalla Marchesa all'entrata del locale dove si radunavano i ragazzi, e perché Francesco di Sales era famoso per la sua bontà, e coi ragazzi bisognava essere come lui.
In quel tempo, in Piemonte, San Francesco di Sales era ciò che San Carlo era per la Lombardia: il santo di casa. Era stato per vent'anni vescovo ad Annecy, che faceva parte del regno dei Savoia.
Mesi di paradiso e di scuole serali
«Nella cappella vicino all'ospedaletto di Santa Filomena, l'Oratorio funzionava molto bene. Nei primi giorni di festa i ragazzi arrivavano numerosissimi per fare la Confessione e la Comunione. Dopo la Messa facevo una breve spiegazione del Vangelo. Nel pomeriggio c'era tempo per il catechismo, l'esecuzione di canti sacri, una
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breve predica sulla dottrina cristiana (...)
Alternati a questi impegni c'erano giochi e gare che divertivano i ragazzi. Si svolgevano nel viale che correva tra il monastero delle Maddalene e la strada pubblica.
Trascorremmo così sette mesi. Ci sembrava di essere in paradiso. Invece, anche di là, dovemmo partire per cercare un'altra sede» (Memorie, 118).
Giovanni B. Francesia, che fu amico di molti ragazzi di quel tempo, scrive: «Godendo di questa pace, (don Bosco) ebbe il pensiero di far loro qualche ora di scuola alla sera. Molti (...) non sapevano leggere, e dovendo lavorare durante la giornata, non potevano frequentare le pubbliche scuole. (...) Era bello vedere questi cari fanciulli, spesso tutti coperti di fuliggine, venire verso sera, finiti i lavori, all'Ospedaletto, dove abitava don Bosco, a cercare un poco d'istruzione» (VBP, 105).
25. In un cimitero e in un mulino
L'Oratorio tra le tombe
Man mano che la primavera avanza il numero dei giovani cresce. Nell'estate l'Ospedaletto sarà terminato e occorre abbandonare le due «camere spaziose».
In maggio don Bosco e don Borel cominciano a cercare un'altra dimora. A poca distanza c'è il cimitero di S. Pietro in Vincoli:
una cappella cemeteriale di circa 100 metri quadrati, un vasto campo in cui da 15 anni non si seppellisce più nessuno e un ampio porticato a pianta rettangolare. Pensare di far giocare cento ragazzi in un cimitero non è un'idea brillante, ma a volte la necessità spinge in direzioni disperate.
Don Tesio, 68 anni, cappellano del cimitero, accetta.
Il 25 maggio 1845 i ragazzi affollano la Messa, poi afferrano al volo la pagnotta della colazione e si scatenano rumorosamente sotto i porticati. La donna di servizio del cappellano, che sotto quei porticati alleva un bel branco di galline, resta allibita, poi va sulle furie. Si mette a gridare, a rincorrere, a menare la ramazza, mentre le galline spaventatissime fuggono tra le tombe inseguite dai ragazzi. «Insieme con lei - annota sorridendo don Bosco - urlavano contro di noi una ragazzina, un cane, un gatto e tutto un branco di galline. Sembrava imminente lo scoppio di una guerra europea».
Don Bosco capisce che la cosa migliore è andarsene. Ferma la ricreazione e s’incammina con i ragazzi verso l'uscita. Un incidente banale. Ma mentre escono, due ragazzi, Buzzetti e Melanotte, sentono don Bosco dire tranquillamente che loro se ne vanno, ma che purtroppo in settimana «se ne andranno» anche la domestica e il cappellano.
Secondo la Memorie di don Bosco, il cappellano quella sera stessa scrisse al Municipio una lettera molto pesante contro l'Oratono, ma sia lui che la sua domestica morirono in pochi giorni (Memorie, 123).
Lo storico Francesco Motto ha vagliato in 21 pagine a stampa questo episodio, per saggiarne il valore storico. Ecco, in sintesi, alcune conclusioni:
- Don Tesio morì effettivamente tre giorni dopo. Ne fanno fede due atti di morte (archivio di curia e archivio del comune).
- La domestica, Margherita Sussolino, chiese «la permissione di fermarsi alcuni giorni nel detto alloggio finché abbia potuto dar sesto ai suoi affari». Nella domenica seguente, di questa donna non c'è più traccia. (Non è stato però trovato l'atto di morte).
- Poiché con la morte di don Tesio il posto di cappellano è vacante, don Borel, don Pacchiotti e don Bosco lo chiedono e «fecero conoscere a voce che il loro desiderio sarebbe di veder nominato di preferenza il sacerdote Bosco». Ma l'opera dell'Oratorio, «nobile e santa», viene giudicata dalla Ragioneria poco conforme «col silenzio delle tombe». La richiesta è respinta.
I mulini e il terzo sfratto
La situazione per l'Oratorio si fa disperata: il 10 agosto l'Ospedaletto verrà inaugurato. È’ urgente sgombrare i locali. Poco lontano, nella cappella dei Mulini Dora, don Borel e don Bosco vedono una nuova opportunità. Ancora una volta si fa appello alla Ragioneria (= ufficio di amministrazione civica della città). La risposta è finalmente positiva.
«La Rag.a concede al sacerdote Teologo Borel la facoltà di servirsi della Cappella de' Mulini per catechizzarvi i ragazzi, concede anche non sia lecito ad alcuno di inoltrarsi nel recinto delle case de' Mulini e non si apporti il menomo impedimento alla celebrazione della messa nei giorni festivi a profitto degli impiegati tutti de' Mulini, fissando l'ora di detta catechizzazione dal mezzodì alle tre» (la sottolineatura è mia).
La Ragioneria, come si vede, pensava all'Oratorio come ad un catechismo. Quindi tre ore pomeridane erano più che sufficienti.
Don Bosco, invece, pensava all'Oratorio in maniera diversa: catechismo, Messa e Comunione, ricreazione per i ragazzi. Tre ore pomeridiane (allora che la Messa si doveva dire al mattino) erano insufficienti. Tuttavia era meglio che niente: si sopravviveva. «E così una domenica del luglio 1845 siamo andati a prendere possesso del nostro nuovo quartiere generale. Ognuno portava ciò che poteva, tra risate, tonfi, schiamazzi. Per il quartiere sfilavano bambini, ragazzi, panche, inginocchiatoi, candelieri, sedie, croci, quadri e quadretti. Una vera emigrazione fatta in allegria. In fondo al cuore, però, avevamo il rimpianto» (Memorie, 119).
Subito dopo, don Bosco scrive: «Ma c'erano delle difficoltà. Non ci era permesso celebrare la Messa... I
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ragazzi non potevano perciò fare la Comunione, che è l'elemento fondamentale del nostro Oratorio. La stessa ricreazione era molto disturbata: i ragazzi dovevano giocare... mentre passavano carri e cavalli» (Memone, 120).
Le difficoltà tuttavia non c'erano solo per don Bosco. Gli abitanti delle case annesse ai Mulini credevano si trattasse di un tranquillo catechismo in chiesa. Si trovarono invece a fare i conti con una marea di ragazzi chiassosi e trasbordanti in riva ai canali che facevano girare le grandi pale dei mulini. Don Bosco scrive: «Co- minciarono a diffondersi voci inquietanti nei nostri riguardi. I raduni dell'Oratorio, si diceva, erano pericolosi». E otto righe più avanti: «Il segretario dei Mulini... arrivò ad affermare che il nostro Oratorio era un centro di immoralità».
Il prof. Giuseppe Bracco, in un suo studio, pubblica la decisione della Ragioneria: «Il signor Direttore (dei Mulini) riferisce come i fanciulli sotto alla direzione del signor Teologo Borel abusino della facoltà che la Ragioneria ha fatto al medesimo di valersi della Cappella dei molini nei giorni festivi per catechizzarli, inol- trandosi nei molini, recandovi incomodo e disturbo, facendo immondizie, ecc. [Dichiara che] la fattagli concessione debba cessare col primo del prossimo venturo mese di gennaio» (ACT Ragionerie 1845 vol. 62 p. 388). Il corsivo è mio.
Dieci bambini che fanno la pipì nei canali dei mulini, come si vede, da parte di chi accusa può essere chiamato «immondizie», e da parte di chi è accusato e sfrattato «immoralità». Questione di suscettibilità, o forse solo di stanchezza.
Don Bosco era veramente stanco (ne parlerò nelle pagine seguenti). E doveva di nuovo cercare un posto per il suo Oratorio.
«Prendi, Michelino, prendi»
Ma negli stentati mesi di transizione che l'Oratorio passa ai Mulini, la Madonna manda a don Bosco un regalo prezioso. Mentre distribuisce medaglie ai suoi monelli, vede in disparte un ragazzetto pallido che lo sta a guardare in silenzio. Ha 8 anni, da due mesi gli è morto il papà, si chiama Michele Rua. Che cosa passò nella mente di don Bosco in quel momento? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che, finita la distribuzione delle medaglie, si avvicina al ragazzetto, gli tende la mano sinistra e facendo l'atto di tagliarla a metà con la destra gli dice sorridendo:
- Prendi, Michelino, prendi.
Il ragazzo guarda e non capisce. Prendere che cosa? Quel prete non gli dà niente. Allora don Bosco gli dice calmo, marcando le parole:
- Noi due faremo tutto a metà (MB 8,195).
Quel ragazzetto, che corre subito a casa a raccontare tutto a sua madre, diventerà il primo successore di don Bosco alla testa dei Salesiani.
Michele incontrò nuovamente don Bosco dai Fratelli delle Scuole Cristiane. A quasi 50 anni di distanza ricordava: «Quando don Bosco veniva al nostro istituto... non aveva ancora aperta la porta della cappella e già un fremito passava per i banchi. Ci alzavamo tutti, abbandonavamo i posti per accalcarci attorno a lui, feli- ci di potergli baciare la mano. I religiosi cercavano di frenare quel disordine: fatica sprecata».
26. Un prete impolverato e tanti ragazzi
«Più saremo e più faremo festa»
Per evitare incidenti sgradevoli con i vicini, don Bosco raduna i ragazzi ai Mulini, ma subito dopo li conduce a giocare nei prati incolti lungo la Dora: il fiume, tutto anse, si diramava allora in tre correnti, che formavano due isole e parecchie isolette.
Oppure li conduce a passeggio sulle colline. «Li conducevo fino a Sassi, alla Madonna del Pilone, a Madonna di Campagna, al Monte dei Cappuccini e fino a Superga. In queste chiese, al mattino celebravo per loro la Messa e spiegavo il Vangelo, al pomeriggio facevo un po' di catechismo, qualche racconto, cantavamo alcune lodi sacre. Quindi giri e passeggiate fino all'ora di far ritorno in famiglia. Sembrava che questa posizione critica dovesse mandare in fumo ogni idea di oratorio, e invece aumentò in modo straordinario i ragazzi» (Memorie, 124).
Un ragazzo che partecipò a quelle passeggiate ricordava che alla sera, «mentre eravamo per separarci dall'Oratorio, ci dava l'annuncio» della futura passeggiata. «Ci tracciava la via, ci dava l'orario della raccolta. Soggiungeva: "Se avete qualche amico, invitatelo a venire. Più saremo e più faremo grande la festa"». Du- rante la settimana, i ragazzi ci fantasticavano su, ne facevano «argomento di molti discorsi nelle nostre famiglie». E se ne parlava anche dopo. Quando ci si spingeva «a Superga qualche rarissima volta, od alla Madonna dei Laghi di Avigliana», lo si raccontava come un avvenimento favoloso. «Era un giorno che restava solenne nella nostra memoria, e che lasciava nell'anima un non so che di grande».
La gente vede passare la turba, il prete impolverato. Non è uno spettacolo consueto, in quel tempo in cui i preti tengono tanto alla loro «dignità». Qualcuno scuote la testa, qualcun altro lo compatisce. Comincia a diffondersi una voce che s'ingigantirà, e peserà dolorosamente su don Bosco: «Poveretto, è fissato per quei ragazzi. Con tutto quel chiasso finirà in manicomio».
Giochi di prestigio in casa Moretta
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All'arrivo dell'inverno, don Bosco persuade un prete, don Moretta, ad affittargli tre stanze in una casa di sua proprietà, nel Borgo Valdocco.
Nelle tre stanze i ragazzi si pigiano come acciughe, festosi, allegri. Appena il tempo lo permette, si esce a passeggio nel sole tiepido. Ma quando il tempo è rigido, tutti dentro, e don Bosco fa i giochi di prestigio. Fa spalancare la bocca a un piccolo spettatore e ne tira fuori decine di pallottole colorate. Fa scendere dal naso imponente di un giovanotto una fontana di monete, tra scrosci di risa e di applausi.
Ogni tanto interrompe i giochi e parla col cuore in mano ai suoi ragazzi. Racconta i fatti più belli della vita di Gesù, la storia dei santi.
In quelle tre stanze, nel pomeriggio della domenica si gioca, ma alla sera dei giorni feriali si fa sul serio: i ragazzi riprendono a venire per la scuola serale. Rubando un paio d'ore al sonno, arrivano a gruppetti, con la mantellina sulle spalle per difendersi dal gran freddo. Qualcuno si addormenta durante le lezioni, ma ha pregato in anticipo don Bosco di svegliarlo, perché vuole assolutamente imparare a leggere e a scrivere.
La salùte di don Bosco, in quell'inverno 1845-46, ha un abbassamento preoccupante. È’ giovane, ma sta lavorando troppo. È’ cappellano dell'Ospedaletto dove sono ricoverate ragazze handicappate. È’ impegnato nelle carceri, nel Cottolengo, in istituti educativi della città. Lavora nel suo Oratorio, va a trovare i ragazzi sul posto di lavoro, fa scuola serale. I ragazzi che vengono a scuola sono «sporchi e trasandati, dalle scarpacce e dagli zoccoli infangati, dai vestiti logori e maleodoranti, pericolosi... come veicoli di malattie polmonari o della pelle, di pidocchi e di pulci» (ST 3,162). E proprio i polmoni di don Bosco, in quei mesi, dimostrano una preoccupante fragilità.
Il teologo Borel gli raccomanda di diminuire gli impegni. La Marchesa lo chiama, gli dà cento lire per l'Oratorio (circa quattrocentomila lire del 1986) e l'ordine di prendersi un periodo di riposo assoluto. Don Bosco si concede una vacanza dall'Ospedaletto, disdice gli altri impegni, ma non se la sente di lasciare i ragazzi. Il vantaggio che ne ricava è poco, e presto dovrà rendersene conto.
L'Oratorio a cielo scoperto
Con il ritorno del bel tempo, nelle stanze di casa Moretta si scoppia (e i vicini hanno protestato violentemente con il proprietario per tutto quel chiasso). A cinquanta metri di distanza, don Bosco riesce ad affittare dai due fratelli Filippi un prato. Piazza una specie di capannone nel mezzo, per custodirvi gli attrezzi dei giochi. Attorno, ogni domenica, si rincorrono e si sbizzarriscono trecento ragazzi.
«Per le confessioni facevamo così. Di buon mattino, nei giorni di festa, mi recavo nel prato, dove già parecchi ragazzi mi aspettavano. Mi sedevo sulla riva di un fosso e ascoltavo chi voleva confessarsi. Gli altri facevano la preparazione o il ringraziamento» (Memorie, 128).
Verso le dieci rulla il tamburo militare, suonato fieramente da un ragazzone. I giovani si incolonnano. Squilla la tromba di Brosio, un bersagliere amico di don Bosco. E si parte: verso la Consolata o il Monte dei Cappuccini. Là don Bosco dice la Messa, distribuisce la Comunione, poi la colazione.
Don Lemoyne, nel secondo volume delle Memorie Biografiche, riporta la lunga testimonianza di Paolo C., che frequentò l'Oratorio «nel prato Filippi», e seguì la turba al Monte dei Cappuccini. Riporto un brano.
«Venne celebrata la Messa, in cui parecchi giovani si accostarono alla santa Comunione. Dopo breve predica e sufficiente ringraziamento, andarono tutti nel cortile del convento per fare la colazione... Io mi ritirai aspettando di unirmi ad essi nel ritorno, allorquando D. Bosco avvicinandomi mi parlò così:
- Tu come ti chiami?
- Paolino.
- Hai preso la colazione?
- No, signore.
- Perché?
- Perché non mi sono né confessato né comunicato.
- Non occorre né confessarsi né comunicarsi per avere la colazione.
- Che cosa si ricerca?
- Niente altro che l'appetito e la volontà di venirla a prendere -. Ciò detto mi condusse al cesto e mi diede in abbondanza pane e frutta.
Disceso dal monte, andai a pranzo, e dopo il mezzodì ritornai a quel prato, ove con tutto il mio gusto presi parte alla ricreazione fino a notte. Da quel punto per più anni non abbandonai l'Oratorio, e il caro don Bosco, che tanto bene fece all'anima mia... Quanti disagi sofferse, quanta pazienza lo vidi usare... per restituire a Dio certi cuori... pieni di cattive inclinazioni, rozzi e talora maligni. E quando riusciva a farli migliori dava segni di così grande contentezza, che stimava un nulla quanto aveva dovuto sopportare». (MB 2,387s).
27. Ospedale psichiatrico per don Bosco
I dubbi di don Borel
La salute malandata di don Bosco, gli sfratti continui al suo Oratorio, persuasero molti suoi amici che la sua era un'impresa disperata. Perché non chiudere e aspettare tempi migliori?
C'era poi un elemento che sconcertava anche quelli che avevano avuto sempre fiducia nel prete dei Becchi: raccontava come realtà i suoi sogni. Assicurava ai ragazzi che presto avrebbero avuto un oratorio grandioso, chiese e scuole, laboratori e cortili... Tutte cose difficili da credere mentre si trasbordava da un cimitero a un
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mulino, da una casupola a un prato. Don Bosco lo scrive senza girarci intorno: «Dicevano che ero impazzito». Ecco il suo racconto:
«Vedendomi preoccupato e sempre in mezzo ai ragazzi, cominciarono a insinuare che ero diventato matto. Un giorno, mentre erano presenti don Sebastiano Pacchiotti e altri preti, don Borel in camera mia disse:
- Qui, se non salviamo qualcosa, corriamo il rischio di perdere tutto. Sciogliamo l'Oratorio e teniamo con noi solo una ventina di ragazzi più piccoli... Intanto Dio ci indicherà la strada più opportuna per andare avanti.
- Non sciogliamo niente - risposi -. Abbiamo già una sede:
un cortile ampio e spazioso, una casa pronta per molti ragazzi, con chiesa e porticati. E ci sono preti e chierici pronti a lavorare per noi.
- Ma dove sono tutte queste cose? - mi interruppe don Borel.
- Non lo so. Ma so che esistono e sono a nostra disposizione.
Allora don Borel scoppiò a piangere. Esclamò:
- Povero don Bosco, è proprio andato.
Mi prese per mano, mi baciò e se ne andò con don Pacchiotti e gli altri. Rimasi solo nella mia stanza» (Memorie, 133).
Don Pacchiotti si espresse anche più vivacemente. Racconta G. B. Francesia: «Sentendo don Bosco dire che avrebbe fatto una chiesa, don Pacchiotti uscì in questa esclamazione: "Se lei sarà capace di fare una chiesa, io mangerò un cane". Io che scrivo, ho veduto quel pietoso incredulo nel giorno in cui fu poi messa la pietra fondamentale (della chiesa) di S. Francesco di Sales, avvicinarsi a don Bosco e dirgli queste parole: "Prendo viva parte alla sua festa, ma spero che mi vorrà dispensare dalla scommessa che ho fatto".
- Da quale scommessa? - soggiunse don Bosco.
- Di mangiare un cane! - terminò ridendo quel caro Sacerdote. Ed allontanandosi di là diceva: "Ora credo tutto"» (VBP, 113s).
Si muove la Marchesa
G. B. Francesia continua: «La stessa pia Marchesa di Barolo, che pure aveva aiutato in tante maniere don Bosco, vedendolo ora così fisso nell'idea dell'Oratorio, della Chiesa, dei Chierici e Sacerdoti, fece pregare nelle sue case, e tutta corrucciata diceva: "Preghiamo per don Bosco, preghiamo per don Bosco! Poveretto, così buono! Minaccia di venir pazzo!".
Questa pia signora nell'intento di prestargli un caritatevole servizio, pregò due venerandi Sacerdoti torinesi che si incaricassero di condurlo in bella maniera all'ospedale, ov'ella si proponeva fosse curato, pagandone tutte le spese» (VBP, 114).
I due «venerandi Sacerdoti» erano don Vincenzo Ponzati, parroco di S. Agostino, e don Luigi Nasi. L'ospedale era il manicomio. «Arrivarono, - scrive don Bosco -, mi salutarono con cortesia, poi mi domandarono notizie sulla salute, sull'Oratorio, sulla grande casa e la chiesa che io prevedevo come futura sede della mia opera. Alla fine sospirarono profondamente, e mormorarono:
- È’ proprio vero.
Mi indicarono la carrozza e mi invitarono a fare una passeggiata con loro. Dissero:
- Un po' d'aria ti farà bene. Avremo tempo di chiacchierare un po' insieme.
Mi accorsi subito dello "scherzo" che mi volevano fare, e senza far finta di niente li accompagnai alla carrozza. Insistetti perché entrassero essi per primi. Quando furono dentro, invece di seguirli, chiusi velocemente lo sportello e dissi al cocchiere:
- Al manicomio, presto! Questi due preti sono aspettati» (Memorie, 136).
La carrozza arrivò veramente al manicomio, e i due preti «che volevano curare don Bosco» furono trattati loro come due pazzi. L'eco dello scherzo passò di bocca in bocca, fece ridere mezza Torino. Eppure la voce che don Bosco era matto non si calmò. Michelino Rua, che era diventato uno dei suoi ragazzi più affezionati, lo raccontava tanti anni dopo a G. B. Francesia. Nella sua chiesa «aveva appena servito la Messa e si preparava ad uscire con visibile premura.
- Dove vai? - gli chiese il cappellano.
- Da don Bosco, è domenica.
- Non lo sai? È ammalato.
- Ma se l'ho visto da poco...
- Eppure è ammalato, e di una malattia che difficilmente guarisce...
Mi raccontava Michele che la notizia avuta in quel modo e in quel momento, gli andò diritta al cuore procurandogli un'indicibile pena. Mi diceva:
- Se avessi sentito che era ammalato mio padre, forse non avrei provato pena più grande.
Quale invece fu la sua meraviglia, quando giunse all'Oratorio e trovò don Bosco ridente come le altre volte. "Si è infatuato tanto dei giovani che gli ha dato di volta il cervello!", era questa la malattia di cui con malignità si andava dicendo in quei giorni a Torino».'
Don Bosco licenziato
Non sappiamo se la Marchesa, dopo l'esito poco brillante del suo progetto, continuò a dubitare delle condizioni mentali di don Bosco. Certo, continuò ad essere preoccupata del suo stato di salute. Tanto che, a fin di bene, arrivò ad un vero scontro. Don Bosco ci ha conservato il lungo dialogo conclusivo. Trascrivo i
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brani principali:
«- Sono contenta di ciò che sta facendo per le mie opere...
Sono addolorata perché l'enormità del suo lavoro sta rovinando la sua salute. Non è possibile che lei diriga le mie opere e contemporaneamente si dedichi ai ragazzi abbandonati. Ora poi il numero di questi ragazzi è cresciuto in maniera spropositata. Io le propongo di fare soltanto ciò che è suo stretto dovere: dirigere l'O- spedaletto... Per un po' di tempo non pensi più ai suoi ragazzi. Cosa mi risponde?
- Non si preoccupi... Tra me, don Borel e don Pacchiotti faremo tutto.
- Ma io non posso permettere che lei si ammazzi... Lei deve scegliere: o l'Oratorio o il Rifugio. Ci pensi con calma poi mi risponderà.
- La mia risposta è pronta da molto tempo. Lei ha denaro, e può trovare molti preti da mettere al mio posto. I miei ragazzi, invece, non hanno nessuno... Mi dedicherò a tempo pieno ai ragazzi abbandonati.
- Ma senza stipendio come farà a vivere?
- Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà ancora.
- Accetti un consiglio che le do come se fossi sua madre. Io continuerò ad assegnarle il suo stipendio, l'aumenterò se vuole. Lei prende questo denaro e se ne va... in riposo assoluto.. Se rifiuta questo consiglio, per il suo bene, sarò costretta a licenziarla. Ci pensi bene.
- Le ripeto che ci ho già pensato, signora Marchesa... Non posso lasciare la strada che la divina Provvidenza mi ha tracciato.
- Va bene - concluse -. Fra tre mesi, se non avrà cambiato parere, le troverò un sostituto come direttore dell'Ospedaletto» (Memorie, 134s).
28.L'ultimo sfratto
«C'ero io solo, operaio sfinito»
All'inizio di marzo, don Bosco riceve dai fratelli Filippi una lettera che lo getta nello sconforto. «I suoi giovani stanno facendo del nostro prato un deserto - scrivevano -. Anche le radici dell'erba sono consumate dal calpestio continuo. Le condoniamo volentieri il fitto scaduto, ma entro quindici giorni deve lasciar libero il prato. Non possiamo concedere dilazioni» (Memorie, 133).
Provò a ragionare con i fratelli, andò a parlare con la loro madre. Niente da fare. Cercò di affittare un altro prato, ma chi affitta ad un pazzo?
«Arrivò l'ultima domenica in cui potevo radunare l'Oratorio sul prato... La sera di quel giorno fissai a lungo la moltitudine dei ragazzi che giocavano. Era la "messe abbondante" del Signore. Ma operai non ce n'erano. C'ero io solo, operaio sfinito, con la salute malandata. Avrei ancora potuto radunare i miei ragazzi? Dove?
Mi ritirai in disparte, cominciai a passeggiare da solo e mi misi a piangere.
- Mio Dio - esclamai -, perché non mi indicate il luogo dove portare l'Oratorio? Fatemi capire dov'è, oppure ditemi cosa devo fare.
Avevo appena detto queste parole, quando arrivò un certo Pancrazio Soave, che balbettando mi disse:
- È’ vero che lei cerca un luogo per fare un laboratorio?
- Non un laboratorio, ma un oratorio.
- Non so che differenza ci sia. Ad ogni modo il posto c'è. Venga a vederlo. È’ proprietà del signor Francesco Pinardi, persona onesta. Venga e farà un buon contratto» (Memorie, 137).
(Nelle Memorie, scritte in gran parte tra il 1873 e il 1875, don Bosco fa un po' di pasticcio con i numeri: date e cifre. L'ultimo giorno sul prato non fu il 15 marzo, come lui scrive, né il 15 aprile, come corresse don Bonetti. Fu probabilmente l'8 marzo, pri-
ma domenica di quaresima. Lo si ricava da una lettera da lui scritta al Municipio e ritrovata recentemente). Accompagnato da Pancrazio Soave, arrivai davanti a una casupola a un solo piano, con scale e balcone di legno tarlato. Attorno c'erano orti, prati, campi. Stavo per salire su per la scala, quando il signor Pinardi mi disse:
- No. Il luogo per lei è qui dietro.
Era una lunga tettoia (15 metri per 6) che da un lato si appoggiava al muro della casa, dall'altro scendeva fino a un metro da terra. Poteva servire da magazzino o da legnaia, non per altro. Ci sono entrato a testa bassa, per non picchiare contro il tetto».
Francesco Pinardi, il proprietario della casa, era un immigrato di Arcisate (Varese). Aveva acquistato la casa nemmeno un anno prima, il 14 luglio 1845. Il 10 novembre aveva dato in affitto tutto il fabbricato (eccetto la tettoia in costruzione) a Pancrazio Soave, immigrato da Verolengo (Torino), che aveva tentato di impiantarvi una fabbrica di amido.
L'ultimo Rosario sull'erba
«- Troppo bassa, non mi serve - dissi.
- La farò aggiustare come vuole - rispose cortesemente Pinardi -. Scaverò, farò gradini, cambierò pavimento. Ma ci tengo che faccia qui il suo laboratorio.
- Non un laboratorio, ma un oratorio, una piccola chiesa per radunare dei ragazzi.
- Meglio ancora. (...)
Quel brav'uomo era veramente contento di avere una chiesa in casa sua.
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- Mio caro amico - gli dissi - la ringrazio della sua buona volontà. Se mi garantisce che abbasserà il terreno di 50 centimetri, posso accettare. Ma quanto vuole d'affitto?
- Trecento lire. (...)
- Gliene do trecentoventi, a patto che mi affitti anche la striscia di terra che corre intorno alla tettoia, per farvi giocare i ragazzi. (...)
- D'accordo. Contratto concluso. (...)
Tornai di corsa dai giovani, li raccolsi attorno a me e mi misi a gridare:
- Allegri, figli miei! Abbiamo l'oratorio dal quale più nessuno ci manderà via. Avremo chiesa, scuola e cortile per saltare e giocare. (...) È là, in casa di Francesco Pinardi! - e con la mano indicai il luogo.
Le mie parole fuono accolte con entusiasmo indescrivibile.(...) Ci siamo inginocchiati sull'erba per l'ultima volta, e abbiamo recitato il Rosario» (Memorie, 140).
Giovanni B. Francesia, compagno dei ragazzi che migrarono dal prato Filippi alla tettoia Pinardi, scrive che a trasformare la tettoia in cappella «posero mano don Bosco, i ragazzi e l'antico proprietario» (VBP, 118). Dopo una lunga giornata di lavoro, i piccoli muratori e i giovani meccanici vengono a dare una mano a don Bosco. Carriole, badili, secchie di calcina. Volti già stanchi eppure sereni, braccia giovani che lavorano per costruire la loro chiesa, il loro Oratorio. Quel battere, piantare, levigare è una musica grande.
29. «Don Bosco muore!»
Prati verdi tra le officine
«Quando i lavori di adattamento furono terminati - scrive don Bosco - l'Arcivescovo ci permise di benedire e di usare come chiesa quel povero locale. Questo avvenne la domenica di Pasqua, 12 aprile 1846.
La nuova chiesa era una costruzione poverissima. Tuttavia (...) le emigrazioni, a Dio piacendo, erano finite. A me questa chiesina sembrava il luogo dove in sogno avevo visto la scritta: "Questa è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria". I disegni di Dio, invece, erano diversi.
La sede del nostro Oratorio, purtroppo, era vicina a una casa dove abitavano donne di vita equivoca, e dove era aperta fino a notte l'osteria della Giardiniera. Lì, specialmente nei giorni festivi, si davano convegno gli ubriachi della città. Nonostante questi vicini allarmanti, abbiamo cominciato regolarmente le nostre riunioni» (Memorie, 143).
Don Bosco confessa i giovani, predica per loro, procura la colazione, gioca con loro, fa scuola a chi la desidera, li riporta in chiesa alla sera per il catechismo, parla con ciascuno dei suoi problemi.
Nella nuova sede i ragazzi aumentano sempre più, arrivano ad alcune centinaia ogni domenica. Questo è dovuto al fascino di don Bosco, ma anche alla sede che l'Oratorio, sballottato a destra e a sinistra, ha finito per trovare.
La regione di Valdocco, nella prima periferia della città, è ormai l'unica zona di prati liberi e sconfinati. Borgo Dora (il rione che si estende a nord-est di Valdocco) sta diventando la sede di «tutte le officine dei fabbricanti di grosse macchine, de' calderai, de' bottai, e di altri siffatti mestieri, per liberare gli abitanti dell'interno della città dal rumore insopportabile che per esse facevasi». Nella zona del «Balòn» si contano nove concerie di pelli, molte manifatture della seta, i mulini pubblici. Nella grande piazza Emanuele Filiberto, che salda Borgo Dora con la città, c'è il mercato generale dove tanti ragazzi «si arrangiano» per sei giorni alla settimana, attendendo che un padrone venga ad offrire loro un lavoro stabile (ST 3,72s).
Uscire da questo Borgo, dalle sue fabbriche allucinanti e dalle vie maleodoranti, e trovare tra i prati verdi don Bosco, era per tanti ragazzi la parentesi consolante della settimana. E lo era anche per tanti ragazzi del Martinetto, la zona a ovest di Valdocco, dov'erano diverse filande di seta, una manifattura di cotone, due concene di pelli, due fornaci di tegole e mattoni. Per questi ragazzi lavoratori don Bosco impegnava tutte le sue forze. Ma anche lui era soltanto un uomo, e in un pomeriggio caldissimo di luglio «fui preso da un grande sfinimento. Dovettero portarmi a letto».
«Morirò assistito da voi»
«Ero seriamente malato: bronchite, tosse, febbre violenta. In otto giorni giunsi al limite tra la vita e la morte. Mi diedero la comunione come Viatico e l'Unzione degli infermi. Ero pronto a morire. Mi rincresceva abbandonare i miei ragazzi».
Giovanni B. Francesia ricorda che in quei giorni «venne ad assisterlo la sua madre» (VBP, 123).
«Quando si sparse la notizia che la mia malattia era grave - continua don Bosco - tra i giovani si diffuse un dolore vivissimo... Ogni momento, alla porta della stanza dov’ero ricoverato, arrivavano gruppi di ragazzi. Piangevano e chiedevano mie notizie. Non se ne volevano andare» (Memorie, 157s).
I medici avevano proibito ogni visita, nessuno era lasciato entrare. Ma Francesia ricorda: «Egli stesso ci diceva che quando i medici pronunziarono la sentenza che ormai la sua vita era terminata, soggiunse: "Ora potrò lasciar venire avanti i giovanetti?". "Faccia come vuole". Allora fece aprire la porta e permettere che venissero liberamente a visitarlo. "Almeno - loro diceva - così morirò assistito da voi. Ma nessuno dubiti, se io muoio il Signore manderà altri a prendere il mio posto"» (VBP, 124).
L'affetto a don Bosco spinse i ragazzi a pregare e a far sacrifici eroici per strappare a Dio la grazia che non morisse. «Molti promisero alla Madonna di recitare il Rosario intero per mesi, altri per un anno, alcuni per tutta la vita... Sono certo che molti giovani muratori digiunarono a pane e acqua per settimane intere, continuando il
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lavoro pesante dal mattino alla sera. Il breve intervallo di tempo libero che veniva loro concesso andavano a passarlo davanti al Santissimo Sacramento.
Dio li ascoltò. Era un sabato sera, i medici fecero consulto e pronunciarono la sentenza: quella sarebbe stata la mia ultima notte. Ne ero convinto anch'io, perché non avevo più forze e avevo continui sbocchi di sangue. A notte avanzata sentii una gran voglia di dormire, e mi assopii. Quando mi svegliai ero fuori pericolo. I medici Botta e Caffasso mi visitarono al mattino, e mi dissero di andare a ringraziare la Madonna per grazia ricevuta» (Memone, 158).
I fiori di Porta Palazzo
La notizia gettò la gioia tra i ragazzi. Parecchi giorni dopo, don Bosco fece dire loro che sarebbe tornato all'Oratorio. Francesia ricorda: «In quella mattinata furono comprati quanti più fiori si poterono, e si sparsero dalla casa del rifugio fino all'Oratorio. Le rivenditrici di Porta Palazzo, meravigliate di tanti giovanetti che venivano a comprar fiori, domandavano per qual santo, per quale festa.
- Che santi! Che santi! È per don Bosco - si diceva -, egli viene all'Oratorio. Fu ammalato a morte e oggi ritorna...
- Chi è don Bosco?
- È quel prete che raduna tanti ragazzi e li sa istruire così bene.
- È stato ammalato?
- Assai assai; ma oggi viene all'Oratorio e facciamo una bella festa» (VBP, 125).
«Appoggiandomi ad un bastone mi recai all'Oratorio. Mi accolsero cantando e piangendo - scrivè don Bosco -. Cantarono un inno di ringraziamento a Dio, mi avvolsero di acclamazioni e di entusiasmo» (Memorie, 158).
I più grandi lo obbligarono a sedere sopra un seggiolone, e lo portarono come un re sul trono, mentre i più piccoli gridavano intorno e agitavano verso di lui i loro poveri fiori. Entrarono ad affollare la cappellina, perché là, nel tabernacolo, c'era Colui che aveva loro restituito don Bosco. Giovanni Bonetti ricostruisce le parole che, tra le lacrime, don Bosco riuscì a dire ai suoi piccoli amici:
- Vi ringrazio... Sono persuaso che Dio ha concesso la mia vita alle vostre preghiere. La gratitudine vuole che io la spenda tutta per voi. Così prometto di fare finché il Signore mi lascerà su questa terra. E voi... aiutatemi (CL 113).
Subito dopo, don Bosco fece un gesto da grande educatore:
«Provvidi a una faccenda importante. Molti, quand'ero in pericolo di vita, avevano fatto voti e promesse enormi, praticamente impossibili da mantenere, spinti dall'emozione e dall'affetto. Le cambiai in promesse più semplici e leggere» (Memorie, 159).
I medici gli prescrissero alcuni mesi di convalescenza, ed egli andò a trascorrerli con la sua famiglia, ai Becchi. Ma promise: «Prima che cadano le foglie d'autunno, ritornerò».
30. Una mamma e una casa per chi non ce l'ha
Ritorno a Valdocco
Camminando per i prati e le vigne, dove i grappoli stavano maturando per la vendemmia, don Bosco progettò con calma il suo avvenire. Sarebbe tornato a Torino, anche se don Cafasso e don Borel lo consigliavano di prolungare la sua convalescenza in qualche altro luogo. E a Torino sarebbe andato ad abitare nell'Oratorio, nelle tre stanze che aveva subaffittato dal Soave fin dal 5 giugno.
Avrebbe ripreso (con calma, per non rischiare nuovamente la salute) il progetto che la malattia aveva temporaneamente interrotto: dare ospitalità ai ragazzi più miseri e senza famiglia.
La zona di Valdocco, però, era segnata da quella «casa dove abitavano donne di vita equivoca». Non era il luogo adatto per un prete che viveva solo e teneva al suo buon nome.
Per questo motivo, un giorno don Bosco prese il coraggio a due mani e disse a sua madre:
«- Mamma, dovrei andare ad abitare a Valdocco. Dovrei prendere una persona di servizio. Ma in quella casa abita gente di cui un prete non può fidarsi. L'unica persona che mi può garantire dai sospetti e dalle malignità siete voi.
Essa capì la serietà delle mie parole, e rispose:
- Se credi che questa sia la volontà del Signore, sono pronta a venire.
Mia madre faceva un grande sacrificio. Non era ricca, ma in famiglia era una regina. Piccoli e grandi le volevano bene e le ubbidivano in tutto» (Memorie, 160).
Partirono dai Becchi la mattina del 3 novembre. Margherita fece un'ultima carezza ai quattro nipotini che lasciava con molto rincrescimento, guardò la sua casa, i suoi campi. Aveva visto gli uragani sradicare gli alberi. La vita sradicava anche lei. La portava, a 58 anni, nella città che non conosceva.
«Abbiamo fatto tappa a Chieri - scrive don Bosco -, e la sera del 3 novembre siamo arrivati a Valdocco. A vedere quelle camere sprovviste di tutto, mia mamma sorrise e disse:
- Ai Becchi avevo tante preoccupazioni per far andare avanti la casa, per comandare ciò che ognuno doveva fare. Qui sarò molto più tranquilla» (Memorie, 161).
L'8 novembre era domenica, e per i ragazzi dell'Oratorio fu festa grande. Don Bosco e sua madre, seduti in mezzo al prato, ascoltarono canti e auguri da quell'esercito di giovani che si ammassava intorno.
La preoccupazione prima di don Bosco fu di riprendere e di allargare la scuola domenicale e quella serale. Il
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primo dicembre subaffittò dal Soave tutta la casa Pinardi per 710 lire annue. (L'atto notarile non porta la firma di don Borel, come i precedenti, ma quella di don Bosco). Con l'aiuto di don Carpano, don Nasi, don Trivero, don Pacchiotti si faceva scuola dappertutto: nelle stanze, nella cucina, nella chiesa. Più si dava possibilità di istruzione, ricordava don Bosco, più il numero dei ragazzi saliva.
«Nell'inverno 1846-47 le nostre scuole serali diedero ottimi risultati. Avevamo in media 300 alunni ogni sera. Le materie che insegnavamo erano lingua e aritmetica, ma anche musica e canto, che tra noi furono sempre fiorenti. Ma fra gli alunni c'erano anche fior di monelli, che guastavano o mettevano sottosopra tutto» (Memorie, 162).
Era uno spettacolo vedere alla sera le stanze illuminate, piene di ragazzi e giovani: in piedi dinanzi ai cartelloni, con un libro in mano, nei banchi intenti a scrivere, seduti per terra a scarabocchiare sui quaderni le lettere grandi.
Un ragazzo portato dalla pioggia
Anche alla domenica il numero dei ragazzi saliva sempre più. Oscillava ormai tra i 400 e i 500. Nella chiesina ce ne stava una piccola parte. «D'inverno - ricorda Pietro Stella - il pavimento della cappella all'Oratorio era coperto di una poltiglia melmosa». Nell'estate che seguirà, la stessa cappella si trasformerà in «una nauseabonda accolta d'individui dal fiato pesante e dagli indumenti puzzolenti; ma l'odore non differiva da quello che la maggior parte dei giovani trovavano nelle strade e nelle proprie case. Confessare i giovani nella cappella era una penitenza per un prete, per poco che si fosse abituato a cambiare la biancheria con una certa periodicità» (ST 3,163).
Ma don Bosco non pensa soltanto a confessarli. Sa che tra essi ce ne sono di quelli che, a notte, non hanno nemmeno «un lurido sacco pieno di foglie o di paglia» in una soffitta. Il suo progetto è di dare, a questi sotto- poveri, ospitalità nella casa che ha subaffittato.
Il primo arriva nel maggio del 1847, portato dalla Provvidenza e da una pioggia infinita. Lo racconta don Bosco con molta semplicità:
«Una piovosa sera di maggio bussò alla nostra porta un ragazzo di 15 anni, tutto bagnato e intirizzito. Ci chiese pane e ospitalità. Mia madre lo fece entrare in cucina, vicino al focolare. Mentre si scaldava e si asciugava, gli diede pane e minestra. Intanto gli domandai se era andato a scuola, se aveva parenti, che mestiere faceva. Mi rispose:
- Sono un povero orfano. Vengo dalla Valsesia a cercare lavoro. Avevo tre lire, ma le ho spese tutte e non ho trovato lavoro. Adesso non ho più niente e non sono più di nessuno.
- Hai già fatto la prima Comunione?
- No.
- E la Cresima?
- Nemmeno.
- Sei già andato a confessarti?
- Qualche volta.
- E adesso dove vuoi andare?
- Non lo so. Per carità, lasciatemi passare la notte in un angolo.
Silenziosamente si mise a piangere. Anche mia madre piangeva, e io ero profondamente turbato.
- Se sapessi che non sei un ladro ti terrei. Ma degli altri ragazzi mi hanno portato via le coperte, e forse tu farai come loro.
- No, signore. Stia tranquillo. Io sono povero ma non ho mai rubato.
- Se sei d'accordo - disse mia madre - per questa notte lo faccio dormire qui. Domani Dio provvederà.
- Qui dove?
- In cucina.
- E se porta via le pentole?
- Farò in maniera che non succeda.
- Allora d'accordo.
Aiutata dal ragazzo, mia mamma uscì fuori e, raccolse dei mezzi mattoni, li portò dentro, fece quattro pilastrini, vi distese alcune assi, mise sopra un pagliericcio e preparò così il primo letto dell'Oratorio. La mia buona mamma, a questo punto, fece a quel ragazzo un discorsetto sulla necessità del lavoro, dell'onestà e della religione. Poi lo invitò a recitare le preghiere.
- Non le so - rispose.
- Allora le reciterai con noi - gli disse. E pregammo insieme.
Per non correre pericoli, la cucina fu chiusa a chiave fino al mattino dopo. Questo fu il primo ragazzo ospitato nella nostra casa» (Memorie, 168s).
31. Giuseppe, Carlino: i ragazzi della speranza
Promemoria disparati
Dopo il ragazzo della Valsesia (che non rubò le pentole) arrivarono altri orfani rimasti soli da un giorno all'altro, immigrati in cerca del primo lavoro. Furono ospitati nella «casa annessa all'Oratorio» (che chiamerò «convitto») insieme a un paio di preti e a un chierico che alloggiavano da don Bosco, e contribuivano con la
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pensione regolare a mantenere in piedi la baracca.
La registrazione di chi entrava e di chi usciva (ci assicura Pietro Stella) non esiste. Ci sono appunti di don Bosco, promemoria disparati. Don Bosco faceva del bene come poteva, non prendeva appunti per la storia. Secondo Bonetti e Francesia, nel primo anno (1847) furono ospitati sette ragazzi.
Per loro don Bosco trasformò due camere vicine in un piccolo dormitorio, piazzò i letti, appese alla parete un crocifisso, un'immagine della Madonna, un cartello con sopra scritto «Dio ti vede».
Al mattino presto don Bosco dice Messa per loro, poi, addentando una pagnotta, vanno a lavorare in città, nella bottega di un falegname o di un fabbro, in un negozio o in un caffè dove prestano servizio come garzoni. Don Bosco va in città con loro: a cercare elemosine per mantenerli e vestirli, a scrivere i suoi libri nella biblioteca del Convitto, a fare scuola di catechismo dai Fratelli e nelle carceri, a trovare i ragazzi dell'Oratorio sui luoghi di lavoro.
Quando tornano a notte, «trovano il vitto preparato, i letti più o meno in ordine, le stanze rassettate, la biancheria più o meno rattoppata dalla mamma di don Bosco» (ST 3,177).
Per gestire quella prima, microscopica comunità, don Bosco aveva bisogno di un giovane aiutante di cui fidarsi a occhi chiusi. Ma non solo questo: un ragazzo che rimanesse con lui per sempre, e fosse il primo «agnello che diventa pastore», il primo di quei chierici e preti che la Madonna gli aveva promesso tante volte in sogno.
Il quindicenne preso per mano
Da anni don Bosco seguiva Giuseppe Buzzetti, il ragazzo affezionato all'Oratorio come a casa sua, che manifestava indole dolce, carattere mansueto, e che ora aveva compiuto i 15 anni. Don Bosco aveva investito tante speranze in quel ragazzo.
Una sera del 1847 tentò. Lo racconta lo stesso Giuseppe: «Era una domenica sera, e me ne stavo a osservare la ricreazione dei miei compagni. La festa era per noi un vero giorno di riposo, e me lo godevo tutto dalla mattina alla sera. Quel giorno avevo fatto la Comunione coi miei fratelli, quindi ero proprio contento. Don Bosco faceva ricreazione con noi, raccontandoci le più care cose del mondo. Intanto veniva la notte, e mi preparavo a tornare a casa. I miei fratelli mi avevano preceduto per preparare un po' di cena. Quando mi avvicinai a don Bosco per salutarlo, mentre parlava con quanti se ne andavano, mi fermò per la mano... La- sciai sfollare tutti. Rimasto solo con lui....
- Bravo - mi disse -, sono contento di poterti parlare. Dimmi, verresti a stare con me?. - A stare con lei? Si spieghi.
- Tu fai il muratore, è vero? Ebbene, io vorrei che mi aiutassi a fare tante altre cose.... - Ma non capisco!.
- Ho bisogno di raccogliere dei giovanetti che mi vogliano seguire nelle imprese dell'Oratorio. Tu saresti uno... Io comincerò a farti un po' di scuola... E se Dio lo vorrà, a suo tempo potresti essere sacerdote.
Io guardavo in faccia don Bosco... e mi pareva di sognare... Poi egli aggiunse:
- Parlerò con tuo fratello Carlo, e faremo quanto sarà meglio nel Signore».
Carlo fu d'accordo, e Giuseppe venne ad abitare con don Bosco e mamma Margherita. Don Bosco gli affidò il denaro e l'economia della casa, con fiducia totale. E in due anni di studio lo preparò a vestire l'abito nero dei chierici. Era chiamato il «chierico Buzzetti», ed era considerato da tutti il vice-don Bosco. Fu lui a prendere da parte Michele Rua (cinque anni meno di lui) e a fargli una seria paternale perché non si impegnava nello studio.
Ma poi non se la sentì più. Approfittando di un incidente di salute svestì l'abito dei chierici. Con don Bosco sempre, ma prete no. Rimase il confidente e il braccio forte di don Bosco, il cireneo della casa, il primissimo salesiano, anche se si sentì di entrare nella congregazione religiosa solo a 45 anni, quando Michele Rua (il ragazzo a cui aveva fatto la paternale) era già Prefetto Generale dei Salesiani.
Una mancia e una casa per Gastini
Dopo Buzzetti arrivò Carlo Gastini. La sua storia (da lui raccontata infinite volte) è scritta con particolari e dialoghi sia da Francesia che da Bonetti.
Un giorno del 1843 (quando era ancora al Convitto) don Bosco era entrato in una barbieria. Si era avvicinato un piccolo garzone per insaponarlo.
- Come ti chiami? Quanti anni hai?
- Carlino. Ho undici anni.
- Bravo Carlino, fammi una bella insaponata. E tuo papà come sta?
- È’ morto. Ho soltanto la mamma.
- Oh, poverino, mi dispiace -. Il ragazzo aveva finito l'insaponata -. E ora su, da bravo, prendi il rasoio e radimi la barba.
Accorse il padrone allarmato:
- Reverendo, per carità! Il ragazzo non ci sa fare. Lui insapona soltanto.
- Mi sun don Bosc (Io sono don Bosco) e lui sa benissimo fare la barba a un c'a lé d'bosc (a uno che è di legno). Forza, Carlino.
Carlino tagliò quella barba tremando come una foglia. Sudava. Qualche raschiatura energica la diede, ma arrivò alla fine.
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- Bravo, Carlino! - sorrise don Bosco -. E ora che siamo amici, voglio che vieni a trovarmi qualche volta. Gastini cominciò a frequentare l'Oratorio, e divenne amicissimo di don Bosco. E don Bosco continuò a frequentare il sabato la sua barbieria. Confidava poi a Francesia: «Don Bosco partiva più di una volta da sotto i miei ferri come San Bartolomeo (il santo scorticato vivo). Ma in parte la colpa era anche sua. Don Bosco non voleva mai stare in silenzio. Ora mi diceva: "È da molto tempo che ti sei confessato? Domani verrai all'Oratorio? Come sta tua madre?". Insomma non mi lasciava mai quieto. Io poi ero un garzone, e stavo là sotto l'occhio minaccioso del padrone, tremavo come una foglia. E don Bosco? Sempre tranquillo. Pagava, metteva una piccola mancia per me, e partiva, facendosi promettere che l'indomani sarei andato a trovarlo ». Nell'estate del 1847, don Bosco lo trovò che piangeva vicino alla barbieria.
- Cosa ti è capitato?
- È’ morta mia mamma, e il padrone mi ha licenziato. Mio fratello più grande è soldato. E adesso dove vado?
- Vieni con me. Io sono un povero prete. Ma anche quando avrò soltanto più un pezzo di pane lo farò a metà con te. (È la frase che tanti ragazzi si sentirono dire da don Bosco, e che conservarono nel cuore come un tesoro: don Bosco sarebbe sempre stato la loro sicurezza).
Anche Gastini è un ragazzo su cui don Bosco punta molte speranze. Ma Carlino all'inizio è svagato come una farfalla, non sa impegnarsi sui libri. E non ne vuol sapere molto di chiesa e di confessione. E sotto il suo guanciale che don Bosco mette il famoso biglietto: «Carlo, se morissi questa notte, dove andrebbe l'anima tua?». È’ una scossa salutare. Quella sera stessa Gastini va a bussare alla porta di don Bosco e a confessarsi. Diventa più serio, più impegnato. Don Bosco lo fa studiare accanto a Buzzetti, gli fa indossare insieme con lui la veste nera dei chierici, nella festa della Purificazione di Maria, il 2 febbraio 1851.
Tre anni dopo, però, il chierico Gastini sente nuovamente la primavera come una farfalla. Le parole di san Filippo Neri, fatte proprie da don Bosco, «State allegri, basta che non facciate peccati», comportano una presenza amorevole ma continua degli assistenti tra i ragazzi che il convitto ospita giorno e notte. Ma a volte sono gli assistenti stessi che deludono don Bosco. Nella primavera del 1854 egli scrive sul registro di condotta: «Viale, Olivero, Luciano, Gastini, la sera del 7 maggio uscirono senza licenza e giunsero a casa che tutti erano già a letto, dovendo perciò attraversare il cancello già stato chiuso». Carlino, ventunenne, aveva fatto una scappatella con altri tre. Parteciperà coraggiosamente all'assistenza dei colerosi nell'estate successiva, ma nel 1855 poserà la veste da chierico e si ritirerà dall'Oratorio. Don Bosco scrive cinque, sten- tate parole accanto al suo nome: «Andò a dimorare da sé» (ST 3,255s).
Carlino rimarrà sempre amicissimo di don Bosco, di casa a Valdocco. Allegro, vivace, diventerà il presentatore brillante di ogni festa. Ma in quelle cinque parole di don Bosco c’è un grande sogno infranto.
I poveri gioielli della mamma
Con l'arrivo dei primi ragazzi, cominciò per don Bosco e per sua madre il problema di mettere insieme il pranzo cori la cena. Le «entrate» dei piccoli lavoratori ospiti dell'Oratorio erano modestissime: un piccolo muratore guadagnava 40 centesimi a giornata, e il pane costava 37 centesimi al chilo...
«Come vivere, che cosa mangiare, come pagare l'affitto? - scrive don Bosco -. E questo non era tutto: molti ragazzi mi domandavano ogni momento pane, scarpe, camicie, abiti. Ne avevano assoluto bisogno per presentarsi al lavoro» (Memorie, 161).
Don Bosco cominciò ad andare a bussare alle case dei nobili e dei ricchi. La prima benefattrice dell'Oratorio, però, non fu una Contessa, ma sua madre.
Scrive: «Abbiamo fatto arrivare da casa un po' di vino, frumento, granturco, fagioli. Per far fronte alle prime spese abbiamo venduto una vigna e alcuni campi. Mia madre si fece mandare il suo corredo da sposa che fino allora aveva custodito gelosamente. Alcune sue vesti servirono a fare pianete. Con la biancheria si fecero tovaglie d'altare... Mia mamma possedeva pure una piccola collana d'oro e alcuni anelli. Li vendette per comprare oggetti necessari alla chiesa» (Memorie, 161).
Giovanni Bonetti ricorda: «Per quanto la buona donna fosse distaccata dalle cose del mondo, tuttavia lo spropriarsi di questi preziosi ricordi le costò non poca pena. Una volta che ne parlava la udii a dire: "Quando mi vidi quegli oggetti per l'ultima volta tra mano... mi sentii pel rincrescimento alquanto turbata; ma non appena me ne accorsi dissi: Andate là, che sorte migliore non vi potrebbe toccare, quanto si è quella di sfamare e vestire poveri fanciulli, e fare onore in chiesa"» (CL, 125).
Don Bosco ha riacquistato la salute, ha consolidato l'Oratorio che conta cinquecento ragazzi alla domenica e alcune centinaia alle scuole serali, ha raccolto in casa sua i primi ragazzi che gli permettono di guardare con speranza all'avvenirè. Può appena tirare il fiato prima del durissimo impatto con la politica. Essa sta scoppiando a Torino e in tutta l'Italia come una scarlattina, virulenta e pericolosa malattia infantile.
32. Politica ad alta tensione
Quattro anni di guerra e poi la sconfitta
In Piemonte i preti facevano politica da mille anni. Una politica che si può condensare in due parole: fedeltà e collaborazione. Al duca, al principe, al governo di turno. La formula «trono e altare» (cioè concordia tra Stato e Chiesa) era sinonimo di ordine e di pace. Se si andava d'accordo, se i sudditi erano fedeli, la pace era garantita, o, se c'era la guerra, c'era la speranza che la pace tornasse presto. E la pace, per i contadini piemontesi, era il bene supremo: nessuno portava via i figli, nessuno veniva a calpestare i campi. Si poteva
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lavorare per il pane quotidiano.
Ma poi qualcosa si guastò.
Nel settembre 1792 (tre anni dopo l'inizio della Rivoluzione Francese) un esercito della Francia si impadronì della Savoia e di Nizza, dando automaticamente inizio alla guerra contro il Piemonte. Un esercito austriaco di 30 mila uomini venne ad appoggiare i Piemontesi. Durante i quattro anni di guerra, nelle chiese si fecero preghiere pubbliche perché Dio «protegga la patria dal nemico che calpesta ogni religione, oltraggia le chiese e i sacerdoti del Signore». Ma nel 1796 la guerra è perduta. Il re se ne va. A Torino e nei paesi si piantano gli «alberi della libertà» dei rivoluzionari. Molti preti vanno a benedirli. Il Chiuso, nel secondo volume di La Chiesa in Piemonte da cui prendo queste notizie, scrive: «Una parte non piccola di ecclesiastici non dubitarono di schierarsi coi patrioti». L'arcivescovo di Torino, mons. Buronzo, scrive ai parroci e ai fedeli (che fino allora erano stati invitati a pregare contro i rivoluzionari): «Eccoci dichiarati solennemente liberi, uguali, repubblicani. Siane le mille volte lodato l'Altissimo. La grande nazione trionfatrice ne sia pur ringraziata, la quale... è amichevolmente accorsa a unirsi al Piemonte» (p. 44).
Nelle chiese, al posto del Te Deum, l'inno di ringraziamento giudicato reazionario, si canta il Magnificat che con il suo «ha deposto i potenti dai troni» viene giudicato più adatto ai rivoluzionari.
Tre anni dopo, nel 1799, mentre Napoleone è in Egitto, gli austro-russi invadono nuovamente l'Italia del nord. Torino è riconquistata al grido di «Viva il re, a morte i rivoluzionari». Nel Duomo si ringrazia Dio con il reazionario Te Deum. L'arcivescovo Buronzo scrive a parroci e fedeli: «Chi di voi avrebbe pensato, che dal polo settentrionale... avremmo noi con' somma sorpresa e letizia veduto venire, per liberarci dal tirannico giogo, due armate potenti... che sarebbero volate a spezzare le nostre catene e a rivendicare i diritti dell'ottimo nostro sovrano?» (p. 120s).
Partiti e correnti in Seminario
L'anno dopo, 1800, Napoleone torna. Torino è ripresa dai francesi. Monsignor Buronzo fugge. Il disorientamento di preti e cristiani è grande. Canonici di S. Giovanni e teologi del Corpus Domini mandano offerte all'amministrazione patriottica. Ancora Magnificat nelle chiese. Monsignor Buronzo si umilia davanti a Napoleone nel castello di Moncalieri, si dice disposto a giurargli fedeltà. Anche per la Chiesa sono anni di profonde umiliazioni. Papa Pio VII tenta un Concordato, facendo a Napoleone concessioni enormi. Napoleone, non contento, aggiunge di propria iniziativa altri articoli al Concordato. Si arriva a inserire nei Catechismi domande e risposte sull'obbligo di obbedire al «grande imperatore Napoleone».
Quando nel 1809 Pio VII scomunica Napoleone, tensioni gravi si creano nelle diocesi e nei seminari. Nascono partiti e correnti contrapposte: favorevoli al Papa, favorevoli a Napoleone. I cristiani non possono non esserne scandalizzati.
1813, battaglia di Lipsia. 1815, battaglia di Waterloo. Napoleone è definitivamente sconfitto. Ancora una volta le posizioni si rovesciano. Nelle chiese si ricanta il Te Deum. Nelle lettere pastorali dei vescovi piemontesi si leggono frasi di questo tono: «La rete è stata spezzata, e noi siamo liberati!». La restaurazione dei troni è «opera solo delle mani di Dio».
Vescovi come girandole?
Con il ritorno del re, a Torino sembra definitivamente ristabilito il «vecchio regime». Ma a soli sei anni di distanza, nel marzo 1821, scoppiano i «moti» per la Costituzione. Portano Vittorio Emanuele I in esilio, Carlo Felice sul trono, il giovane reggente Carlo Alberto a concedere la Costituzione (...). Il primo segretario di Stato, Dal Pozzo, sollecita i vescovi «affinché raccomandino preghiere, pubbliche azioni di grazie per Carlo Alberto». I vescovi hanno appena scritto in questo senso, che Carlo Felice (da Modena dove si trova) sconfessa Carlo Alberto e lo manda in esilio.
Ancora una volta nel clero c'è un forte sbandamento. Mentre Carlo Alberto se ne va, a capo del governo costituzionale è posto un canonico, don Marentini. Ma Carlo Felice, rientrando, scaglia le sue ire sul malcapitato canonico, e l'arcivescovo Chiaverotti scrive ai fedeli «non doversi attribuire ad altri che alla Provvidenza divina l'essere scomparsa, come polvere al vento, quella nuova specie di governo che si voleva sostituire alla monarchia» (Chiuso, 3,73).
Questi vescovi che hanno cambiato tante volte le carte in tavola, hanno di certo scandalizzato molti cristiani. Sembrano girandole. Ma se si esamina con attenzione la loro azione, sono un'altra cosa: persone che hanno cercato disperatamente di rimanere fedeli al principio che da più di mille anni ha regolato le relazioni tra Chiesa e Stato: fedeltà e collaborazione; alleanza tra trono e altare.
La nascita dei figli, la loro educazione, i matrimoni, l'organizzazione della vita collettiva, tutto si era sempre svolto nell'armonico intervento di Stato e Chiesa. Spezzare questo legame sembrava una catastrofe, un disastro che avrebbe precipitato tutto nel disordine.
Per questo (non per viltà né per leggerezza) i vescovi hanno fatto salti mortali: allinearsi ogni volta con l'autorità costituita.
La politica del Padre nostro
Ma la politica è cambiata. Presto, con le Costituzioni e i Parlamenti, i governi saranno equilibri instabili di tendenze contrapposte. Se i preti e i vescovi continueranno a fare politica, ci saranno conseguenze gravissime: metteranno Dio sui gagliardetti di una parte, non terranno unito ma divideranno il popolo cristiano.
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Don Bosco in questi anni carichi di politica ad alta tensione, capisce che se la politica è questa, i preti devono stame fuori.
Avrà grossi guai per questo suo atteggiamento, ma ripeterà con risolutezza: «Il prete cattolico non ha altra politica che quella del Vangelo» (MB 6,679).
I preti, i religiosi, i suoi Salesiani dovranno attestare la loro azione su capisaldi ben più solidi dei partiti e delle correnti: le anime da salvare, i giovani poveri da nutrire ed educare, il regno di Dio da far venire nel mondo. Tutto questo lui lo chiamerà «la politica del Padre nostro».
Non fu un atteggiamento esclusivo di don Bosco. Già don Cafasso diceva ai preti suoi alunni: «Non prendetevi a cuore le cose politiche. La politica del prete è quella del Vangelo e della carità» (MB 6,222). Mentre brontolano all'orizzonte i primi tuoni di quel gran temporale che sarà il 1848, parecchi vescovi piemontesi hanno lo stesso atteggiamento. Purtroppo non è quello dominante, nemmeno tra gli alunni di don Cafasso. Sotto il temporale i preti si divideranno, i seminaristi si ubriacheranno di politica romantica. Persino il grande don Cocchi andrà ad «agitare la bandierina tricolore» per le strade, e tenterà di partecipare alla guerra con i suoi ragazzi.
Ma passata la grande esaltazione i vescovi piemontesi si riuniranno a Villanovetta di Saluzzo (luglio 1849) e decideranno di «vietare agli ecclesiastici di prendere parte a circoli e adunanze politiche... di non schierarsi pro o contro nessun candidato politico» (Chiuso 3,293 ss).
È’ l'inizio timido e rassegnato di quella separazione tra Stato e Chiesa che, tra ripensamenti e travagli, progredirà sempre più. Don Bosco non ha quindi assunto una posizione originale e strana. Ha semplicemente seguito (e forse un po' anticipato) la posizione dei suoi vescovi.
Ma prima che i vescovi si pronuncino, scoppia il 1848.
33. 1848: la coccarda tricolore
Gli applausi di Carlo Alberto e di Garibaldi
Il 1848, come ogni albero, ha radici un po' lontane. Affondano nel giugno 1846, quando a sorpresa fu eletto Papa il giovane cardinale Mastai-Ferretti (54 anni), che prese il nome di Pio IX. In Italia si aspettava un liberatore. Lo si era cercato a Torino, a Napoli, a Modena. Invece spuntava (o meglio, tutti credevano che stesse spuntando) nella città meno pronosticata, Roma. «Tutto mi sarei aspettato, ma non un Papa liberale», mormora desolato il potente cancelliere austriaco Metternich, da 34 anni gendarme dell'assolutismo.
Si ingannava anche lui. Ma Pio IX stava facendo tutto il necessario perché si ingannasse lui e tanti altri. Non aveva idee liberali, ma non gli andava che l'Austria ficcasse il naso e i cannoni in ogni angolo d'Italia. E lo disse papale papale. Era persona umana, e perciò liberò quei prigionieri politici che erano stati incarcerati per un po' di chiasso fatto sulle piazze. Gli parve giusto che gli amministrati di ogni comune eleggessero i loro amministratori (non eleggevano mica il Papa!), e che, salva la buona educazione e il rispetto alle autorità, sui giornali si potesse scrivere ciò che si pensava. Queste cose, ovvie per papa Mastai, fecero scoppiare il pandemonio. Tutti gridavano che era arrivato il Papa neoguelfo profetizzato da Gioberti, che Pio IX sarebbe diventato il primo presidente della federazione d'Italia.
Pio IX aveva anche lui le sue debolezze. Gli piacevano gli applausi, e quindi li accettò dalla gente (che dovunque gli improvvisava cortei e luminarie), da Carlo Alberto (che gli offrì la sua spada), da Garibaldi (che gli mise a disposizione le sue «camicie rosse»), un po' meno da Mazzini (che prese il tono dello Spirito Santo consigliere e protettore).
Non si rese subito conto che tutto ciò avrebbe portato inevitabilmente alla guerra contro un'altra nazione cattolica, l'Austria, e prima o poi alla scomparsa dello Stato Pontificio.
Era un bravissimo prete, Pio IX, ma un politico ingenuo. Mentre ingenui non erano i liberali, che decisero di balzare sul suo carrozzone e di farne la bandiera della guerra all'Austria, salvo abbandonarlo e indicarlo al pubblico disprezzo appena si fosse ribellato al ruolo di utile strumento nelle loro mani.
Che il Papa fosse il primo a concedere le «libertà» soppresse da 34 anni, ebbe l'effetto di una miccia accesa in una polveriera. L'Europa scoppiò.
Le grandi città videro le barricate nelle strade, sentirono il crepitio della fucileria, si accesero di sacro furore davanti al sangue dei «primi martiri della libertà». La rivoluzione incendiò Parigi (23-24 febbraio), Vienna (13 marzo), Berlino (15 marzo), Budapest (15 marzo), Venezia (17 marzo), Milano (18 marzo).
Perché i liberali, i borghesi, i patrioti e gli operai si battevano sulle barricate?
Volevano innanzitutto che i re assoluti, padroni della vita e della morte dei loro sudditi, creatori di barriere doganali suicide per i commerci, difensori del divieto di sciopero e di sindacati (e quindi causa della vita disumana nelle fabbriche) smettessero di essere assoluti. Ogni re doveva essere affiancato da un Parlamento che facesse le leggi, doveva giurare fedeltà alla Costituzione (= legge fondamentale che garantisce i diritti dei cittadini).
E poi si battevano perché l'Austria la smettesse di essere il carabiniere delle monarchie assolute, imposte dal Congresso di Vienna.
Le rivoluzioni ebbero successo fulmineo: i re sbalzati, l'Austria travolta. A un certo punto Radetzky, il generalissimo capo della armata austriaca in Italia, si trovò a combattere per un imperatore che con la corte era fuggito dalla capitale, per un cancelliere che aveva dato le dimissioni ed era scappato in Inghilterra, contro una rivoluzione che aveva già trionfato nella capitale del suo impero, Vienna, e aveva impiccato ad un
lampione il ministro della Guerra.
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Ci si batte per il 2 per cento
In Italia gli operai non partecipano alle rivoluzioni (unica eccezione Milano). Le Costituzioni che i liberali vogliono imporre ai re assoluti sono scritte dai borghesi e difendono i diritti dei borghesi. Si reclama il diritto di votare per il 2 per cento della popolazione (i più ricchi), si chiede l'abbattimento delle barriere doganali che impediscono i commerci, ma non si dice nemmeno una parola sul diritto di sciopero e sui sindacati. I proletari devono rimanere proletari.
Per questo il 1848 italiano è dominato dai liberali, e passa attraverso tre fasi: le Costituzioni, le insurrezioni contro l'Austria, la guerra contro l'Austria guidata da Carlo Alberto.
Don Bosco manca alla festa
Spinto dagli atteggiamenti del Papa (e da un insurrezione di Palermo), il re delle Due Sicilie è il primo a concedere la Costituzione (29 gennaio).
Il secondo è Leopoldo, granduca di Toscana (17 febbraio).
Poi fu la volta di Carlo Alberto. Indeciso come sempre, il re era angosciato di dover infrangere il solenne giuramento fatto 24 anni prima a Carlo Felice. Pare che abbia chiamato l'arcivescovo di Vercelli, d'Angennes, per sapere se con quel giuramento sulla coscienza poteva dare la Costituzione, o doveva abdicare. Certo, il 2 febbraio stava pensando seriamente all'abdicazione, e cinque giorni dopo promise solennemente la Costituzione. La firmò il 4 marzo.
Tra il 7 febbraio e il 4 marzo ci fu il primo scontro duro di don Bosco con la politica.
Per il 27 febbraio i liberali avevano preparato a Torino una grande «festa di ringraziamento» per la promessa della Costituzione (chiamata «Statuto»). La vastissima piazza Vittorio era affollata di delegazioni fatte affluire da ogni parte del Piemonte, Liguria, Sardegna, Savoia. Tutte le organizzazioni di Torino erano state invitate a intervenire in massa. Il corteo verso piazza Vittorio fu imponente: 50 mila persone sfilarono davanti al re a cavallo.
L'arcivescovo Fransoni (contrario alle idee liberali) si era rifiutato di celebrare la Messa e di cantare il Te Deum nella chiesa della Gran Madre che campeggia su piazza Vittorio. Permise solo che si desse la benedizione eucaristica. Aveva pure proibito ai chierici del Seminario di intervenire. Ma essi si ribellarono all'ordine, e sfilarono con la coccarda tricolore sul petto.
Anche l'Oratorio fu invitato a intervenire. Lo racconta don Bosco stesso, registrando nelle Memorie parole importanti per capire il suo pensiero:
«Il marchese Roberto d'Azeglio, principale promotore di quelle manifestazioni, ci fece un invito formale perché vi partecipassimo.(...) In piazza Vittorio era preparato un posto per noi accanto a tutti gli istituti di Torino. Che fare? Rifiutare era come dichiararsi nemico d'Italia. Acconsentire significava accettare certi principi che io consideravo pericolosi. (...)
- Signor marchese, è mio fermo sistema tenermi fuori da ogni cosa che si riferisce alla politica. Mai in favore, mai contro.
- Che cosa vuol fare allora?
- Fare tutto il bene possibile ai ragazzi abbandonati. Adoperare tutte le forze perché diventino buoni cristiani di fronte alla religione e onesti cittadini in mezzo alla società civile.
- (...) Lei si sbaglia. Se persiste in questo principio sarà abbandonato da tutti, e la sua opera diverrà insostenibile. (...)
- La ringrazio della sua buona volontà e dei consigli che cerca di darmi. Mi inviti a qualche cosa dove il prete possa esercitare concretamente l'amore del prossimo, e mi vedrà pronto a sacrificare tutto ciò che possiedo, anche la vita. Ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica.
(...) D'allora in poi non ebbe più relazioni con noi. Anche molti laici ed ecclesiastici, dopo di lui, mi abbandonarono... Rimasi praticamente solo» (Memorie, 1 83s).
Caccia al prete
Dopo la firma della Costituzione (4 marzo) a Torino non ci furono feste e fiaccolate. Si scatenò invece la caccia ai nemici della Costituzione, che i liberali additarono nell'Arcivescovo, i Gesuiti, il Convitto di don Guala e don Cafasso, le Dame del Sacro Cuore (suore insegnanti).
«In quei giorni - scrive don Bosco - una specie di frenesia si diffuse tra i giovani. Si radunavano in vari punti della città, nelle vie e nelle piazze, prendevano d'assalto preti e chiese. Ogni offesa alla religione era considerata una bella impresa. Io fui assalito più volte in casa e in strada.
Un giorno, mentre facevo catechismo, un colpo di archibugio (= fucile antiquato) entrò per una finestra, mi stracciò la veste tra il braccio e il torace, e andò a fare un largo squarcio nel muro.
Un'altra volta, mentre ero in mezzo a una folla di ragazzi, in pieno giorno, un tale che ben conoscevo mi assalì con un lungo coltello. Mi salvai per miracolo, fuggendo in camera mia e sbarrando la porta.
Don Borel sfuggì per miracolo a un colpo di pistola. Sfuggì anche ad alcune coltellate assassine un giorno che fu scambiato per un'altra persona. Era difficile calmare e far cambiare idea a quei giovani scatenati. (...) Nell'anno 1848 ci fu un tale pervertimento di idee e di azioni che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me e da mia madre» (Memorie,
173ss).
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Sbandamento anche tra i preti
Lo sbandamento dei preti «politici», in quel tempo di frenesia, è grave. Il Chiuso narra i fatti principali in venti pagine del suo terzo volume. Accenno soltanto.
Il fenomeno più grave è la ribellione del Seminario maggiore. Già alla Messa di Natale celebrata dall'Arcivescovo in Duomo, i seminaristi si schierano in presbiterio con la coccarda tricolore sul petto. Ripetono l'esibizione (disobbedendo a un divieto formale) alla «festa di ringraziamento» del 7 febbraio. Nei giorni seguenti organizzano una «serata patriottica». Portano nel salone una statua della libertà, la imbandierano di tricolori, e declamano a turno romantiche composizioni all'Italia e a Carlo Alberto, tra accensione di fiaccole e inni patriottici. Padre Marcantonio Durando, sentendo tutto quel rumoreggiare, socchiude la porta e sospirando ammonisce: «Dite il Rosario, figlioli, dite il Rosario». L'Arcivescovo ha idee reazionarie, e quindi ha i suoi torti anche lui. Non può comunque tollerare questa provocazione continua. Chiude il seminario e manda tutti a casa.
I Padri di San Domenico, per festeggiare lo Statuto, la sera del 9 febbraio pongono sulla porta della chiesa queste parole illuminate: «Iddio Ottimo Massimo Ti colmi di benedizioni, o re Carlo Alberto, benefattore sommo dei tuoi popoli». Dal Monte dei Cappuccini un frate esaltato spedisce alla Camera dei deputati un «In- vito Sacro»: chiede che gli ordini religiosi vengano soppressi, non essendoci mezzi migliori per riformarli. Tra i Padri della Missione, un gruppo di «spiriti leggeri e imprudenti, scossi dai rivolgimenti dei tempi», vogliono instaurare un regime popolare, si ribellano ai superiori, organizzano trame segrete mediante corrispondenza clandestina.
Il prete Perini compì forse l'atto più meschino di questo periodo. Quando, il 29 marzo, mons. Fransoni partì per l'esilio in Svizzera, accettò l'incarico dell'Economato di Stato e andò di persona a sequestrare i beni del suo Arcivescovo.
In questo tempo di prima libertà, il popolo veniva spinto anche con mezzi impensati a odiare i preti e i religiosi. Domenico Bongiovanni, fratello di uno dei primi preti di don Bosco, ricorda che in quei mesi «accorreva con avidità ai teatri popolari della Cittadella». E vedeva «grandiose scene di banditi mescolate a quelle paurose dell' Inquisizione... Frati e sacerdoti» erano raffigurati mentre «spiccavano la testa dal busto» della povera gente «e poi, orribile a dirsi, si servivano dei teschi per giocare alle bocce». E commenta: «Era un'arte perversa, ma purtroppo persuasiva... Io, con la mia agitata fantasia, mi riempiva di furore e provava un odio implacabile contro i Religiosi».
Il liberalismo - Nota
Nell 846 le radici della Rivoluzione Francese avevano ormai dato origine ad un nuovo sistema ideologico, il liberalismo. Sarebbe sciocco vedere nel 1800 il primo tentativo dell'umanità di raggiungere la libertà. Tutta la storia umana - cito da Pietro Scoppola - è storia di libertà, di progressiva conquista o almeno di lotta per la libertà. Ma l'aspirazione alla libertà che si riscontra nel 1800, e che è stata ribattezzata liberalismo, ha una sua fisionomia particolare. Si riallaccia direttamente alla Costituzione francese del 1791, che nel preambolo affer- ma: «Gli uomini sono nati e restano liberi e uguali nei loro diritti... Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione. La fonte di ogni sovranità sta essenzialmente nella nazione».
La radice storica di questo liberalismo - afferma Guido De Ruggero - èla negazione dell'autorità ecclesiastica operata dalla riforma protestante, che a sua volta si è evoluta, attraverso l'illuminismo di Voltaire, nella affermazione dell'assoluta autonomia dell'uomo, che non riconosce altra legge che quella del-la propria ragione. Queste libertà si accompagnano quindi con una totale indifferenza verso la religione e la rivelazione cristiana.
Un liberalismo così concepito non poteva non dichiararsi anticlericale, ed era combattuto dalla Chiesa, non tanto per le sue conclusioni ma per le sue premesse, le sue radici ideologiche.
Ma accanto al liberalismo anticlericale, in Italia è sorto anche un liberalismo cattolico, che ha i suoi maggiori esponenti in Rosmini, Manzoni, Lambruschini, Capponi. Per essi la libertà proclamata dalla Rivoluzione (nella quale sono racchiuse le libertà civili e politiche, di coscienza e di stampa) è un valore cristiano, qualunque sia la sua radice storica contingente. La libertà umana ha la sua vera radice nella dignità interiore, religiosa, spirituale di ogni uomo.
Nel Piemonte del 1846 erano quindi presenti due forme di liberalismo: una anticlericale e una cattolica. Entrambe premevano su Carlo Alberto per ottenere due obiettivi: la costituzione che garantisse le libertà civili e politiche dei cittadini, e la guerra all'Austria che desse l'avvio all'unità d'Italia.
Alla testa del movimento liberale, in questi anni, è Vincenzo Gioberti, che con il suo libro Il Primato civile e morale degli Italiani, ha tentato di dare a tutto il liberalismo un volto moderato e cattolico, contrassegnato con il nome «neoguelfismo» (cf P. SCOPPOLA, «La Chiesa e il Liberalismo nel secolo XIX» in Studio e insegnamento della storia, AE-UCIIM, Roma 1963).
34. Guerra in Lombardia e nei prati
A Torino un silenzio che mette paura
18 marzo 1848. Milano inizia la rivolta contro le truppe austriache di Radetzky. Il giorno dopo, inviato dai
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Milanesi, giunge a Torino il conte Arese. Chiede l'intervento delle truppe piemontesi prima che il feldmaresciallo austriaco passi al contrattacco.
Carlo Alberto è impreparato. Gran parte dell'esercito è stato inviato in Savoia, dove si teme un attacco della Francia nuovamente rivoluzionaria. Il Consiglio dei Ministri non sa che decidere, e quindi prende tempo. Ma la mattina del 21 giunge un messaggio urgente da Milano, «reca che le cose vanno male per i cittadini» (PINTO, 287).
23 marzo. Il re rompe gli indugi e dichiara la guerra. Una gran folla, a notte, è riunita davanti al Palazzo reale. Carlo Alberto si affaccia alla loggia «tra la luce ondeggiante dei doppieri portati dai valletti». Alle grida della gente risponde agitando il tricolore (che da questo momento sostituirà la bandiera azzurra dei Savoia).
Nella notte tra il 24 e il 25 il re e il principe ereditario partono per il confine del Ticino alla testa di 60 mila uomini. L'8 e il 9 aprile l'avanguardia piemontese entra in contatto con gli austriaci e si accende la prima battaglia.
I reggimenti, richiamati in gran fretta dalla Savoia, sostano qualche ora a Torino, e proseguono impolverati per il fronte. Vengono sequestrati tutti i cavalli per il trasporto dell'artiglieria e dei carriaggi. Torino si trova di colpo con tutte le carrozze ferme. Un silenzio che mette paura.
Oratoriani al fronte
Francesia ricorda quei giorni vissuti a Valdocco:
«Quando fu dichiarata la guerra del 1848, e il nostro re Carlo Alberto partì per mettersi alla testa dell'esercito, molti di quei giovanotti, che erano stati dei primi a frequentare l'Oratorio (sei-sette anni prima), dovettero partire per la guerra. Don Bosco, come padre affettuoso, li raccolse insieme, e diede a tutti salutari consigli, assicurandoli che si sarebbe pregato per loro. Ed essi scrivevangli sovente, e facevano voto di tornar presto a Torino al loro caro Oratorio. (...)
Don Bosco intanto teneva loro dietro colla carta geografica, segnava i posti delle battaglie, puntando degli aghi qua e là, e poi ci spiegava le notizie dei compagni lontani. (...)I giovanetti specialmente più adulti, infervorati da don Bosco, quasi tutte le domeniche venivano a fare la santa Comunione per i compagni soldati. E con quanto affetto ne aspettavamo le notizie. Se don Bosco annunciava di aver ricevuto lettere, o direttamente o per mezzo dei parenti, si faceva subito un gran silenzio d'attorno per intenderle tutte» (VBP, 146).
La tromba del bersagliere
Ma le notizie della guerra spingevano i ragazzi non soltanto a pregare. Le piazze di Torino, i prati di periferia si trasformavano per loro in campi di battaglia. Finita la scuola, o appena usciti dalla bottega o dalla fabbrica, si armavano di bastoni, si univano in bande, eleggevano un capo, si gettavano gli uni contro gli altri. Nascevano battaglie paurose, con giovani feriti seriamente. Specialmente nei giorni di festa le piazze, i viali, le periferie sembravano diventati altrettanti campi di combattimento (CL 186).
Don Bosco, mentre tanta gente si lamentava di quella nuova piaga, sfruttò quel clima di guerra per inventare un nuovo gioco. Il suo amico Giuseppe Brosio era stato bersagliere, e di battaglie se ne intendeva. Don Bosco l'invitò a venire all'Oratorio con la tromba e la divisa, e a formare un piccolo reggimento con i giovani più vivaci e battaglieri. Contemporaneamente chiese al Governo duecento vecchi fucili da esercitazione, con la canna sostituita da bastoni.
«C'era una vita indescrivibile - ricorda Francesia - quando al dopopranzo si aprivano le camere dove si tenevano i vari arnesi per la ricreazione. Era una furia a gettarsi sopra i fucili di legno massiccio... E con che aria, con che aspetto, con che maestà si facevano quei marziali esercizi» (VBP, 141).
La gente accorreva agli squilli della tromba e alle urla dei combattenti. I due battaglioni si schieravano ai lati opposti del prato, al segnale di battaglia levavano il grido urrà, poi si puntavano contro i fucili per la scarica. Si partiva quindi per la carica alla baionetta, si accendeva la mischia, ci si aggirava sui fianchi per sorprendersi a vicenda. Alla fine il generalissimo «gettava nella battaglia» le ultime riserve. Ci voleva tutta l'autorità di Brosio e di don Bosco per dichiarare finita la battaglia, con la gente che batteva le mani e don Bosco che girava tra vinti e vincitori con un cartoccio di caramelle (CL 310). Il bersagliere riceveva le congratulazioni degli spettatori, e, ricorda sorridendo Francesia, «voleva assolutamente ricontarci per la millesima volta le sue avventure».
In chiesa a ridere e a imparare
Portare in chiesa quei ragazzi dopo la battaglia era una fatica nera. Eppure don Borel e don Bosco ci riuscivano, perché avevano rispolverato per quei giorni una maniera di predicare che ai giovani piaceva moltissimo.
«Cominciarono a fare la predica domenicale sotto forma di dialogo». Don Bosco si mescolava ai ragazzi, e attaccava don Borel (che stava sul pulpitino) con domande così comiche che faceva ridere tutti a crepapelle. Don Borel rispondeva sgridando il ragazzaccio, con il tono di un vecchio parroco infuriato. Poi, poco a poco, la conversazione scendeva al pratico: si discuteva sulla bestemmia, sulla partecipazione alla Messa, sulla gioia di chi ha la coscienza in pace con il Signore. Ma sempre con battute allegre, frizzi vivaci. Quel metodo, adottato per i difficili giorni di guerra, non fu più abbandonato dall'Oratorio. Per i giovani «fu sempre cosa desideratissima. Bastava che si dicesse che la domenica vi sarebbe stato il dialogo, perché la Cappella si
riempisse di piccoli uditori» (CL 191).
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Il 29 aprile cambia tutto
La guerra del Piemonte contro l'Austria era diventata quasi spontaneamente la guerra dell'Italia contro l'Austria.
Pio IX aveva mandato, al comando del generale Durando, 17 mila uomini «ai confini dello Stato Pontificio». Dovevano «difendere» i confini o passarli per dar man forte a Carlo Alberto? Il Papa non aveva dato nessun ordine in questo senso, ma Durando i confini li passò, e schierò i pontifici a battaglia.
Dieci giorni dopo, sull'esempio del Papa, anche Ferdinando di Napoli manda 16 mila soldati, anche Leopoldo permette a volontari toscani di partire.
All'inizio è un crescendo di vittorie (Radetzky è frastornato:
il suo Governo è quello del cancelliere Metternich che è fuggito all'estero o quello degli insorti che hanno occupato Vienna e hanno issato sul campanile più alto la bandiera nero-rosso-gialla? Gli Austriaci vogliono la sua vittoria o quella dei rivoluzionari?).
Ma giunge il 29 aprile. Pio IX, messo alle strette, deve chiarire se sta dalla parte della guerra o della pace. Il prezzo è alto: un possibile distacco (= scisma) della cattolica Austria dal Papa. In pubblico discorso, il Papa dichiara solennemente che, come padre di tutti i popoli, non può farsi promotore di guerre contro nessuno dei suoi figli.
La delusione in Italia è enorme. La popolarità di Pio IX crolla. La stampa (per chi sa leggere) e il teatro (per chi è analfabeta) sono gli strumenti con cui si incita la gente contro il Papa, chiamato «traditore e nemico d'Italia». Le pesanti vignette dei giornali umoristici dipingono i preti come luridi topi di sacrestia che rodono e divorano l'Italia.
Anche don Bosco riceve le sue. Gruppi di giovinastri piantano il ballo nel prato davanti al portone dell'Oratorio. I ragazzi che entrano e che escono sono coperti di insolenze sporche. I canti della chiesetta sono sommersi dalle risatacce. A volte tetto e finestre sono bersaglio di rabbiose grandinate di sassi.
Le notizie che arrivano dalla zona di guerra sono un rotolare di sconfitte. Le truppe regolari del Papa, di Napoli e di Toscana se ne vanno. Rimangono solo i volontari. A Custoza, durante una battaglia durata tre giorni, Radetzky annienta i Piemontesi. Anche Milano è abbandonata (Milano che spara fucilate a Carlo Alberto «traditore»). Il 9 agosto si firma l'armistizio Salasco con gli Austriaci ormai ai bordi del Piemonte.
Le grandi speranze che in primavera erano fiorite, l'estate le sta bruciando. Il re di Napoli ha ritirato la Costituzione. A Milano sono tornati gli Austriaci. Parigi e Praga hanno visto tornare l'ordine sulle bocche dei cannoni. L'Imperatore è tornato a Vienna portato dalle truppe del dittatore militare principe Windischgràtz che in un giorno ha fatto impiccare tredici generali passati agli insorti. Pio IX è addirittura fuggito da Roma dopo l'assassinio del suo Primo Ministro, Pellegrino Rossi.
Esercizi Spirituali come una sorgente
Don Bosco è un prete semplice, alla mano. Ma sulle cose ci ragiona. Scrive: «In quell'anno (1848) uno spirito di vertigine si levò contro gli Ordini religiosi e contro le Congregazioni ecclesiastiche, di poi in generale contro al Clero...». Non lo spaventa che ci sia gente a gridare contro i preti (ce n'è sempre stata). Cerca invece la causa per trovare qualche rimedio. Gli pare di capire che la causa stia qui: gran parte dei preti «non è del popolo». Proviene da famiglie nobili e signorili, o almeno benestanti.
Se si vuole che la gente torni a sentire i preti come «suoi», occorrerà andarli a cercare non più «tra le famiglie agiate», ma tra «quelli che maneggiano la zappa o il martello».
Raggiunta questa convinzione, don Bosco passa immediatamente ai fatti. (Non sciuperà mai un minuto, nella sua vita, a piangere sui tempi tristi). «Con questo pensiero cominciai a invitare qualcuno (dei giovani) a tenermi compagnia a pranzo o alla sera. Venivano a leggere, a scrivere, a studiare, e intanto discutevamo le opinioni velenose che circolavano in quei giorni contro la religione... Lo facevo avendo in mente (di) osservare, conoscere, scegliere alcuni individui adatti alla vita comune, e proporre loro di rimanere con me. Puntando sempre in questa direzione, nel 1848 ho tentato un piccolo corso di Esercizi Spirituali. Raccolsi una cinquantina di ragazzi. Facevano pranzo e cena con me, ma poiché non c'erano letti per tutti, alcuni andavano a dormire a casa...
Riuscirono molto bene. Diversi ragazzi, attorno ai quali avevo lavorato inutilmente per tanto tempo, cominciarono una seria vita cristiana» (Memorie, 1 76s).
Don Bosco che, in mezzo ai terremoti politici e anticlericali del '48, chiama agli Esercizi Spirituali una cinquantina di piccoli lavoratori in una casupola in riva alla Dora, è uno spettacolo sconcertante. Esattamente come (dieci anni dopo) la ragazzina Bernadette che, nella Francia devastata dalla rivoluzione e dilaniata dalle leggi anticlericali, si metterà a scavare con le mani nell'angolo fangoso di una grotta dei Pirenei.
Due gesti insignificanti, ridicoli per i professionisti della politica e i programmatori scientifici della società. Eppure da quella grotta fangosa scaturirà una vena di acqua misteriosa che ridonerà salute e speranza a folle di gente.
Da quella settimana di Esercizi Spirituali scaturirà una sorgente di sacerdoti nuovi, dalla veste impolverata e dal sorriso aperto, che la gente sentirà come «suoi» preti. Negli Oratori delle periferie li vedrà volentieri giocare e pregare con i suoi figli, e accetterà da loro il Vangelo condito di allegria e semplicità.
35. Il cucchiaio in tasca
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La fatal Novara
L'armistizio con l'Austria durò sétte mesi, e a Torino ci fu il tempo di rovesciare quattro governi. Accuse, odio, tensione si respiravano. L'uomo più potente era Gioberti, capo dei democratici, ubriaco di vanità. Trattava il re come uno scolaro dalla testa dura, martellava in Parlamento la sua parola d'ordine: riprendere la guerra. Nessuno osava ribellarsi. «Se vogliamo salvare la monarchia, dobbiamo riprendere la guerra», scriveva rassegnato il ministro Perrone, che come generale sapeva però come sarebbe andata a finire.
Erano tutti d'accordo a non volere più Carlo Alberto alla testa dell'esercito. Il generale La Marmora andò a Parigi per ingaggiare un «generalissimo». I francesi Bugeaud, Lamoriciére, Bedeau, Chagarnier rifiutarono. Alla fine accettò il polacco Chrzanowsky, contattato a Dresda. Il Piemonte sembrava una squadra di calcio in cerca di un centravanti.
La guerra riprese il 20 marzo 1849, e gli Austriaci passarono immediatamente il confine, minacciando Novara e Vercelli. Il giorno dopo (21), Chrzanowsky ingaggiò la prima battaglia alla Sforzesca (frazione di Vigevano) e mise in fuga i reggimenti austriaci.
Il giorno 23 tutte le forze piemontesi erano concentrate a Novara, e gli austriaci vennero all'attacco. Furono cacciati due volte, ma alla terza sfondarono. Mentre scendeva la sera, Chrzanowsky mandò al contrattacco tutti i battaglioni, insieme a tutte le riserve. La battaglia infuriò ancora su un fronte di quattro chilometri. Solo concentrando rapidamente tutti i rinforzi possibili, il generalissimo austriaco riuscì a respingere l'assalto. In tre giorni Radetzky aveva vinto tutto: battaglia e guerra. Ma lealmente disse: «Quei diavoli di Piemontesi sono sempre gli stessi e, malgrado il minor numero loro e la stanchezza delle marce fatte, ho creduto più di una volta di dovermi ritirare» (PINTO, 309).
All'una di notte, nel palazzo Bellini di Novara, Carlo Alberto abdica. Consegna il trono e lo Stato al figlio Vittorio Emanuele. Su un carrozzino stretto e scomodo, costruito per girare per i sentieri dei giardini reali, compie un lunghissimp viaggio.
Nessuno sa dove va. Qualcuno parla di una trappa, dove il re intende farsi monaco. Giunse invece a Oporto, sfinito e distrutto, dopo 27 giorni. Prese alloggio in una locanda, poi in una casa privata. Proibì alla famiglia di seguirlo. Sarebbe morto tre mesi dopo, mentre un prete bisbigliava accanto a lui le litanie della Madonna.
Il principino Umberto, 5 anni, conserverà sempre un barlume di ricordo di quei giorni: divise militari e cavalieri in subbuglio, l'angoscia della madre (figlia del viceré austriaco della Lombardia e sposa del nuovo re del Piemonte) e il gusto degli ultimi «gianduiotti» di cioccolato che con la sorella Clotilde aveva ricevuto dal nonno.
Miseria per tutti
La guerra e la sconfitta hanno prostrato il piccolo regno del Piemonte. «Le finanze sono in rovina, i debiti di guerra superano i 70 milioni, le casse dello Stato sono vuote e non vi sono neppure i fondi necessari per pagare gli stipendi alla fine del mese. Il popolo è stremato dalla guerra e dalle tasse».
La prima guerra di Indipendenza è costata in cifra tonda 295 milioni di lire, cioè quanto lo Stato spendeva in due anni e mezzo di vita pacifica. In lire di oggi circa 1180 miliardi (Clough, p. 43).
La vita per i primi ragazzi ospitati da don Bosco è poverissima, come per tutti. All'ora di pranzo si affollano, brandendo una scodella o un pentolino di terracotta, attorno al paiuolo di mamma Margherita. Ciascuno riceve un mestolone di riso e patate o, più sovente, di polenta fatta bollire con le castagne secche («formava come una poltiglia, manicaretto ghiottissimo per i giovani», ricorda Bonetti con ottimismo). Nelle feste solenni c'era anche il secondo: un pezzettino di salsiccia o di merluzzo. Ognuno, tenendo il suo pentolino tra le mani, cercava un posto per sedersi: una trave accostata al muro, un sasso, i gradini della scala. Per bere, «una sorgente di acqua freschissima era la loro botte e la loro cantina» (CL 180). Poi ognuno lavava coscienziosamente il pentolino, lo metteva in un luogo sicuro, e si ficcava in tasca il cucchiaio.
Questa del cucchiaio in tasca rimase per lungo tempo un'usanza sacrosanta per i ragazzi di don Bosco. Paolo Conti, un ragazzone che andava a scuola in città, cavando il fazzoletto di tasca, fece cadere rumorosamente il suo cucchiaio sul pavimento dell'aula. Sotto lo sguardo severo del professore, e per nulla turbato dalle risa che dilagavano tra i banchi, Paolo lo raccolse e disse: «È’ il mio cucchiaio. Volete mica che venga a scuola senza cucchiaio?» (CL 180).
Il pane quotidiano
Dopo aver riposto pentolino e cucchiaio, i ragazzi consumavano i minuti che rimanevano prima di rientrare a bottega o a scuola, sedendo attorno a don Bosco (che aveva sempre tante cose da raccontare, da domandare, da comunicare) e masticando il pane. Era il nutrimento base non solo per quei ragazzi, ma per tutti i lavoratori della città. Costava 0,37 lire il chilo (1480 lire del 1986). Il prezzo rimase più o meno invariato per vent'anni. I giovani ne consumavano suppergiù un chilo a testa.
Con il moltiplicarsi dei giovani, la spesa del pane rimase una delle più grosse e delle più urgenti per don Bosco. Scriverà la prima lettera per avere aiuto a saldare la nota del panettiere il 5 gennaio 1854, al conte Solaro della Margarita (ex ministro degli Esteri di Carlo Alberto): doveva pagare 1600 lire per l'ultimo trimestre del 1853. Un anno dopo confiderà al canonico Gastaldi: «Sono in gravissime difficoltà per saldare la nota del pane». Negli anni che seguono, le suppliche perché lo aiutino a pagare «le pagnotte distrutte dai miei
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ragazzi» non si conteranno più.
I ragazzi che andavano a lavorare in città, però, qualcosa guadagnavano. Il salario di un fanciullo andava dalle 0,40 alle 0,80 lire il giorno. Quello di un lavoratore stava tra le L.2 e le 2,50. (Tutto da moltiplicare per 4000 per avere un «certo» confronto con le lire di oggi). Dove finivano i soldini dei ragazzi? Pietro Stella risponde: «Antiche redazioni del regolamento della casa annotavano: "Si usa presentemente di mettere in cassa a favore di ciascun figlio tutto ciò che eccede i sedici soldi (L. 0, 80) al giorno. A quelli che non guadagnano ancora tal somma sarà loro dato la metà del guadagno di un giorno alla settimana"» (ST 3,375). Si calcolava insomma come pensione giornaliera 80 centesimi. Tutto ciò che li superava era assegnato al giovane. Se poi il ragazzo non guadagnava nemmeno 80 centesimi (e ce n'erano tanti), la pensione si considerava saldata ugualmente, e don Bosco gli dava una piccola somma (mezzo stipendio giornaliero) come «mancetta» settimanale.
Come don Bosco riuscisse a tirare avanti con queste cifre, è il vero miracolo quotidiano dell'Oratorio. Negli stessi anni, fa notare Stella, i 76 allievi del Convitto nazionale pagavano una retta mensile di L.55. I 60 interni dell'Istituto paterno di educazione L.100 mensili (e l'Istituto si reggeva su un capitale sociale di 100 mila lire) (ST 3,376).
«Quello straccio di camicia»
Oltre al pane, uno dei problemi dei primi ragazzi ospitati da don Bosco era l'igiene personale. Mamma Margherita impiantò nell'Oratorio un lavatoio. Il ricambio della biancheria avveniva probabilmente ogni quindici giorni, almeno per chi aveva biancheria. Per gli altri Margherita (e poi altre brave signore della città) provvedevano come potevano. C'erano dei ragazzi, ricordava don Bosco, «i cui calzoni e la giubbetta erano in brandelli. Ve ne erano di quelli che non potevano mai cambiarsi quello straccio di camicia che avevano indosso; erano così luridi che nessun padrone li voleva accogliere a lavorare nella propria officina». La mamma considerava suo compito, quando i ragazzi erano andati a letto, «prendere quelle giubbe, quei calzoni ributtanti, aggiustarli; prendere quelle camicie già tutte lacere, e forse mai passate nell'acqua, lavarle, rattopparle e consegnarle nuovamente ai poveri ragazzi» (MB 3,254s).
Come nei vestiti si annidavano frequentemente pulci e nei letti cimici, così nei capelli erano frequentemente annidati pidocchi (lo shampoo verrà di moda più di cent'anni dopo!). Provvedeva a tagliare i capelli (che secondo l'uso si portavano piuttosto lunghi) la stessa mamma Margherita. Il dottor Federico Cigna ricordava che il taglio fatto con le forbici gli aveva lasciato parecchi «scalini», e che se ne lamentò con la mamma. E lei gli rispose: «Va' là, che questi scalini ti faranno andare in paradiso». Davano una mano alla mamma Carlino Gastini, che il mestiere lo conosceva, e lo stesso don Bosco, che aveva fatto il parrucchiere in seminario. Egli esortava così i giovani: «Pettinate bene i vostri capelli. Viene la primavera, la quale fa moltiplicare certe bestioline».
La mamma dell'Oratorio
Margherita era chiamata «mamma» dai ragazzi, e lo era davvero. Mamma dell'Oratorio e di tutti quei ragazzi che cercavano da lei un supplemento di pane e di affetto.
A un ragazzetto che è venuto a sedersi accanto a lei su uno sgabello, e piange per gli sgarbi che gli fanno i compagni di lavoro, porge un grappolino d'uva e aggiunge la sentenza: «In nessun paese si sta così male come in questo mondo».
Quando ha sgridato un ragazzo che ha trasformato un libro in una palla per giocare, e lo vede tutto mortificato, mormora: «Dopo la ferita ci vuole l'olio». E tira fuori dalla tasca del grembiule una mela, porgendogliela.
A un ragazzo che non trova mai un prete di suo gradimento per confessarsi, dice il vecchio proverbio piemontese: «Na cativa lavandera treuva mai na bona pera»: «Una cattiva lavandaia non trova mai una pietra buona per farci sopra il bucato».
Un giovanottello, in cucina, cerca di «soffiare» un pezzo di formaggio per insaporire la merenda. Mamma sta pulendo la verdura per la minestra, ma con la coda dell'occhio ha visto tutto, e dice severa: «Ma bravo! La coscienza è come il solletico: chi lo sente e chi non lo sente».
Un ragazzo sta passando un momento difficile. È’ aggressivo, indisciplinato. Margherita lo chiama in cucina, dove quando non lavora ai fornelli, rammenda giacche, calzoni e camicie. Lo fa sedere accanto a sé e senza alzare gli occhi mormora: «Ma perché sei cambiato così? Non ti accorgi che stai diventando cattivo? Io lo so perché: non preghi più. Se Dio non ti aiuta, che cosa vuoi combinare di buono? Te', mordi in questa mela e pensaci su» (MB 3,371ss).
L'orto invaso dai combattenti
La giornata più difficile per Margherita è la domenica, quando sul prato arrivano gli oratoriani, centinaia di giovani con una gran voglia di giocare alla guerra. «Margherita, da buona massaia, erasi formato in fondo al cortile un orticello, il quale da lei industriosamente coltivato e seminato, le somministrava insalata, aglio, cipolla, piselli, fagiuoli, carote, rape... Or bene, era un giorno di gran festa, e il Bersagliere, raccolta la sua schiera e divisala in due parti, volle divertire i numerosi spettatori con una finta battaglia... A difesa del caro orticello, raccomandava ai vincitori che arrivati alla siepe vi si fermassero. Impartito il comando, si dà il segnale della mischia» (CL 310).
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Ma gli squilli di tromba, gli applausi degli spettatori, l'ardore della battaglia fecero dimenticare ogni precauzione. La battaglia finì proprio nell'orto della mamma. «La siepe è rovesciata e divelta; chi cade e chi sorge; in breve ogni cosa fu calpestata e guasta. Il Bersagliere gridava, suonava la tromba, ma...» (ib.). Il di- sastro fu completo e la mamma avvilita.
Forse fu quella notte che Margherita si sentì addosso tutto il peso dei suoi 61 anni. Come al solito, insieme a don Bosco, cuciva giacche e calzoni strappati, che i ragazzi andando a dormire le avevano lasciato in fondo al letto, per riaverli aggiustati al mattino (non avevano altro da indossare). A un tratto depose l'ago accanto al lume ad olio.
- Giovanni, sono stanca. Lasciami tornare ai Becchi. I ragazzi mi gettano per terra la biancheria pulita stesa al sole, mi calpestano l'orto. Sono una povera vecchia. Non ce la faccio proprio più.
Don Bosco guardò il volto di sua madre e sentì un nodo alla gola. Non riuscì a dire nemmeno una parola. Alzò solo la mano, indicando il Crocifisso che pendeva dalla parete. E la vecchia mamma capì. «Tutto quello che avrete fatto a uno di questi piccoli l'avrete fatto a me», aveva detto il Signore.
Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così.
36. Il primo salesiano: Michele Rua
La cravatta
Michelino, quell'orfano di 8 anni che presso i Mulini aveva incontrato don Bosco, e che sarebbe diventato il suo successore alla testa dei Salesiani, non era stato attirato da una voce misteriosa, ma da una cravatta.
Lo raccontò lui stesso all'amico Francesia, che narra:
«Un lunedì mattina Michelino aveva osservato un suo compagno far bella figura per una cravatta nuova. Esclamò:
- Chi te l'ha comprata?
- Me la sono guadagnata ieri alla lotteria nell'Oratorio di don Bosco.
- Chi è don Bosco?
- È’ un buon prete, che raccoglie alla domenica tanti ragazzi, li fa divertire, li istruisce, e per di più regala qualche oggetto. Ieri mi toccò questa cravatta.
- E se ci andassi anch'io, potrei guadagnare simili oggetti?
- Certamente! Basta che esca il tuo numero (...).
Che meraviglia se la domenica seguente, col permesso della mamma, Michelino prese la strada dell'Oratorio? - Io pensavo - ci diceva poi sorridendo - sempre e solo alla cravatta (...).
Il giovane Michele aspettò invano la lotteria per guadagnarsi la cravatta; ma in compenso vide don Bosco». Quel ragazzino era nato il 9 giugno 1837 in Borgo Dora, presso la Fucina delle canne. Lì, in riva alla Dora e a quattrocento metri dalla casa Pinardi, si fondevano le canne dei fucili e dei cannoni. Suo papà, Giovanni Battista, era controllore, il grado più alto che nella fabbrica potesse raggiungere un operaio. Gli era morta la prima moglie, dopo avergli dato tre figli, e per non lasciarli orfani si era sposato una seconda volta con Giovanna Ferrero. Anche da questo secondo matrimonio ebbe tre figli, Giovanni, Luigi e Michelino.
«E ora, che pensi di fare?»
Nell'agosto 1850, Michelino terminò le scuole elementari presso i Fratelli delle Scuole Cristiane. Era già diventato amico di don Bosco, incontrandolo ogni domenica all'Oratorio e sovente nelle scuole. In quell'agosto, racconta Francesia, «don Bosco, che misteriosamente conosceva l'avvenire di questo suo diletto allievo, lo chiamò a sé e gli disse:
- Michelino, che pensi di fare adesso che hai finito le classi elementari?
- Prendere il posto del babbo, e così aiutare la mamma, che ora si sacrifica per noi.
- E non ti farebbe piacere continuare gli studi?
- Oh! molto! ma per ora ne ho abbastanza.
- Ma se si trattasse di studiare il latino, e il Signore ti chiamasse a farti anche sacerdote... non ti piacerebbe?
- Oh! mi piacerebbe. Ma chi sa, se mia madre ne sarà contenta...
- Prova a parlarne, e poi mi saprai dire se essa approva il nostro progetto.
Giunto a casa..., la buona donna tutta intenerita gli rispose:
- Magari! desidererei tanto di vederti sacerdote! Se il Signore mi facesse questa grazia, non avrei parole a sufficienza per ringraziarlo. Di' pure a don Bosco che volentieri ti lascio studiare ancora per un anno per vedere se puoi riuscire» (ivi, 16s).
Quell'estate, insieme ad altre «reclute» che don Bosco fece alle scuole dei Fratelli, Michele fece le vacanze nell'Oratorio, studiando. «Li avreste veduti raccogliersi ogni mattina - scrive Francesia - e (...), dopo aver servita la S. Messa a don Bosco, ritirarsi per la scuola. (...) Don Bosco aveva fatto sentire, che dovevano tentare di far un corso intero nelle vacanze, ed i nuovi allievi corrispondevano alle sue cure senza darsi un momento di riposo» (ivi, 18).
Michele, nei primi giorni, sentì molto il caldo dell'agosto, e si scoraggiò un poco. Fu allora che il «chierico» Giuseppe Buzzetti, la guida del gruppo, lo prese da parte e gli fece un po' di paternale. Michele l'ascoltò a testa bassa e si mise a studiare con più buona volontà (ivi, 18s).
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Pulitini e aggraziati
La signora Giovanna Ferrero, con la piccola pensione che percepiva dopo la morte del marito, riusciva a tenere la sua casa in modesta dignità. Luigi e Michele si distinguevano all'Oratorio perché «pulitini e aggraziati... Andavano così ben vestiti, come di rado suol accadere anche adesso a chi umanamente ha maggior fortuna» (ivi, 11).
Nel febbraio 1851 la morte tornò in casa Rua. Si portò via Luigi di 17 anni. «Io non vidi mai l'amico più afflitto di quella volta!... Pioveva, ed era una mestissima giornata. Ci eravamo fatto un poco di scuola, ed accortomi della sua pena, non potei trattenermi dal dirgli:
- Che hai di così grave che ti rende tanto triste?
Egli disse sospirando:
- Mi è morto mio fratello! - Che potevo dirgli di consolante? Si era nella sacrestia dell'Oratorio festivo, si tralasciò la scuola, e si andò in chiesa a pregare, e fu un lungo pregare! Come ricordo quel giorno!» (ivi, 28s). La sera don Bosco ricordò affettuosamente Luigi davanti ai giovani. Disse che era un ragazzo modello, che conosceva personalmente la sua virtù. Pregarono tutti per l'affetto che avevano a Luigi e a Michele.
Don Bosco volle che Michele rimanesse in famiglia, a far compagnia alla mamma, ma all'inizio dell'anno scolastico 1851-52 lo mandò coi migliori alla scuola del professor Bonzanino, accanto alla chiesa di S. Francesco d'Assisi. Michele usciva di casa al mattino presto, e si metteva alla testa del piccolo drappello (qualcuno addentava ancora la pagnotta di colazione, altri si ripetevano a vicenda la lezione) e lo guidava alla scuola.
Alla fine dell'anno diedero l'esame da privatisti alla scuola che poi diventò Ginnasio e Liceo Cavour. Fu un piccolo trionfo, ricorda Francesia, ma anche una delusione per don Bosco, perché «Michele Rua restò il solo di quelli dell'Oratorio. Gli altri lasciarono».
Nell'umile cappellina e nella vigna
Don Bosco, tuttavia, non si scoraggiò. «Gli parlò di vestir l'abito clericale fin da quell'anno e di venire a stare con lui all'Oratono». Il fratello Giovanni e i tre fratelli del primo matrimonio di papà, non furono molto entusiasti. Dicevano alla mamma: «Chi è don Bosco? Che garanzia può dare? Il nostro fratellino non si sarà lasciato incantare? E se poi non riuscisse? Se un giorno ve lo vedeste comparire davanti senza titoli e senza impiego?» (ivi, 28).
La signora Giovanna, tuttavia, ebbe fiducia in don Bosco e nel suo Michelino. Gli permise di andare in autunno ai Becchi, a ricevere la veste nera dei chierici.
Alla fine di settembre, don Bosco si portava alla casa di suo fratello Giuseppe i ragazzi migliori, perché si prendessero un po' di vacanza, un po' di aria buona e accelerassero gli studi. «Si aspettava con ansia il tramonto, ricorda Francesia, perché allora, dopo aver passato più ore nello studio, si usciva a passeggio con lui (Don Bosco) che ci conduceva in una piccola vigna vicina a casa a mangiar uva, e più ancora a godere la sua santa conversazione (...).
Fu là, nell'umile cappellina dei Becchi, che la domenica del Rosario, 3 ottobre 1852, prima della Messa solenne... il giovane Michele Rua vestì... l'abito chiericale» (ivi, 31).
La sera stessa tutti tornarono a Torino. Il chierico Rua (così ormai lo chiamavano i suoi compagni) in un momento in cui fu solo vicino a don Bosco gli disse:
- Quando mi incontrò la prima volta, lei mi fece un gesto strano: fece come per tagliarsi la mano sinistra e per porgermela. Cosa voleva dire?
- Non hai ancora capito? - sorrise don Bosco -. Nella vita noi due faremo sempre a metà. Dolori, responsabilità, gioie, tutto sarà per noi in comune.
Cominciò a fare a metà con don Bosco come « scrittore». In quel tempo, don Bosco stava scrivendo la Storia d'Italia per la gioventù. «Don Bosco era incontentabile del suo lavoro. Cominciava a scrivere, poi rileggeva e toglieva, e postillava, e la sua pagina riusciva spesso come un campo di battaglia. Quante cancellature! quanti richiami! quanti segni diversi e diffusi qua e là! Più d'una volta veniva in mezzo a noi con uno o due di quei fogli di carta protocollo, e ce li distendeva davanti agli occhi... Era bravo chi ci capiva! E il buon padre, tutto sorridente, si rivolgeva al chierico Rua e gli diceva: Ecco un po' di lavoro!...». Rua prendeva i fogli «senza scomporsi», se li portava al suo posto nello studio e con pazienza dipanava la matassa (FRANCESIA, 33).
Garanzia per 50 anni
Nel marzo 1853 la morte bussò ancora a casa Rua. Si portò via il fratello Giovanni, 23 anni. La desolazione della mamma e di Michele fu grande. Michele diceva: «La prossima volta tocca a me». Ma don Bosco gli disse con sicurezza: « Quest'anno festeggiamo il quarto centenario del miracolo del SS. Sacramento a To- rino. Il libretto che ho scritto sta facendo del bene. Fra cinquant'anni si celebrerà il 450° anniversario di questo stesso miracolo. Io allora non ci sarò più da molto tempo. Tu invece ci sarai ancora. E farai ristampare il mio libretto». Nel 1903 don Rua era vivo e in salute, e lo fece ristampare (AUFFRAY, 15).
Dopo la morte di Giovanni la signora Rua si ritirò dall'alloggio alla Fucina, e venne ad abitare vicino all'Oratorio, per stare vicina al suo Michele. Conobbe mamma Margherita, le diede sovente una mano, e quando tre anni dopo la vecchia mamma di don Bosco morì , ne prese il posto lavorando dal mattino alla sera per i ragazzi più poveri.
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Don Bosco considerava Michele «il suo primo chierico», la pietra fondamentale della Congregazione che intendeva fondare per la gioventù povera e abbandonata. Poco per volta lo istradava alla vita religiosa, senza dare nell'occhio. Francesia, un curiosone che osservava tutto, ricorda: «Si vedeva con meraviglia che il chie- rico Rua, arrivato un tal momento, sospendeva ogni altra occupazione, prendeva un vecchio libro, e dopo un divoto segno di croce si metteva a leggere a occhi fissi qualche punto e poi vi si fermava sopra» (FRANCESIA, 36).
Dopo la consacrazione, ad assistere in refettorio
La camera del chierico Rua era un abbaino che si affacciava sul tetto, gelido d'inverno, infuocato d'estate. Sua mamma, sempre ansiosa per la sua salute, gli regalò un lettuccio di ferro, perché potesse almeno riposare come si deve. « Un giorno don Bosco condusse un signore fiorentino a visitare l'Oratorio e lo fece salire fino alla piccola soffitta di don Rua. La cameretta aveva un lettuccio, un tavolo spoglio di tutto fuorché di un calamaio; e poi, quasi rasente al suolo, sopra un assicello posto su quattro mattoni, una scansia di libretti e di quaderni. Quell'ordine in tanta povertà commosse quel signore... Ricordo che diceva: "Che bell'anima deve mai avere questo chierico, che sa conservare tanta nettezza in tanta povertà!"» (ivi, 43).
Il 25 marzo 1855 Michele Rua divenne il primo salesiano. «Io ricordo quella sera, che sarà famosa nella nostra umile Società», scrive Francesia. E Auffray: «La sera dell'Annunciazione, il 25 marzo 1855, nella povera camera di don Bosco, il chierico Michele Rua, studente del secondo anno di filosofia, emetteva nelle sue mani i primi voti annuali. Cerimonia umile e dimessa: Don Bosco in piedi che ascolta, in ginocchio davanti al crocifisso un chierico che pronuncia una formula di consacrazione a Dio. Nessun testimonio era presente fra quelle mura, dove quasi alla chetichella nasceva uno dei grandi Istituti religiosi della storia cattolica dell'Ot- tocento» (o. c., 21).
Ci aspetteremmo almeno una piccola festa. Invece Francesia ricorda che, finita la consacrazione, Michele «andò ad assistere nel refettorio». Tempi veramente salesiani.
Don Bosco un giorno disse: «Se Dio mi avesse detto: "Immagina un giovane adorno di tutte le virtù ed abilità maggiori che potresti desiderare, chiedimelo ed io te lo darò, io non mi sarei mai immaginato un don Rua» (MB 4,488). Sembra una formula di canonizzazione.
37. «Ciao, don Bosco!»
Mentre cercava di scappare
Giovanni Battista Francesia non incontrò don Bosco. Si «scontrò» letteralmente con lui mentre cercava di scappare perché era il momento della preghiera (una delle tradizioni degli oratori salesiani meglio conservate). Gli andò dritto, di corsa, tra le braccia aperte.
Quell'incontro fortunato durò 38 anni, fino alla morte di don Bosco. Ragazzo, chierichetto, primo giovane professore «laureato» (ci teneva tanto a dirlo), prete salesiano, qualche volta anche confessore di don Bosco, Batistin stampava nella memoria ciò che vedeva, ciò che sentiva di lui, con un amore che nella vita aveva avuto solo per sua madre.
Scrisse decine di volte la storia dell'Oratorio, di don Bosco, dei primi salesiani. Ma lui la storia, da buon classico, la scriveva alla maniera di Plutarco, con i discorsi (che se non ci sono si ricostruiscono diligentemente), i dialoghi, i colpi di scena, i detti memorabili. Non andava certo a consultare i registri per controllare una data. La storia di Plutarco non è forse storia e grande storia? E lui la scriveva così. Peggio per noi se oggi non la sappiamo più apprezzare.
La « sua» storia la scrisse tre volte: in una monumentale Autobiografia ancora medita, nel volumetto Don Bosco amico delle anime e nella Vita breve e popolare di Don Bosco. Saltando dall'uno all'altro e condensando molte pagine, cerco di scriverla con le sue stesse parole.
Fallimento e emigrazione
« Io nacqui a S. Giorgio Canavese il 3 ottobre 1838. Mio nonno faceva i chiodi e negoziava in ferro, ed era riuscito a fare una discreta fortuna. Ma venne a morire quando appena mio padre poteva conoscerlo... Quindi crebbe sotto la madre che purtroppo era debole e poco capace di accudire al negozio.
Mi dispiace parlare poco bene del mio povero padre, ma la sua educazione troppo libera gli fu funesta e portò anche noi alla miseria. Non aveva l'abitudine del lavoro e meno ancora quella del risparmio. Mia madre correva da un mercato all'altro smerciando cotone, lana e stoffa, ma il padre in casa spendeva senza misura. Si era nel 1848, io avevo quasi dieci anni. Non si pensava che a fare l'Italia e a diventare militari. Un nostro compagno, che poi entrò nell'esercito e ne uscì capitano, divenne nostra guida, e noi ci raccoglievamo a fare gli esercizi dopo scuola e nei giorni di vacanza.
Nel 1850 gli affari andavano sempre peggio, si affittò quel poco che rimaneva e si pensò di venire a Torino. Prima partirono i miei genitori. La povera mia mamma non sapeva distaccarsi da me, ricordo che andava e veniva e non faceva che piangere. Allora l'unico mezzo di trasporto era il carro del conducente che due volte alla settimana andava e veniva da Torino.
Io stetti a S. Giorgio ancora per alcuni giorni, ma il cuore era sempre con i miei a Torino. Finalmente una mattina dissi: "Io vado a trovare mia madre".
Passai la notte sul carrettone con una mia zia che veniva a far la serva a Torino. Ella mi seppe guidare a
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casa. Verso le sette ero sulla piazzetta della Consolata... Guardavo impaziente di qua e di là... ed ecco che usciva allora dalla porta laterale del Santuario la mia povera mamma. Oh, chi può dire l'affetto con cui mi ven- ne incontro a baciarmi e a farmi mille carezze? "Oh, bravo che sei venuto". Avrei voluto veder subito anche il padre, ma egli era andato al lavoro. Ricordo che questa parola mi strinse il cuore. Era la prima volta che la udivo, perché fino allora egli aveva lavorato in casa... Verso mezzogiorno, sapendo che egli doveva giungere, mi recai sulla porta. Quando lo vidi gli corsi incontro. Egli mi guardò, mi strinse forte la mano, e poi volse altrove la faccia. Piangeva. Chi sa cosa pensava? Che quell'esilio lo si era tirato addosso?
«Oggi si danno le castagne»
Io stesso avevo trovato un lavoro presso uno dei più reputati fonditori d'allora, e fin dal primo o secondo mese portavo a casa due lire alla settimana. (33 centesimi al giorno, mentre il pane costava 37 centesimi al chilo). Allora questa somma faceva stupire, perché i padroni non pagavano per insegnare, ma esigevano di essere pagati. Fin dai primi giorni avevo fatto amicizia con un vicino di casa che faceva il minusiere (=falegname) e che era, alla lontana, mio cugino.
Alla festa dei Santi (di quel 1850) mi trovavo solo a casa. Mia madre era andata al paesello, ed il padre era andato per conto suo non saprei dove. Questo mio cuginetto, mentre giocavamo alla trottola lungo il muro dell'ospedale dei Matti in via Giulio (allora via delle ghiacciaie), mi disse: Vuoi che andiamo da don Bosco?
- A che fare?
- Oggi si danno le castagne.
- Ma chi è don Bosco?
- È’ un bravo prete, che raccoglie molti giovani alle feste, e si divertono. Oggi danno le castagne, vieni.
Io ci andai.
Quel tramestio di giovani, quello slancio in tutti di divertirsi, quella spensieratezza di tutta quella gente, che non guardava me, ma che io guardavo con curiosità e meraviglia, mi fece tenere un momento il fiato. Poi, guadagnato dal desiderio di divertirmi, mi slanciai con entusiasmo al passo volante, e subito mi addestrai su- perando gli effetti del capogiro.
Sul più bello suona il campanello per la chiesa, e vedo un'altra novità. Si sospendono come per incanto i divertimenti, chi giocava con me si distacca dalle corde e cerca di fuggire. E non era solo, vedevo un fuggi fuggi generale... Cercai il cugino, e non lo vidi più... e quindi non sapendo che cosa fare, fuggo anch'io, cre- dendo che bisognasse fare così. Mentre scappavo, caddi nelle braccia di un giovane prete, che si avanzava a fermare quell'onda di giovani che fuggiva. Sorridente mi disse:
- Come ti chiami?
- Batistin!
- E sai chi sono io?
-Veramente... Lei sarà don Bosco.
- Sono proprio io. E voglio già tanto bene all'anima tua!
È’ impossibile che quell'ora, quel giorno, quelle parole si cancellino dalla mia memoria.
- Ora vieni con me.
Mi prese per mano e mi condusse in chiesa in mezzo a tanti altri compagni. Mi collocai sotto la finestra che era vicina al piccolo pulpito e vi rimasi durante i vespri, la predica e la benedizione, senza neppur pensare alle castagne, che più non vidi perché erano state distribuite alla mattina. Sentii per la prima volta predicare il Teologo Borel, che mi fece piangere pensando alle povere anime del Purgatorio.
L'addio al Rondò
Era la prima volta che io assistevo tranquillo ad una funzione religiosa che durò molto a lungo. Si uscì dalla cappella che era notte. Vidi molti degli adulti, che diventarono poi miei amici, che stavano in bel modo d'attorno a don Bosco. Li andai anch'io. Una forza misteriosa mi attirava verso di lui, e senza sapermelo spiegare e capire ciò che si diceva, io stava li a guardare e a sentire.
Era già comparsa la luna in cielo e la notte si faceva scura. Don Bosco si mosse, e tutta quella turba si mosse con lui verso il cancello d'uscita. Che potevo fare? Mi accompagnai a loro. Cantavano i più bei cori che avevo sentito al paesello, e mi piacevano assai. Ma i miei occhi erano fissi in don Bosco, in don Bosco che mi aveva parlato con tanta bontà.
La piccola comitiva passò il piccolo sentiero d'allora e poi ascese per via Cigna, e sali fino al Rondò del Corso Valdocco. Colà si fece circolo. Il canto era finito e Don Bosco dava i saluti e gli avvisi a tutti... Io m'ero fatto coraggio, ed avanzandomi fino a lui, tutto confuso dissi con meraviglia universale:
- Ciao, don Bosco!
Tutti sorrisero della mia ingenuità, alcuni mi schernirono, ma don Bosco mi salutò con amorevolezza.
«Da don Bosco si fanno i soldati!»
Era il periodo più burrascoso della mia vita. Gli operai erano corrotti. Si andava manifestando l'odio contro ogni pratica di religione. Durante l'anno 1851 ci fu poco lavoro, ed io dovevo sostituire un uomo di fatica, solo in un ampio laboratorio. Mi aveva preso una malinconia che mi faceva piangere.
Aspettando l'ora di entrare nell'officina, subito dopo pranzo, andavo a Porta Palazzo dove quasi finiva la città e si ammucchiava la ghiaia. Correndo salivamo sui mucchi per divertirci.
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Alla domenica andavo alla Messa al Carmine. Ricordo che un sacerdote, forse il vice-parroco, insegnava il catechismo a suon di scoppole che regalava a destra e a sinistra. La pazienza non era la sua virtù principale. Si disturbava, e per non comparire dammeno disturbavo anch'io. Dopo gironzolavo qua e là con noia. Il figlio della portinaia, mentre giocavamo vicino al monumento a Siccardi, mi dice:
- Andiamo da don Bosco. Si fanno i soldati!
Discesi di nuovo a Valdocco. Entrai in quella baraonda. Feci tanti giri e rigiri col mio fuciletto di legno, e corsi tanto per i prati di Valdocco, tutti ancora scoperti fino alla fabbrica delle armi, che alla sera mi trovai con le scarpe rotte. Presi parte al catechismo che mi fece il chierico Gastini. Alla sera andai a casa stanco che non ne potevo più, ma con una soddisfazione immensa, desideroso che venisse presto un'altra domenica.
Ero tutto divertimenti ed esercizi militari, ma avevo già trovato qualche amico, tra cui Michele Rua...
Ricordo che in officina, avendo raccontato al primo garzone le piccole meraviglie dell'oratorio e dei cartelli attaccati alle pareti sul Papa, egli mi disse: "Se sei capace di dargli fuoco, ti do una bella somma di denaro". Restai sbalordito. Dissi: "E perché volete che compia un simile misfatto?".
« Quand'è che vieni a studiare?»
Tra me e don Bosco si formava quella catena di amore dalla quale sarei rimasto legato per sempre. Appena seppe che avevo già studiato due anni di latino, mi disse:
- Non potremmo continuarli e finirli?
- Magari... - risposi.
Più volte in quel 1851 incontrai don Bosco per i viali. Mi chiedeva di accompagnarlo a casa, poi mi teneva a pranzo con sé. Continuavo ad andare al lavoro ma la mia sorte era decisa, volevo ritirarmi all'Oratorio e studiare il latino.
Durante la novena di Natale andai a confessarmi da don Bosco. Dopo la confessione mi prese in disparte.
- Quand'è che vieni a studiare?
- Anche subito, ma abbiamo difficoltà in famiglia.
- Dì a tuo padre che ho bisogno di parlargli.
Glielo dissi.
- Devi averne combinata qualcuna - disse mio padre.
Invece la cosa riuscì bene, perché di lì a poco don Bosco mi disse con aria furba: "Tuo padre è contento che tu riprenda a studiare. Puoi venire quando vuoi".
Fu così che lasciai l'officina e la casa ed entrai nell'Oratorio». Batistin si alza presto al mattino e con la squadretta di Michele Rua raggiunge la scuola del professor Bonzanino. Ma prima c'è la Messa di don Bosco, tutte le mattine. « Facevamo la Comunione prima della Messa, poi l'ascoltavamo con tranquillità, e alla fine uscivamo dalla chiesa col tempo appena di prendere la pagnotta, i libri, e andavamo a scuola. Chi conosceva i sacrifici che facevano quei poveretti che a passo affrettato, sbocconcellando per la strada il pane, davano una ripassata alla lezione? Ma tutto era compensato dall'idea che avevamo fatto la santa Comunione!».'
La veste da chierico per lo spazzacamino
Nell'ottobre 1853, per la festa del Rosario, i ragazzi di don Bosco tornano ai Becchi. Don Bosco ha detto a Batistin: «Quest'anno la veste nera la indosserai anche tu». Si era stabilito di fare la funzione al mattino, ma il parroco di Castelnuovo, che doveva fargli indossare la veste, non poté venire. Si spostò al pomeriggio, dopo i vespri, ma anche allora il parroco non si fece vedere. Mandò a dire: «Faccia venire Francesia domani mattina a Castelnuovo».
Intanto, nel pomeriggio si fece un po' di teatrino per la tanta gente venuta alla festa. Su un palco tirato su alla meglio si recitò la commedia Lo spazzacamino, scritta da don Bosco. Batistin Francesia era il protagonista con la faccia tinta di fuliggine. Fece ridere e piangere, e alla fine ebbe un diluvio di applausi.
Dopo un boccone di cena, c'erano i fuochi artificiali. Batistin non ebbe nemmeno il tempo di lavarsi la faccia. «Ero andato a godermi i fuochi artificiali, che si facevano in un bello spianato, dove don Bosco una volta tirava le corde e dava spettacolo per trattenere la gente».
Ma ecco arrivare il parroco di Castelnuovo. Avvicina don Bosco e: «Quantunque tardi, voglio accontentarti e dare la veste a quel giovane». Ma cerca e cerca, Batistin non si trova. Intanto nella cappellina si canta il Veni Creator, il parroco è già all'altare, ma il giovane non c'è. Finalmente ecco Batistin che arriva... con la sua bella faccia nera da spazzacamino. «Don Bosco quando lo vide con quella faccia sorrise, sorrisero gli altri». Quando, finita la funzione, Batistin tornò all'aperto per godersi i fuochi artificiali vestito da chierico, «fece meravigliare più d'uno...
- Oh! e quando fu così vestito? - Or ora!
- Dove?
- In chiesa!
- E da chi?
- Dal signor prevosto! ».
Mancavano tante cose a quei tempi, ma non la semplictà e l'allegna.
38. Un ragazzo nel canestro dei grissini
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Accanto al pulpito, vestito da chierichetto
Nel 1851 entra all'Oratorio un ragazzo che diventerà vescovo e cardinale, Giovanni Cagliero. Raccontò lui stesso il suo incontro con don Bosco.
«Lo vidi per la prima volta nel 1850 sulle colline di Morialdo, in quel di Castelnuovo d'Asti, mio paese: avevo dodici anni. Era circondato dal signor Prevosto, dal mio maestro e da altri sacerdoti dei dintorni, e mi accorsi che lo colmavano di attenzioni.
La sua semplicità, il suo sorriso e la sua amabilità mi riuscirono cosa nuova.
Il Prevosto, don Antonio Cinzano, che mi voleva bene, mi presentò a don Bosco, il quale subito mi rivolse la parola dicendomi:
- Il signor Prevosto mi dice che tu vuoi studiare; è vero?
- Sì, signor don Bosco.
- E mi dice che vuoi farti medico.
- No, signor don Bosco. Io non voglio farmi medico.
- Si, si - replicò -, medico delle anime.
Nell'autunno dell'anno seguente tornò a Castelnuovo accompagnato da molti giovani, che aveva condotto da Torino per la festa del rosario. Mi avvicinai a lui, ed egli, sorridendo:
- Oh - mi disse -, tu sei il piccolo Cagliero, e desideri venire a Torino con me, e va bene. Continua ad essere buono e ci rivedremo; intanto io ti do un consiglio: preparati e vatti a confessare, affinché l'anima tua sia sempre più bella e amata dal Signore.
Il giorno di tutti i Santi era stato invitato a fare il discorso dei Morti, ed io lo accompagnai al pulpito, vestito da chierichetto. Dopo la predica, giunsi in sacrestia:
- Dunque - mi disse -, desideri proprio venire con me a Torino?
- Si, signore.
- Molto bene; allora dì a tua mamma che stassera passi alla Parrocchia per intenderci sulla partenza». Giovanni era orfano di padre, e sua mamma si chiamava Teresa. Quando quella donna semplice arrivò, don Bosco scherzò:
- E’ vero, Teresa, che volete vendermi vostro figlio?
- Ah no! - rispose la donna -. Qui da noi si vendono i vitellini. I ragazzi si regalano.
- Meglio ancora. Preparategli un po' di biancheria, e domani me lo porto con me (MB 17, 289).
Il fagottino e la carrozza
«L'indomani, col mio fagottino, montavo sulla modesta carrozza di campagna, e mi sedevo a suo lato, avendo davanti a noi il vetturino.
Durante il viaggio la mia curiosità spaziava per le campagne, colline e stradali, e manifestavo la mia meraviglia nel vedere tante cose nuove per me; e quando, giunti alla salita di Pino, mi si presentò la maestosa collina di Superga con la chiesa e il palazzo reale:
- Oh che bello! - esclamai - che monumento! che altezza!
Don Bosco mi lasciò fare e mi lasciò dire. Stando per cadere il giorno m'interruppe:
- Finora hai parlato tu; adesso, se sei contento, parlo io e di cose più importanti. Ti sei poi confessato dopo che ci siamo veduti sul principio dell'autunno?
- No, signore, non mi sono confessato.
- Eppure sarebbe stato ben fatto, se in questa festa di tutti i Santi e in questo giorno dei Morti avessi regalato una Comunione alle povere anime del Purgatorio.
- Mah! nessuno mi ha detto niente!... il maestro non me ne parlò; sono stato alla chiesa... si confessavano molti uomini, ma noi ragazzi ci fermammo nella sacrestia e non c'invitarono a confessarci.
- Vedi, don Bosco la pensa in altro modo riguardo a voi, poveri giovanetti; e da questo punto ti aiuterà a curare le cose dell'anima tua bene. Intanto vediamo un po'... Ti sentiresti di raccontarmi tutte le tue imprese? e, s'intende, le più belle!
Io, che m'ero già formato un'idea grande della bontà di don Bosco e sentivo per lui una grande confidenza, gli raccontai le mie avventure di scolaro, di chierichetto di sacrestia, di caporione dei giochi e anche di piccolo cantore, di catechista dei più piccoli, di passeggiate... A don Bosco piacque la mia franchezza e mi disse:
- Sono contento. Ma giunti a Torino don Bosco ti insegnerà a dirgli non solo le cose di fuori, ma anche quelle di dentro» (BS1916, p. 70).
« Quanta povertà in quella casetta»
«Era la sera ed eravamo stanchi. Don Bosco mi presentò a Mamma Margherita: - Mamma, ti ho portato un ragazzetto di Castelnuovo.
La mamma rispose:
- Oh, sì, tu non fai altro che cercare ragazzi, e io non so più dove metterli.
- Questo è così piccolo - scherzò don Bosco - che lo metteremo a dormire nel canestro dei grissini. Con una corda lo tireremo su, sotto la trave, come una gabbia di canarini.
Mamma Margherita si mise a ridere e mi cercò un posto. Non c'era davvero un angolo libero, e per quella sera dovetti dormire ai piedi del letto di un mio compagno.
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Il giorno dopo vidi quanta povertà c' era in quella casetta. Bassa e stretta la stanza di don Bosco. I nostri dormitori, a pian terreno, erano stretti, e avevano per pavimento un selciato di pietre da strada. In cucina c erano poche scodelle di stagno con i rispettivi cucchiai. Forchette, coltelli, tovaglioli li vedemmo molti anni dopo. Il refettorio era una tettoia. Don Bosco ci serviva a pranzo, ci aiutava a tenere in ordine il dormitorio, puliva e rappezzava i nostri abiti, e faceva tutti i più umili servizi.
Facevamo vita comune in tutto. Più che in un collegio, ci sentivamo in una famiglia, sotto la direzione di un padre che ci voleva bene... Dei signori venivano a visitare don Bosco, e si meravigliavano di trovarlo seduto sopra un cavalletto di legno, o anche per terra, come nascosto da un gruppo numeroso di ragazzi, mentre raccontava o giocava con noi» (MB 4,291ss).
«Arrivata domenica, vidi il cortile pieno d'altri giovani, esterni, più alti di me, che si confessavano da don Bosco nella cappella, poi tornavano in cortile aspettando che don Bosco avesse finito per ascoltare la Messa e fare la Comunione.
Un bacio sulla guancia
«Seguendo il loro esempio e tirati dalla benignità e dolcezza di don Bosco, anche noi nuovi andavamo a confessarci. Tornavamo contenti e soddisfatti.
Negli anni seguenti, i giovani interni ed esterni erano aumentati di molti, e ogni domenica venivano altri bravi sacerdoti per confessare. Ma io non cambiavo mai confessore. Durante le sue assenze sentivamo enormemente la sua mancanza.
In una di quelle assenze mi andai a confessare alla Consolata. Trovai un buon Padre, m'inginocchiai alla grata e feci una confessione molto scomoda perché non ero abituato a confessarmi a quella maniera. Quel sacerdote mi fece delle riflessioni giuste ma secche.
Un'altra volta era festa grande e c'era una folla che voleva confessarsi da don Bosco. Finii per confessarmi da un altro buon prete che don Bosco aveva invitato di fuori. Tutto andò bene. Ma alla fine credette fare un'ottima cosa col darmi uno stretto abbraccio e scaldarmi la guancia con un bacio! Non ne feci caso, ma neppure mi piacque, perché dicevo tra me: "Don Bosco mi vuol bene, e molto bene; eppure non mi ha mai fatto questo!"» (BS 1916, p. 70).
Estroverso, entusiasta, Giovanni Cagliero visse la povera vita dell'Oratorio rendendola ricca con un amore totale a don Bosco e un'esuberante fantasia.
Al mattino, il gruppetto degli studenti a cui apparteneva, usciva in città per raggiungere la scuola del professor Bonzanino. Michele Rua era la guida diligente, riflessiva. Ma Giovanni non ci stava a fare la strada tranquillo tranquillo. Appena fuori si metteva a correre, raggiungeva di volata piazza Castello (tre isolati più in là della scuola) e si fermava incantato a guardare. Poi, sempre di corsa, alla scuola, dove arrivava magari sudato, ma insieme ai suoi compagni. Michele Rua non era d'accordo, ma non poteva dir niente perché Giovanni era puntuale.
Le meraviglie di piazza Castello
Cosa vedeva Cagliero in piazza Castello?
Di fronte a Palazzo Madama (dove ora c'è la statua al fante piemontese) c'era l'uomo della scimmia. Suonava un concertino di campanelli e distribuiva il pianeta della fortuna e i numeri del lotto. Alla sua sinistra un elegante prestigiatore in marsina e tuba faceva trasecolare gli spettatori. Altrove un circolo di saltimbanchi coll'immancabile clown (chiamato Toni) attirava altra gente, mentre il burattinaio, dalla parte della basilica di S. Lorenzo, scampanellando avvertiva che Gianduia stava per prodursi in un mirabolante programma.
In altre ore della giornata (ma chissà se Cagliero riusciva ad essere presente), piazza Castello offriva altri spettacoli. Alle 15 in punto squillava la tromba del corpo di guardia, e subito usciva dal Palazzo Reale una staffetta a cavallo in abito rosso, e dietro il re, rigido e serio, pure a cavallo, con una piccola scorta attra- versava la piazza, tra i saluti rispettosi del popolo. Per via Navona (ora via Roma) andava verso Porta Nuova, e dopo un'ora precisa di passeggiata rientrava a Palazzo.
Per la partenza e l'arrivo di truppe, in piazza Castello si facevano dimostrazioni e sbandieramenti.
In giugno, alla vigilia della festa di S. Giovanni (patrono della città) si alzava davanti a Palazzo Madama un'alta catasta di legna. Al giungere della notte tutto il popolo si radunava nella piazza, i soldati si schieravano intorno, e a un dato segnale si appiccava il fuoco alla pira, e le legne secche miste a paglia levavano un'al- tissima fiammata fra le grida di entusiasmo della folla e gli spari a salve del presidio e della guardia nazionale. Spento il fuoco, i monelli si impadronivano dei mozziconi ardenti, e roteandoli e schiamazzando, se li portavano a casa.
39. I «miracoli» di don Bosco
La « risurrezione» di Carlo
Uno dei fatti più clamorosi della vita di don Bosco è quello passato sotto il nome di «risurrezione di Carlo». Esso ha fatto discutere violentemente gli storici, fino a farlo annoverare da alcuni fra le « pie leggende».
La più antica narrazione del fatto è dovuta al medico nizzardo Charles d'Espiney, che nel 1881 pubblicò un libretto, Don Bosco, con una serie di brevi episodi tendenti al meraviglioso. La «risurrezione di Carlo» sarebbe avvenuta, secondo d'Espiney, a Roma, e don Bosco vi sarebbe accorso da Firenze.
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Don Bosco protestò più di una volta per questa pubblicazione, se ne lamentò con lo stesso autore. Il libro di d'Espiney non ebbe buona accoglienza a Valdocco.
Stendendo il terzo volume delle Memorie Biografiche (edito nel 1903), Giovanni B. Lemoyne riprese la narrazione del fatto, sommando insieme molte testimonianze di diverso valore storico, e ammucchiando particolari, alcuni dei quali di dubbio valore.
Lo storico Pietro Stella sottopose la narrazione a una serrata critica in 25 pagine del suo Don Bosco nella storia della Religiosità Cattolica, Vol. I: Vita e Opere, edito nel 1968. A pagina 282 Stella conclude: «Per un ritorno al racconto di Don Bosco e al fatto oggettivo sarebbe auspicabile che si adottassero le relazioni Fassati e Documenti III anche se di quest'ultima non conosciamo esattamente i precedenti».
In conclusione Stella ci indica come totalmente e unicamente sicura la «relazione Fassati». È’ la testimonianza della marchesa Maria Fassati, scritta in francese. Mi sono fatto aiutare dallo stesso Pietro Stella a tradurre meticolosamente in italiano la testimonianza. Eccola.
Dalla bocca stessa di don Bosco
«Ho sentito questo racconto dalla bocca stessa di don Bosco, e ho cercato di scriverlo con la massima fedeltà.
Un giorno qualcuno venne a cercare don Bosco per un giovane che frequentava l'Oratorio, e che pareva gravemente ammalato. Don Bosco era assente, e non tornò a Torino che due giorni dopo. Poté recarsi dal malato solo il giorno seguente, verso le quattro del pomeriggio.
Arrivando alla casa dove abitava, vide il drappo nero alla porta, con il nome del giovane che veniva a trovare. Tuttavia salì, per vedere e consolare i poveri genitori. Li trovò in lacrime. Gli raccontarono che il loro figlio era morto nella mattinata. Don Bosco domandò allora se poteva salire alla stanza ov'era il corpo del defunto, per rivederlo ancora una volta. Uno della famiglia lo accompagnò.
- Entrando nella camera - ha affermato don Bosco -, mi venne il pensiero che non fosse morto, mi avvicinai al letto e lo chiamai per nome: "Carlo!". Allora egli aprì gli occhi e mi salutò con un sorriso stupito. "Oh, don Bosco - disse ad alta voce - mi avete svegliato da un brutto sogno!"
In quel momento alcune persone che erano nella stanza fuggirono spaventate, lanciando grida e rovesciando i candelieri. Don Bosco si affrettò a strappare il lenzuolo nel quale era avvolto il giovane, che continuò a parlare così: "Mi pareva di essere spinto in una caverna lunga, oscura, e così stretta che potevo appena re- spirare. Al fondo vedevo come uno spazio più largo e più chiaro, dove molte anime venivano giudicate. La mia angoscia e il mio terrore crescevano sempre più, perché vedevo un gran numero di condannati. Ed ecco che era arrivato il mio turno, e stavo per essere giudicato come loro, terrorizzato perché avevo fatto male la mia ultima confessione, quando voi mi avete svegliato!".
Frattanto il padre e la madre di Carlo erano accorsi alla notizia che il loro figlio era vivo. Il giovane li salutò cordialmente, ma disse loro di non sperare nella sua guarigione. Dopo averli abbracciati, domandò di essere lasciato solo con don Bosco.
Gli raccontò che aveva avuto la disgrazia di cadere in un peccato che aveva creduto mortale, e che sentendosi molto male l'aveva mandato a cercare con la ferma intenzione di confessarsi. Ma non l'avevano trovato. Avevano chiamato un altro prete che non conosceva e a lui non aveva avuto il coraggio di confessare quel peccato. Dio gli aveva appena fatto vedere che aveva meritato l'inferno con quella confessione sacrilega. Si confessò con molto dolore, e dopo aver ricevuto la grazia dell'assoluzione, chiuse gli occhi e spirò dolcemente» (ST i ,289s).
Storia di un muratorino
I miracoli di don Bosco, normalmente, erano di altro genere. Ecco una testimonianza di Giovanni B. Francesia:
«Un giorno ci raccontava un nostro compagno, diventato professore e Direttore delle scuole Tecniche di Ivrea: "Io ero venuto a Torino per guadagnarmi il pane come garzone muratore. Avevo dieci anni! Mi era morto il padre, e la madre, poveretta, non aveva di che mantenermi. Mi stampò piangendo un bacio in fronte e mi consegnò ad un padrone che mi doveva condurre a Torino per lavorare. Qui ebbi la ventura di trovare don Bosco, che mi invitò al suo Oratorio. In lui, nella sua carità, ravvisai mia madre. Egli non ci parlava che di Dio, di anima e di eternità, ma ci aiutava a guadagnarci meglio il pane della vita. Venni qui a scuola, ed imparai a leggere, a scrivere ed a fare i primi conti. Un dì però me la vidi brutta. Avevo portato una secchia di calcina su su al secondo piano. Non so come, inciampai, e ruzzolando giù dai ponti mi fermai a terra. Fui creduto morto. Al ritorno dei sensi mi accorsi che avevo un braccio rotto. Chi sa dirmi gli spasimi sofferti! Fui portato all'Ospedale e lasciato là quasi senza che alcuno pensasse ancora a me. Oh! C'era benissimo don Bosco! Egli venne a sapere della disgrazia, e verso sera me lo vidi sorridente ai piedi del letto. Mi fece coraggio, mi disse di non temere di nulla e che egli avrebbe provveduto a tutto.
Da quel giorno mi trovai quieto. Feci sapere alla mamma la mia disgrazia, che consolatasi della carità di don Bosco, rispondevami: 'Figlio, ringraziamo il Signore che ti ha fatto trovare un padre! '. Il braccio non tornò mai più robusto come era prima, e dovetti lasciare il faticoso mestiere. Studiai alla sua scuola, prima, attendendo anche a qualche lavoro, e poi, quando lo credette conveniente, mi tolse (=prese) con sé per avviarmi allo studio. Per lui credo di non aver perduto tempo. E ora nella scuola e coi libri, ripensando al bene ricevuto, ringrazio la divina Provvidenza d'avermi fatto trovare don Bosco"» (VBP 163 s).
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Don Bosco: un enigma?
A questo punto, forse, occorre far notare che il d'Espiney, così disinvolto nel narrare la «risurrezione» di Carlo, è il primo responsabile di un'affermazione che, messa in bocca a don Cafasso, è diventata uno dei «cavalli di battaglia» dei moderni denigratori di don Bosco: «Don Bosco è un mistero», trasformata disinvoltamente in «Don Bosco è un enigma».
Ecco che cosa avrebbe affermato don Cafasso secondo due di questi moderni «biografi»: «Se non fossi certo che lavora per la gloria di Dio, direi che èun uomo pericoloso, più per quel che non lascia trasparire, che per quel che ci dà a conoscere di sé. Don Bosco, insomma, è un enigma». E uno di essi com-menta: «Sento un brivido. Ci sono ancora altri aspetti nella vita di don Bosco che lasciano intuire abissi difficilmente esplorabili». Si rimane allibiti dal modo in cui due «scrittori sapienti» hanno tagliato e scorciato le parole (già di per sé di dubbio valore) riportate dal povero d'Espiney. «Ecco il testo esatto ed integrale - scrive lo storico Francesco Motto - della citazione del Cafasso (in una traduzione del 1890: Don Bosco pel dottore Carlo Despiney, prima versione italiana sull'undicesima edizione francese, p. 11): "Sapete voi bene chi è don Bosco? Per me, più lo studio e meno lo capisco: lo vedo semplice e straordinario; umile e grande; povero e occupato da disegni vastissimi, da progetti in apparenza non attuabili; e tuttavia sempre attraversato nei suoi disegni e come incapace di far riuscire e bene le sue imprese. Per me don Bosco è un mistero. Se non fossi certo che egli lavora per la gloria di Dio, e che Dio solo lo guida, che Dio solo è lo scopo di tutti gli sforzi suoi, lo direi un uomo pericoloso più per quello che lascia intravedere, che per quello che manifesta. Ve lo ripeto: don Bosco per me è un mistero. Lasciatelo fare"» (Bollettino Salesiano, 1luglio 1987, p. 40). A questo punto, Motto espone il contesto in cui don Cafasso avrebbe fatto questa affermazione: «amici affezionatissimi» e personaggi influenti di Torino criticavano presso di lui il «giovanissimo prete» don Bosco per lo zelo spropositato che dimostrava: lavoro eccessivo per folle di giovani vagabondi, ministeri sacerdotali nuovi, troppe attività. Le critiche terminavano con un interrogativo perplesso: «Ma che uomo è questo vostro don Bosco?». L'affermazione del Cafasso è la risposta a questo interrogativo.
Motto aggiunge domande che ogni biografo serio dovrebbe porsi: «Chi ci garantisce che don Cafasso ha veramente detto queste parole? E, posto che le abbia dette, quando le disse?». Certamente quando don Bosco era un «giovanissimo prete», agli inizi della sua opera, e comunque prima del 1860, anno in cui don Cafasso morì. Ora da quell'anno don Bosco visse ancora 28 anni, e in quegli anni «egli ha operato alla luce del sole in Italia, Francia e Spagna, ha scritto migliaia di pagine, ha tenuto decine e decine di conferenze e discorsi. Non ha per caso offerto altri spunti che ad un occhio attento permette di meglio "comprendere" il "mistero" della sua vita?» (ib.).
Anch'io sento un brivido. L'ignoranza (o la mala fede?) di certi biografi lasciano intravedere «abissi difficilmente esplorabili».
40. Il vetturino al confessionale
Venti soldi e molte bestemmie
Don Bosco patì sempre la carrozza (allora chiamata diligenza). Il dondolamento gli procurava nausea e mal di stomaco. Per questo, quando doveva viaggiare in carrozza pubblica (di ferrovie ce n'erano ancora poche), sovente chiedeva al vetturino la gentilezza di farlo sedere all'aperto, accanto a lui.
Un giorno tornava in diligenza da Ivrea a Torino, e sentiva il cocchiere che, quando sferzava i cavalli, bestemmiava. La carrozza gli dava fastidio, e le bestemmie ancora di più.
- Mi lascia salire accanto a lei? Qui al chiuso il mio stomaco non ce la fa più.
- Volentieri. Peccato che qui c'è vento forte.
- Vorrei da lei anche un altro piacere...
- Vuole arrivare presto a Torino? Bene! - E si mise a sferzare i cavalli, e tra una sferzata e l'altra giù bestemmie.
- Non è questo. Voglio che non bestemmi più.
- Oh, se è solo per questo... Non bestemmierò più. Sono uomo di parola.
- Per questo piacere che mi fa, vorrei darle una piccola mancia...
- Assolutamente no. A non bestemmiare sono obbligato.
Don Bosco insistette e alla fine il vetturino accettò venti soldi (= una lira, circa cinquemila lire del 1986).
Ma alla prima sferzata, giù una bestemmia. Il brav’uomo si morse quasi la lingua.
- Sono proprio un bestione, come vede non merito nessuna mancia.
Don Bosco rispose:
- Facciamo un gioco. Io le do venti soldi, ma ad ogni bestemmia ne levo quattro.
- Ci sto. Stia tranquillo che la lira me la guadagnerò tutta.
«Dopo un bel tratto di strada - racconta don Bosco - i cavalli rallentano, e il cocchiere sferza e bestemmia: - Sedici soldi, amico mio, gli dissi».
Il pover'uomo si vergognava, borbottava contro se stesso. «Dopo un altro pezzo di strada, sferzata e due bestemmie: - Otto, amico mio; siamo a otto soldi».
- Maledetto vizio che mi ha fatto perdere dodici soldi.
- Non dovete rattristarvi per così poco, ma piuttosto per il male che fate all'anima vostra.
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- È’ vero. Ma sabato andrò a confessarmi. È’ di Torino lei?
- Sì, sono all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Mi chiamo don Bosco.
- Va bene, ci rivedremo.
«Viaggiando fino a Torino, pronunciò ancora una bestemmia. Perciò io gli dovevo solo quattro soldi, ma gliene feci accettare venti, per lo sforzo che aveva fatto... Lo aspettai di sabato in sabato. Al quarto lo vidi venire e mescolarsi ai giovani. Quando venne il suo turno mi disse: - Non mi riconosce? Sono quel tal cocchiere. Sappia... che non ho più bestemmiato. Mi sono prefisso di stare a pane ed acqua ogni volta che avessi detto una bestemmia; e ci sono stato una volta sola».
Giovanni B. Lemoyne scrive: «Don Bosco stesso ci raccontò questo fatto», e lo riferisce in MB 3,83.
Dopo dieci ore prese il lume
Ma don Bosco non confessava solo i vetturini. Giovanni B. Francesia ricorda: «Non si trovava mai stanco. Non l'abbiamo mai sentito dire: un'altra volta! un altro momento! Anche dopo dieci, dodici ore di confessionale, cosa ordinaria in tempo di Esercizi Spirituali, perché tutti volevano confessarsi da lui, se capitava che qualcuno lo pregava di ascoltarlo in momento che sarebbe parsa carità dire "Vieni domani", invece egli senz'altro diceva: "Vieni avanti!". Ricordo che una sera l'accompagnavamo in camera, dopo al- meno dieci ore di questa fatica, e si vedeva che aveva proprio bisogno di riposo... Allora comparve uno... che disse a don Bosco, che lo volesse ascoltare un momento. Noi ci guardammo in fronte, ci pensammo di sentirci a dire: "Ma a quest'ora? Torna domani!". Invece no. Prese il lume di mano a chi lo portava, e rivolto a chi l'aveva richiesto disse: "Vieni pure avanti ».
«Si andava a trovare in camera per fargli vedere un lavoro - continua lo stesso Francesia - per manifestargli un dubbio, per interrogarlo se si poteva o no fare qualcosa, egli lasciava dire e dire, e poi: - E come stai?
- Bene, caro don Bosco!
- E di anima?
E se qualcuno si mostrava un po' turbato, egli subito diceva:
- E chi ti impedisce di trovare la pace? -. Segnava un piccolo inginocchiatoio che c'era appoggiato al muro, e poi esortandolo a fermarsi un momento a fare l'esame (di coscienza), si disponeva subito a confessarlo» (ivi, 51).
Non interruppe mai questo santo ministero, al quale dedicava due o tre ore al giorno. Nelle occasioni straordinarie era pronto a confessare tutto il giorno e anche tutta la notte (MB 3,73).
Uomini scuri in volto, a sera tardi
Francesco Dalmazzo racconta di aver visto sovente, a sera tarda, arrivare a Valdocco «uomini scuri in volto». Avevano sentito parlare della santità di don Bosco e venivano a confessarsi da lui. «Spesso si vedevano entrare sfiduciati, e poi uscire dalla stanza di don Bosco col volto raggiante di gioia» (MB 3,73).
Per molti che lo conoscevano, il nome di don Bosco si confondeva con quello di confessione. Quando incontrava qualcuno, era normale che, dopo i saluti, gli domandasse: «E di anima come stai? Hai fatto Pasqua? Quanto tempo è che non ti confessi?».
Un antico allievo di don Bosco, entrato all'Oratorio già adulto e rovinato da cattive abitudini, quando seppe che don Bosco era morto, scrisse con umiltà: «Quella calma sempre serena e tranquilla di don Bosco, una certa qual indifferenza a qualunque cosa gli si dicesse; quel suo linguaggio di un amore santo, di una com- passione viva e soave, quel sentire, senza scomporsi mai, ripetutamente le stesse miserie, furono i mezzi con cui riuscì a mettermi nell'anima il coraggio, la fiducia che avrei vinto le mie passioni... Quante anime tornerebbero alla salvezza se nel confessore trovassero sempre quell'amabilità, quella lieta e consolante accoglienza che era propria di don Bosco» (MB 18,23).
41. Dopo le pietre vive, anche le pietre morte
Comprare la propria casa
Negli anni 1850-52 sono giunti all'Oratorio i giovani che saranno, insieme a Giuseppe Buzzetti, le prime pietre vive dell'opera salesiana: Michele Rua, Giovanni B. Francesia, Giovanni Cagliero.
Negli stessi anni don Bosco cerca di consolidare anche materialmente la sede della sua opera: diventare proprietario della casa Pinardi e costruire una chiesa degna di questo nome.
Nella zona di Valdocco non ci sono più soltanto sporadici cascinali semirustici, tra prati incolti e orti. Il paesaggio è ancora di campagna: a ridosso dell'Oratorio scorre un canale di irrigazione e nei prati intorno pascolano greggi e armenti (un margaro fornisce a don Bosco ricotta e formaggio per la mensa dei ragazzi); ma case e opifici cominciano a delinearsi. Occorre consolidare la residenza dell'Oratorio, comprare campi e prati intorno per i futuri sviluppi, se non si vuole rimanere dall'oggi al domani imbottigliati nello sviluppo urbano.
Per prima cosa, pensa di comprare la casa dove l'Oratorio abita. Ecco il suo racconto:
«Quelli che avevano perso l'alloggio (nella casa Pinardi) non riuscivano a rassegnarsi. Dicevano in giro:
- Era una casa di sollievo e di allegria. E adesso guarda! E finita nelle mani di un prete, per di più di un prete intollerante!
Al Pinardi fu offerto un affitto due volte maggiore di quanto gli davo io. Ma era un brav’uomo. non si sentiva di
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far denari dando la sua casa per usi equivoci. Più volte mi propose di comprare tutto, per farla finita. Ma il prezzo che proponeva era esagerato. Chiedeva 80 mila lire per un edificio che ne valeva un terzo» (Memone, 190).
Giunti alle strette (anche per un non meglio precisato «fatto di sangue» che persuase Pinardi a disfarsi della casa), don Bosco fece la sua offerta:
«- L'ho fatta stimare da un amico mio e suo... Nello stato attuale il suo valore è tra le 26 e le 28 mila lire. Io, per farla finita, gliene do 30 mila».
L'affare fu sancito con una vigorosa stretta di mano.
«Ma dove trovare 30 mila lire in quindici giorni? Ci pensò la Provvidenza. Quella sera stessa don Cafasso (cosa insolita nei giorni di festa) viene a farmi visita, e mi dice che una pia persona, la contessa Casazza- Riccardi, l'aveva incaricato di darmi diecimila lire da spendersi in quello che avrei giudicato meglio nel Signore. Il giorno dopo giunse un religioso rosminiano (P. Carlo Girardi) che veniva a Torino per impiegare ventimila lire. Mi domandò consiglio su come spenderle. Gli proposi di imprestarle a me, ad interesse (del quattro per cento) per pagare la casa Pinardi. La somma era completa. Le tremila lire di spese accessorie furono aggiunte dal cavalier Cotta, nella cui banca venne stipulato l'atto, tanto sospirato» (Memorie, 191). L'atto pubblico fu steso dal notaio Turvano il 19 febbraio 1851. Il prezzo non fu di 30 mila lire (don Bosco con le cifre è sovente incerto) ma di L.28.500.
I ragazzi svenivano
«Ora bisognava pensare a una chiesa più decorosa per le celebrazioni liturgiche e più adatta alla quantità sempre crescente di giovani.
La cappella-tettoia era stata ingrandita un poco, ma era sempre troppo piccola e troppo bassa. Chi vi entrava doveva scendere due gradini, e così, quando fuori pioveva, l'acqua vi entrava e ci allagava. D'estate eravamo invece soffocati dal caldo e dall'odore sgradevole. In ogni festa c'era qualche ragazzo che sveniva. Dovevamo portarlo fuori a braccia, come un asfissiato» (Memorie, 193).
A Valdocco le lavandaie esponevano nei prati i lunghi festoni di biancheria lavata per conto dei cittadini, ma la lavanderia non doveva essere molto frequentata da quei giovani appartenenti alle classi più povere e abitanti in catapecchie e soffitte.
Il discorso di Barrera e il dialogo dei ragazzi
«Era quindi necessario - continua don Bosco - costruire un edificio arioso, salubre e proporzionato al numero dei giovani. Il disegno fu fatto dal cavalier Blachier... Furono scavate le fondamenta. La prima pietra fu benedetta il 20 luglio 1851 dal canonico Moreno, economo generale della diocesi, e collocata dal cavalier Giuseppe Cotta». Intervenne anche il sindaco di Torino, avvocato Giorgio Bellono. «Il celebre padre Barrera, commosso dalla vista di un gran numero di gente venuta per quella circostanza, montò su un rialzo di terreno e improvvisò uno stupendo discorso» (Memorie, 193s).
Oltre al discorso ci fu anche un dialogo scritto da don Bosco e recitato dai ragazzi. Francesia lo ricorda perché ne fu il protagonista:
«Me ne ricordo come se fosse ieri. Don Bosco ci raccolse dopo Messa, nella piccola saletta del pian terreno, e ci disse che nella sera si sarebbe benedetta la pietra fondamentale (della nuova chiesa), e che il Sindaco di Torino sarebbe intervenuto, con l'abate Moreno. "Ma bisogna pensare a ricevere bene questi personaggi. Chi di voi si sente di imparare a memoria un dialogo che andrò a finire?".
Noi ci guardammo in faccia, ed io che scrivo ebbi l'ardimento di offrirmi, senza sapere che avrei dovuto fare. Intanto don Bosco scomparve, e noi stemmo ad attenderlo, discorrendo in quel piccolo salotto, che tante volte fu visitato dal famoso grigio. Un momento dopo, ricomparve don Bosco, tenendo in mano alcuni foglietti da lui scritti, e tutti coperti di assai correzioni. Era la prima volta che mi esponevo in pubblico; e venne a esercitarci il chierico Buzzetti, che, non fo per dire, ma si trovava anch'egli assai imbrogliato a leggere la scrittura di don Bosco.
Oltre a mille correzioni, c'erano postille di qua e postille di là, da mettere alla prova l'uomo più pacifico».
Andò tutto bene: il discorso, il dialogo, la festa.
«Quella festa allegra e rumorosa attirò giovani da tutte le parti. Molti venivano ormai all'Oratorio a ogni ora del giorno, altri mi pregavano di dare loro ospitalità come interni. Il loro numero, in quell'anno, superò i cinquanta» (Memorie, 194).
Tra le faccette chiare, un moretto
Quella folla di giovani, che si aggirava nei cortili e nei prati come un allegro formicaio, era una comunità molto composita. Figli di nullatenenti (attingo le notizie da Pietro Stella) stavano insieme a qualche spaesato giovane uscito dal correzionale o raccomandato dal ministero dell'Interno. Figli di artigiani si trovavano con figli di contadini. Con cappotti militari scomodi e sdruciti, color tabacco, molti giovani potevano aggirarsi per la casa e stare in cortile o a studio accanto ad altri venuti dalla campagna che vestivano pantaloni e giacche smessi dai fratelli maggiori. Era una comunità di «figli del popolo», per nulla attenti all'estetica.
Ogni tanto tra le faccette chiare spuntava un moretto. Nel 1849 c'era Alessandro Bachir, chiamato da tutti «il moro». Un anno dopo giunse il marocchino Moysa, e anni dopo l'algerino Atnes. Un folto gruppo di svizzeri cercava di imparare velocemente il piemontese, la lingua madre dell'Oratorio, accanto a un altro numeroso
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gruppo di figli di emigranti, nati a Richmond, Baltimora, l'Avana, Rosario in Argentina.
Quanto ai ragazzi usciti dalle carceri o portati dalla questura, don Bosco non li riceveva direttamente: non voleva che le male-lingue scambiassero l'Oratorio per un correzionale. Li accettava purché fossero presentati dalle loro famiglie o da pie persone che se ne rendevano «garanti».
«Tutto quel miscuglio di giovani di ogni età e condizione -scrive S. Biffi in quegli anni - con un perpetuo andirivieni di gente che entra liberamente nell'istituto, è curioso spettacolo». Questo «curioso spettacolo» aveva i suoi momenti di punta durante le ricreazioni. Dopo il 1855, quando aumentò il numero dei preadole- scenti ospitati giorno e notte, don Bosco cercò di intensificare l'assistenza perché i ragazzi non corressero pericoli fisici né morali. Talora inviava qualche chierico (tutto preso dal gioco perché era un ragazzo anche lui) a snidare ragazzi che giocavano a soldi nei sotterranei o in angoli reconditi della casa (cf STELLA, 3,1 89ss).
La prima lotteria
I giovani non furono mai un problema per don Bosco. Lo furono invece, sempre, i soldi. Scrive:
«La costruzione della chiesa era ormai a livello del terreno quando mi accorsi che non avevo più soldi. Con la vendita di case e terreni avevo messo insieme 35 mila lire, ma esse erano sparite come neve al sole. L'Economato (della città) ci assegnò un aiuto di 9 mila lire, ma ce le avrebbe versate quando l'opera fosse terminata. Il vescovo di Biella, poiché nell'Oratorio erano ospitati e aiutati molti giovani lavoratori biellesi, diramò una circolare ai parroci, invitandoli a raccogliere offerte... La questua fruttò mille lire. Ma furono gocce d'acqua su un terreno riarso. Quindi mi misi a pensare a una lotteria pubblica» (Memorie, 1 94s).
Davanti alla cinquantina di pagine dedicate da Lemoyne (MB 4) a questa lotteria, molti hanno storto il naso. Sembra che si voglia dare un'importanza eccessiva a un'impresa tutto sommato banale. Invece non è così. Le lotterie a livello cittadino, in quel tempo, hanno una risonanza straordinaria. Chi riesce ad avere tutti i permessi (e una vistosa lista di oggetti eccellenti) per organizzarla, si mette in luce nella città. E l'opera aiutata dalla lotteria pubblica acquista di colpo importanza cittadina. Stella annota: «Le lotterie erano un momento non del tutto secondario del comportamento collettivo torinese tra restaurazione e unificazione... Tra il 1830 e il 1840 alcune lotterie avevano fruttato somme "ragguardevolissime": L.28.000 in favore dei sinistrati per un incendio a Sallanches in Alta Savoia, L.32.500 in favore dell'Ospedale Maggiore di S. Giovanni Battista in Torino, L.41.000 in favore del manicomio» (ST 3,86). Nel 1852 e nel 1858 due grandiose lotterie in favore delle Missioni, organizzate dal canonico Ortalda, saranno appoggiate da lettere pastorali dei vescovi, da comitati promotori dell'aristocrazia, dalla stampa e dallo stesso governo.
Anche don Bosco fece le cose in grande. Raccolse 3251 doni. «Il Papa, il Re, la Regina Madre, la Regina Consorte e tutta la Corte Sovrana si segnalarono mandando doni», scrisse con legittimo compiacimento. Sia la Corte che il Municipio offrirono locali adatti per l'esposizione dei doni.
Il regio decreto che autorizzò l'apertura della lotteria fu firmato il 9 dicembre 1851. Calcolato il valore dei doni, fu autorizzata l'emissione di 99.999 biglietti a centesimi 50 ciascuno. L'estrazione fu fatta al Palazzo Municipale il 12 e il 13 luglio 1852. «Le spese furono ingenti - scrive don Bosco - ma la somma netta ricavata fu di lire 26 mila» (Memorie, 196).
Quattordici lotterie nella vita
Tra grandi e piccole, don Bosco organizzò nove lotterie tra il 1853 e il 1870, e 5 tra il 1873 e il 1887. Si può dire che in questi primi anni del suo Oratorio, don Bosco ha scoperto due mezzi che non abbandonerà più: gli Esercizi Spirituali per oratoriani e interni, che gli dànno fior di vocazioni; e le lotterie che gli procurano fior di quattrini. Tutti e due gli costano fatiche pesantissime, ma don Bosco considera la fatica una tassa che comunque bisogna pagare. È’ forse interessante notare che, dopo la lotteria del 1865 che si trascinerà per tre anni, don Bosco si dedicherà alle lotterie con meno entusiasmo. Agli Esercizi Spirituali si dedicherà sempre con l'entusiasmo della prima volta.
42. Letture Cattoliche e attentati
«Io non metto la mia firma lì sotto»
Nei primi mesi del 1848, Carlo Alberto aveva concesso «parità di diritti civili» agli ebrei e ai protestanti, fin'allora solo «tollerati».
«I protestanti - scrive don Bosco - erano forniti di molti mezzi finanziari, ed erano preparati a una massiccia campagna di propaganda. I cattolici, invece, confidando nelle leggi civili che fino allora li avevano protetti e difesi, possedevano soltanto qualche giornale, qualche opera di cultura. Nessun periodico, nessun libro da mettere in mano alla gente semplice...
Era necessario mettere in mano alla gente, e specialmente ai giovani, qualche mezzo di difesa, inventare qualche mezzo popolare con cui diffondere la conoscenza delle verità fondamentali della religione cattolica. Feci quindi stampare un libretto dal titolo A vvisi ai Cattolici, che aveva lo scopo di mettere in guardia i cattolici dalle insidie dei protestanti. La diffusione di quel librettino fu straordinaria: in due anni più di duecentomila copie. Questo successo fece piacere ai buoni, ma infuriò i protestanti...
Mi persuasi sempre più che era urgente preparare e stampare libri per il popolo, ed elaborai il progetto delle Letture Cattoliche» (Memorie, 205s).
Il programma di quella collana era condensato in pochi punti:
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libretti semplici, popolari, mensili, di cento pagine, ogni fascicolo al prezzo di centesimi 15 (L.600 del 1986). Preparati i primi fascicoli volevo pubblicarli subito, ma sorse una difficoltà che non avevo previsto. Nessun vescovo voleva (...) mettere il suo nome (...) come "revisore ecclesiastico"(...). Il canonico Giuseppe Zappata, Vicario Generale (l'Arcivescovo Fransoni era in esilio a Lione) lesse e rivide metà del primo fascicolo. Poi mi restituì il manoscritto dicendomi:
- Si riprenda il suo lavoro. Io non metto la mia firma lì sotto... Lei sfida i nemici; li attacca frontalmente».
Due giornalisti cattolici, a Roma, erano stati assassinati poco tempo prima. Avallare i libretti coraggiosi di don Bosco voleva dire rischiare la pelle, come lui stesso sperimenterà fra poco. Finalmente, dice don Bosco, i libretti furono approvati e sottoscritti dal vescovo d'Ivrea, mons. Moreno.
«Le Letture Cattoliche furono accolte con consensi vastissimi. Il numero dei lettori fu straordinario. Ma questo suscitò le ire dei protestanti» (Memorie, 208). Nel 1861 ogni fascicolo tirava 10 mila copie. Dal 1870 la media per ogni fascicolo raggiunse le 15 mila (MB 4,534).
«Sembrava ci fosse una congiura segreta contro di me. (...) Sembrano favole gli attentati che racconto, ma purtroppo sono tristi verità, ed ebbero moltissimi testimoni» (Memorie, 21 lss).
Il cane misterioso
«A quel tempo, (da Torino) scendendo verso l'Oratorio c'era un lungo tratto di campagna ingombra di cespugli e di acacie.
Una sera oscura, piuttosto sul tardi, venivo a casa solo soletto... quando mi vidi accanto un grosso cane che a prima vista mi spaventò. Ma non ringhiò contro di me, anzi mi fece le feste come se fossi il suo padrone. Abbiamo fatto amicizia e mi accompagno fino all'Oratorio. Ciò che avvenne quella sera si ripeté molte altre volte. Posso dire che il Grigio (così don Bosco chiamò quel cane) mi ha aiutato parecchie volte in maniera straordinaria. Esporrò alcuni fatti.
Sul finire del novembre 1854, una sera nebbiosa e piovosa, venivo solo dalla città... A un tratto mi accorsi che due uomini camminavano a poca distanza da me. Acceleravano o rallentavano il passo ogni volta che io acceleravo o rallentavo... Provai a tornare indietro, ma era troppo tardi: con due balzi improvvisi, in silenzio, mi gettarono un mantello sulla testa. Mi sforzai di non lasciarmi avviluppare dal mantello, ma non ci riuscii. Uno tentò di turarmi la bocca con un fazzoletto. Volevo gridare ma non ci riuscivo più. In quel momento apparve il Grigio. Urlando si lanciò con le zampe contro la faccia del primo, poi azzannò l'altro. Ora dovevano pensare al cane prima che a me.
- Chiami questo cane! - gridarono tremanti.
- Lo chiamo se mi lasciate andare in pace.
- Lo chiami subito! - implorarono.
Il Grigio continuava a urlare come un lupo arrabbiato. Andarono via lesti, e il Grigio, standomi al fianco, mi accompagnò».
«È il cane di don Bosco»
«Tutte le sere in cui non ero accompagnato, entrato tra gli alberi, vedevo spuntare il Grigio da qualche punto della strada. I giovani dell'Oratorio lo videro molte volte. Una sera entrò nel cortile e fu il protagonista di una lunga scena. Qualcuno lo voleva allontanare con un bastone, altri con dei sassi. Giuseppe Buzzetti intervenne:
- Non fategli del male. È’ il cane di don Bosco.
Allora si misero ad accarezzarlo e a fargli festa. Lo accompagnarono da me. Ero in refettorio e facevo cena con alcuni preti e mia madre. Lo guardarono tutti sbigottiti:
- Non temete - dissi - è il mio Grigio. Lasciatelo venire.
Difatti, compiendo un largo giro intorno alla tavola, mi venne vicino tutto festoso. Gli feci una carezza e gli offrii minestra, pane e companatico. Rifiutò tutto.
- Allora cosa vuoi? - mormorai. Egli mosse le orecchie e agitò la coda -. Se non vuoi mangiare, va' in pace - dissi.
Egli, sempre festoso, appoggiò la testa sulla mia tovaglia come volesse parlare e augurarmi buona sera. Poi si lasciò accompagnare dai ragazzi, allegri e meravigliati, fuori della porta. Mi ricordo che quella sera ero venuto a casa tardi, e un amico mi aveva portato nella sua carrozza» (Memorie, 216-218 passim).
Batistin Francesia, che allora aveva 16 anni, lo vide più volte.
Scrive:
«Faceva un giro attorno alla tavola, si sdraiava un poco ai piedi di don Bosco, e poi via. Mi pare ancora di vederlo, quando con le zampe raspava alla porta perché gli si aprisse, e poi entrava nel piccolo salotto, dove don Bosco pranzava co' suoi. Una volta il portinaio, impaurito, alzando il bastone glielo diede sulla schiena, l'animale ricevette il colpo, mandò un guaito, e poi via» (VBP 179).
Il pensiero di scoprire la provenienza di quel cane venne più volte a don Bosco. Ma non riuscì a trovare niente. Nel 1872 la baronessa Azelia Ricci des Ferres nata Fassati gli domandò cosa pensasse di quel cane, e don Bosco sorridendo rispose: «Dire che sia un angelo farebbe ridere. Ma neppure si può dire che sia un cane ordinario» (MB 10,386).
Killer con coltello
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Nelle sue Memorie don Bosco racconta molti attentati che subì in questi anni. Ne riporto uno dei tanti.
Una sera era in mezzo al cortile, circondato da tutti i giovani, quando si levò un grido:
- Un assassino! Un assassino!
Un giovanottone in maniche di camicia, di cognome Andreis, tenendo levato in aria un truce coltello da macellaio, si stava avventando contro il gruppo dei giovani, e gridava come un pazzo:
- Voglio don Bosco! Voglio don Bosco!
Tutti si misero a fuggire urlando. Nel parapiglia il killer vide il chierico Reviglio, che portava la veste nera come don Bosco, lo scambiò per lui e si mise ad inseguirlo. Quello fuggì con strilli altissimi. Accortosi dell'errore, il delinquente si fermò un attimo per vedere dov'era la sua vittima. Quell'istante di indecisione salvò don Bosco. Egli corse su per la scala della casa Pinardi, chiuse a chiave il cancello di ferro che faceva da porta e si trovò in salvo.
L'assassino giunse di corsa al cancello, lo scosse con le sue grosse mani, e si mise a percuotere le sbarre robuste con il manico del coltello urlando come un pazzo. Rimase li più di un'ora, finché vide spuntare due carabinieri chiamati dai giovani.
«Sembra incredibile - scrive don Bosco - eppure il giorno dopo, alla stessa ora, quel delinquente mi aspettava di nuovo, a poca distanza dalla mia casa.
Un mio amico (il commendator Giuseppe Dupre), vedendo che le autorità non volevano difendermi, cercò di parlare a quel disgraziato. Rispose:
- Io sono pagato. Datemi ciò che mi dànno quelli che mi mandano, e lascerò in pace don Bosco.
Gli furono pagate 80 lire di fitto scaduto e altre 80 di fitto anticipato, e quella triste commedia finì» (Memorie, 21 3s).
In lire di oggi all'Andreis furono versate circa 650 mila lire.
43. Salvare i piccoli lavoratori
Una montagna di ingiustizie
Ogni anno bussa alla porta di don Bosco un gruppo sempre più numeroso di piccoli lavoratori. Sono dieci nel 1853, saranno centoventidue nel 1866. Sono schiacciati da una montagna di ingiustizie. Fino al 1844 i rapporti tra apprendisti, garzoni di bottega e padroni, erano regolati in Piemonte da norme precise che di- fendevano il giovane e obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo.
Un editto reale del 1844 (strappato al re dai «liberali» in nome del progresso) ha abolito queste norme. Da quel momento i garzoni e i giovani operai sono rimasti soli e indifesi nelle mani del padrone. A otto-nove anni vengono gettati in un lavoro estenuante di 12-15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti, negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine.
Camillo Cavour, che pure è per la libertà assoluta dell'industria e del commercio, ha dichiarato nel 1850 in Parlamento: «Forse troppo poco ci curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifici, le donne e i fanciulli lavorano quasi un terzo di più, se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra ».
Don Bosco (come don Cocchi, don Murialdo) difende fino al limite del possibile i ragazzi lavoratori. Esige dai padroni regolari contratti di lavoro su carta bollata. In essi riprende le vecchie norme abolite nel 1844. In nome dei «liberi contratti fra gente libera» (come dicono i liberali) esige che quelle norme vengano osservate, adattate, perfezionate secondo le nuove condizioni di lavoro. In quei contratti (conservati negli archivi salesiani) è scritto che i piccoli lavoratori non devono essere usati come servitori e sguatteri, che deve venir loro insegnato sul serio il lavoro. È’ vietato che vengano picchiati, si chiedono garanzie per la loro salute, il riposo festivo, le ferie annuali, il tempo necessario per imparare a leggere e a scrivere. Nei primi tre anni i piccoli lavoratori non vengono pagati con la scusa che «imparano soltanto». A volte sono i parenti a pagare il padrone perché li tenga! Don Bosco reagisce a questa forma di sfruttamento: nel secondo e nel terzo anno i giovani lavorano veramente e procurano veri guadagni al padrone. Per il secondo e terzo anno esige quindi uno stipendio progressivo. Il primo contratto firmato da don Bosco con il vetraio Carlo Aimino, a favore del giovane Giuseppe Bordone, porta la data del novembre 1851.
Un deschetto e quattro ragazzi
Ma don Bosco non è ancora soddisfatto. Nelle officine e nelle botteghe i piccoli lavoratori sono fianco a fianco con adulti a volte disonesti, che parlano e agiscono male, che li invitano a bere «per tirarsi su e stare allegri». Finiscono così per rovinarsi nel corpo e nell'anima.
Un ragazzo che a quel tempo ha 14 anni, Pietro Enna, ricorderà quella situazione con una prosa candida e sgrammaticata: «Alla sera d. Bosco ci tratteneva sempre qualche minuto prima di andare a letto ci racomandava di stare in guardia dai cattivi compagni e dai perversi discorsi... a noi artigiani che eravamo più in pericolo ci diceva non ascoltate mai quelli che fanno cattivi discorsi quando siete nella bottega che parlano male se potete usite... Mi ricordo io stesso quante volte o dovuto fuggire dal laboratorio per non sentire dei discorsi oseni io aveva solo 14 anni e garzoni erano già uomini fatti due poi erano veramente perfidi non avevano nessun pudure nel parlar male della religione e costumi erano poi due bestie» (ST 3,503s). Nell'autunno del 1853 don Bosco (che ha le tasche vuote come sempre) compie un atto di audacia: fa costruire un nuovo edificio accanto alla casa Pinardi e dà inizio ai laboratori interni. Comincia con i calzolai e i sarti, perché quei mestieri sa insegnarli lui, senza bisogno di pagare istruttori esterni. Ma è deciso a non fer-
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marsi lì.
Il laboratorio dei calzolai lo colloca in un locale stretto, vicino alla chiesa di S. Francesco di Sales. Si siede davanti aJ deschetto, e sotto gli occhi di quattro stupiti ragazzini batte una suola a regola d'arte, maneggia la lesina attorno a una tomaia. Poi domanda se hanno capito come si fa. Al si incerto dei ragazzini, capisce che hanno capito poco, e ricomincia da capo, con pazienza.
I sarti sono collocati nella stanza della cucina, mentre pentole e fornelli sono trasferiti nell'edificio nuovo. Il maestro è ancora lui, don Bosco, che Giovanni Roberto a Castelnuovo aveva invitato a «piantarla con i libri», visto che il sarto lo sapeva fare sul serio.
Dalla parte dei più poveri
Nel 1854 apre il terzo laboratorio, la legatoria dei libri.
Nel 1856 il quarto, la falegnameria.
Il quinto è il più desiderato, la tipografia. A quei tempi ci vogliono chili di documenti e sfilze di garanzie per ottenerlo. La licenza arriva firmata dal prefetto Pasolini il 31 dicembre 1862. Il laboratorio comincia a funzionare con due macchine a ruota e un torchio azionato a mano.
Il sesto inizia l'anno dopo: è l'officina dei fabbri ferrai, antenata dei laboratori di meccanica.
I ragazzi, ora, non escono più a lavorare in città. Lavorano in casa, sotto la guida amorevole di don Bosco e dei suoi aiutanti. L'Oratorio comincia a straripare di ragazzi che giungono da ogni parte: vogliono imparare un mestiere sotto la guida di don Bosco, non più andarsi a seppellire nelle officine della città. Arriveranno al numero di 300. Ma don Bosco seleziona i ragazzi: sceglie i più poveri, i più miseri, quelli che hanno assoluto bisogno di una mano per non fare naufragio nella vita. Nel regolamento di accettazione scrive: «Il giovane artigiano che viene accettato deve essere orfano di padre e di madre e totalmente povero e abbandonato. Se ha fratelli e zii che possono assumerne l'educazione, è fuori dello scopo di questa casa» (MB 4,736).
44. Colera!
Il terrore dell'« acquetta»
L'estate del 1854 portò una notizia paurosa: il colera. L'epidemia che ogni pochi anni desolava paesi e città investi dapprima la Liguria, facendo 3000 vittime. Il 30-31 luglio si ebbero i primi casi a Torino.
Il batterio responsabile della malattia epidemica, il vibrio cholera, sarebbe stato scoperto da Robert Koch solo nel 1884. In mancanza di notizie scientifiche, come sempre accade, si diffusero in città le solite voci alimentate dall'ignoranza e dalla paura. Scrive Bonetti che fu testimone di quei giorni: «Il basso popolo... s'in- caponiva nell'idea, che i medici somministrassero ai malati una bibita avvelenata, cui a Torino davasi il nome d'acquetta, e ciò allo scopo di farli più presto morire e per tal modo scongiurare più facilmente il pericolo per sé e per gli altri». La paura provocava «il chiudersi delle botteghe, il fuggire che tosto moltissimi facevano dal luogo invaso». (Un esempio non certo di nobile coraggio fu dato dalla famiglia reale, che fuggi in carrozze chiuse dalla città, e riparò nel castello di Caselette). «In certi luoghi, appena uno era assalito, i vicini e talora gli stessi parenti impaurivano..., lo abbandonavano... Fu talora persino mestieri che i becchini passassero per le finestre o rompessero le porte, per entrare nelle case ed estrarne i cadaveri» (CL 420s).
Le manifestazioni della malattia erano classiche: vomito e diarrea profusa, disidratazione, sete intensa, violenti crampi muscolari. La morte si portava via il 50 per cento dei colpiti.
La zona di Torino più colpita, com'era facile prevedere, fu la zona più inquinata e sporca: Borgo Dora, confinante con Valdocco. In un mese 800 colpiti, 500 morti. Nelle case vicine all'Oratorio, ricorda Bonetti, «alcune famiglie scomparvero in brevissimo tempo» (CL 422).
Quattordici più trenta
Don Bosco prese le misure del caso. «Si anticiparono gli esami - ricorda Francesia - e prima che finisse luglio (cioè con un mese di anticipo) tutte le scuole furono chiuse» (VBP 183). I ragazzi che vollero, poterono partire per le loro case. Furono ripulite camere, locali, si diradarono i letti nei dormitori, migliorò il vitto.
All'igiene rudimentale del tempo, don Bosco aggiunse la sua fede: «Una sera, udendo come tutti parlavano del male, che faceva strage in Torino e qui d'attorno a noi, ci esortò a sperare nella Madonna, in questa maniera: "Se voi, o miei cari, mi promettete di non commettere volontariamente alcun peccato, credo di po- tervi assicurare, che nessuno di voi sarà colpito dal colera"» (VBP 184).
Due lazzaretti furono improvvisati in Borgo S. Donato, a ovest di Valdocco. Ma pochi erano i coraggiosi che si prestavano a curare i malati. Allora don Bosco, dopo essersi impegnato insieme ad altri sacerdoti per molti giorni, si rivolse ai suoi giovani. Disse loro che il Sindaco faceva appello ai migliori della città perché si trasformassero in infermieri e assistenti dei colerosi. Se qualcuno voleva unirsi a lui in quell'opera di misericordia, lo ringraziava a nome di Dio. «Quattordici gli si presentarono bentosto, pronti a compiere i suoi desideri... e pochi giorni dopo altri trenta ne seguirono l'esempio» (MB 5,87).
Furono giornate di caldo torrido, fatica, puzza nauseabonda, pericoli.
Francesia ricorda: «Quante volte io stesso giovanetto e piccolo chierico, dovevo animare i vecchi a recarsi al lazzaretto -. Ma mi uccideranno! - Cosa dite mai? Anzi vi troverete meglio. E poi ci sarò io -. Sì? Ebbene portatemi dove volete». E aggiunge con una punta di ironia pesante: «I così detti liberali si ritirarono, e rimasero i sacerdoti...».
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Una madre e venti orfani
Ma di ironia non ebbe tempo di farne molta, in quei giorni, il povero Batistin. Il colera, infatti, colpì con violenza anche sua madre. Avvisato, lasciò tutto e corse a casa. La trovò gravissima. Tornò in fretta all'Oratorio, e supplicò don Bosco che venisse a confessarla e benedirla. Abitava davanti alla chiesa della Consolata. Don Bosco, passando davanti alla colonna dell'Immacolata posta sulla piazza, l'additò a Batistin e gli disse: «Essa guarirà senz'altro tua mamma se le prometti di consacrare la tua vita, quando sarai prete, a farla conoscere e a farla amare». Francesia accettò il patto. Salirono nella stanza dell'ammalata. Don Bosco la confessò e la confortò. Poi venne il medico, e come unica cura cavò sangue cinque o sei volte dalle vene di quella povera donna. «Nonostante la cura», la mamma di Batistin guarì e visse ancora per 21 anni.
Quando, con le piogge d'autunno, il colera finì, si poterono contare i morti: in Torino 1248, in Italia 320 mila. Nella capitale del Piemonte «i soci della S. Vincenzo si aggirarono per le catapecchie a raccogliere sull'erba secca e sui pagliericci sporchi bambini che il morbo aveva lasciato orfani e senza parenti prossimi» (ST 3,163). La fine dell'emergenza fu dichiarata il 21 novembre.
Tra i 44 volontari dell'Oratorio, nessuno fu toccato dal colera. Un risultato ai limiti del prodigioso. Ma don Bosco non si fermò a contemplare le benemerenze. Un nuovo dramma colpiva la città: gli orfani. Ce n'era un centinaio, ammassati nel «deposito» di San Domenico. Con un atto di fede e di amore più grande delle sue possibilità andò a prelevarne 20, e li portò all'Oratorio.
45. La storia povera di Pietro Enria
Ventiquattro paginette sgrammaticate
Dei tristi giorni del colera abbiamo una testimonianza toccante. Pietro Enna, uno dei ragazzetti orfani che don Bosco incontrò con il fratellino nel «deposito», e che prese con sé insieme ad altri diciotto, ha lasciato 24 paginette sgrammaticate e bellissime, piene di errori e di dolcezza. Ne riporto alcune parti rispettando gli errori, ma aggiungendo la punteggiatura, senza la quale il testo è quasi incomprensibile. Credo sia una delle più alte testimonianze sulla vita e sull'amore del prete di Valdocco per i figli poverissimi del popolo.
pagina 1
Enna Pietro Giuseppe, nato il 20 giugno 1841 nella parochia di S. Benigno Canavese, figlio di antonio e della fu cappirone pasqualina ambidue nativi di montanaro... Alletà di 7 anni ricevutti il sacramento della cresima... Pochi mesi dopo la detta festa moriva la mia povera madre. Il giorno della asenzione di nostro signore mio padre resto vedovo con tre figli. Io che era il primo aveva appena 7 anni. il padre pasò a seconde noze con un virtuosa donna che ci trattò da vera madre.
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Nel 1852 mio padre volle trasferirsi in Torino dove ava gia i suoi fratelli. A preso in afitto una casa nella fabrica di teralie detta la rivor sulla strada che conduce alla badia distura...
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(...) Nel 1854 infierì il colera morbus in tutta italia, ma in modo particolare in quella regione, perche esendo quasi sulla riva della stura l'aria era malsana. Perciò il colera a fatto molte vittime, e la nostra famiglia fu colpita terribilmente. Morì il fratello magiore di mio padre. Pochi giorni in apresso fu colpito la mia matrigna. io aveva appena compiti i 12 anni. Dovetti asistere mio padre perché la matrigna in poco tempo morì. Non posso descrivere i dolori provati.
pagina 4
A quel epoca mio padre in letto noi eravamo 5 figli. E vero che veniva la nostra nonna ad aiutarci, ma anchessa poveretta era vechia e malaticcia. Che fare? Ci siamo racomandati di cuore al signore e alla sua SSa madre. Eravamo anche in procinto di cadere nella estrema miseria...
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Venne due... signori che non ricordo più il nome, ma erano mandati da un comitato di signori che avevano aperto un orfanotrofio provisorio in Torino per racogliere i figli dei colpiti del colera. Questi due signori parlarono con mio padre dicendogli se era contento avrebbero fatto ritirare tutti i suoi figli. Il padre chiamò a me se ero contento. Io gli risposi subito di si dicendo sia ringraziato il signore e la SSa vergine. Fu concerto il modo e pochi giorni dopo siamo stati condotti tutti 5 in quel ospizio che era situato nel convento dei domenicani in Torino.
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Era se non sbaglio verso la fine del mese di agusto. Appena fumo la condotti ci trattarono con molta carità e amorevolezza. Eravamo più di 100 tra ragazzi e fanciulle senza contare i bambini latanti per cui vi era le balie apositamente per la cura di questi poveri bimbi... Noi stavamo molto bene ben asistiti e ben nutriti, ma quella cosa non doveva durare a lungo. Si diceva fra i ragazi che era più di tempo che erano entrati: un diceva ora ci
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manderano o al cottolengo o da d. cochis o da d. Bosco. Uno disse a me dove ti piace di più. Io non conosceva ne Torino ne D. Bosco ne il cottolengo non conoseva nessuno...
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D. Bosco nel 1854 quando inferiva il colera accettò più di 50 giovani (in realtà furono 20) nella sua casa, tutti orfani chi di padre e chi di madre: faceva di più andava lui stesso ad asistere i colerosi e mandò anche tanti dei suoi giovani più adulti e nella sua casa nessuno ebbe il male. Nei primi giorni della novena della natività di maria (natività = 8 settembre) d. Bosco venne a fare una visita a figli dei colpiti del fatale morbo nel orfanotrofio provisorio che era nel convento dei domenicani. Eravamo la racolti di piu di 100 ragazzi di ambo i sessi. Io Enna pietro giuseppe posso atestarlo perche sono ancora uno di quei fortunati che fu aiutato da d. Bosco; era già da parecchi giorni che mi trovava con i miei quatro fratelli in quel ospizio provisorio aspettando la trista notizia della salute del nostro padre opure la morte
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del nostro padre, quando la providenza venne in nostro socorso. Mentre tutti i ragazzi erano radunati e messi in fila da un asistente, vediamo venire un prete accompagnato dal direttore del orfanotrofio. Quel prete era soridente, aveva un'aria di bontà che si faceva amare senza parlarle insieme. Pasando vicino ai ragazzi a tutti faceva un sorriso e poi le domandava con paterno amore il nome cognome e patria e se sapevano le orazioni e catechismo e se erano già promossi alla comunione e se si erano confesati. Tutti rispondevano con confidenza e dicevano come si trovavano, passò finalmente vicino a me. Io mi sentii battere fortemente il cuore non per timore ma per un afetto e amore che sentiva dentro di me stesso. Sentiva che avrei sempre amato quel sant
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uomo. Mi domandò il nome e cognome patria. Io gli risposi con grande afetto mi chiamo Enna pietro Giu. Mi disse voi venire con me saremo sempre buoni amici finche saremo in paradiso sei contento? ho si signore risposi sono contentissimo. E questi che ai vicino e tuo fratello? si signore. Bene, verrà anche lui. Ci baciai la mano con confidenza e amore di figlio. Ci salutò con amore
di padre e passò a altri e a tutti faceva una carezza un saluto pieno di bontà. Io lo accompagnava con lo sguardo e sentiva nel mio cuore un non so che e diceva come e buono quel prete come si fa amare prima acora di conoserlo. io però non poteva capire chi fosse quel prete perche nesuno ci aveva detto il suo nome.
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Però qualche giorno dopo la detta visita fummo condotti al oratorio di 5. francesco di sales era il 6 7bre settembre 1854, giorno fortunato per me. (...) Parlando io qualche tempo dopo che era acettato in casa con alcuni dei compagni che stavano disco-rendo di una grande malatia che fece d. Bosco nel 1848 (in realtà nel 1846). Difatti andò in pericolo di vita e fu salvo per le preghiere dei suoi giovani che otennero da dio la sospirata guari
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gione, io mi sentii il cuore gonfio di lacrime. (...) Nel entrare nel oratorio siamo stati ben acolti d. Bosco e dalla sua amorosa madre (...)
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D. Bosco mi disse ricordati Enna che siamo sempre amici ma per essere tale bisogna che sii sempre buono e virtuoso. La sua madre poi ci voleva un grande bene come nostra vera madre, essa poi ci riguardava come suoi veri figli.. D. Bosco era per tutti noi un vero padre a lui intorno noi eravamo felici... Alle volte parlando confidenzialmente ci racontava dei sogni che faceva alla notte. Non erano
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sogni quelli; erano vere visioni si vedeva che il signore premiava la virtu di d. Bosco con farle vedere l'avenire della sua congragazione pel bene di tanti poveri giovani...
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Mi ricordo che d. Bosco stesso mi colocò presso un buon padrone fabro ferraio di cui mi trovai molto contento. Stetti circa 3 anni poi dovetti smettere per motivi di salute...
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Intanto d. Bosco continuava a lavorare per noi. Al mattino era sempre il primo a trovarsi in chiesa, e si che nel 1854 era un inverno rigidissimo, la chiesa era talmente fredda che alle volte mentre diceva messa ... aveva le mani così gelate da non poter più tenere il calice tra le mani. Pure d. bosco non si lagnò mai, era sempre allegro e contento, pensava piu per noi che per se stesso, quante fatiche doveva sostenere per noi e quante umigliazioni perche il piu delle volte andando a sonare il campanello alle case dei ricchi per ottenere un susidio pei suoi giovani veniva respinto con parole umiglia
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-nti e ingiuriose. Pure lui non si sgomentò per queste umigliazioni... D. Bosco continuava ad acettare nuovi giovani nel oratorio. Mi ricordo che sua madre alle volte gli gridava, ma tu acetti tanti
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giovani dove li metti a dormire che non vi è posto? e poi non abiamo letti da metterli a dormire, stanno senza coperta, e poi come si fa a mantenerli e vestirli che non abiamo nulla? (difatti tocco a me e mio fratello dormire per un bel tratto di tempo in una camera che serviva di maga(zz)ino di foglie abiamo dormito per terra sopra un poco di quelle foglie con una sola coperta per tutte e due e nulla altro. Eppure eravamo contenti come se si fosse dormito sul piu sofice letto. Poco per volta tutto si provide letti vesti-ti camere comode... Intanto alla sera quando tutti i giovani erano a dormire, d. Bosco e la sua virtuosa madre andavano
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nelle camere, prendevano i vestiti di quelli che lungo la giornata li avevano rotti, si ritiravano in camera e lavoravano finche li avevano tutti agistati e rimessi nel proprio letto. (...) (Enna, autogr., cit. in ST 3,494s).
Nelle paginette seguenti, Pietro Enna racconta come lavorò in un laboratorio e dovette più volte fuggire per i discorsi «bestiali» che sentiva attorno a sé (come ho riferito nel capitolo 43). E afferma che questo fu il motivo che spinse don Bosco ad impiantare laboratori interni all'Oratorio.
Il ringraziamento della città
Il quotidiano «L'Armonia», nel numero del 16 settembre 1854, scriveva: «Don Bosco poté presentare alla commissione sanitaria una nota di 14 dei suoi giovani, i quali volontariamente si offrirono a rendere ogni sorta di servizio ai colerosi tanto nei lazzaretti, quanto nelle case private (...)ve ne ha ancora una trentina degli allievi del buon sacerdote parimenti istruiti ad aiutare l'anima e il corpo, pronti a correre in aiuto dei loro compagni» (ST 3,263).
Lo scrittore Nicolò Tommaseo, che abitava in quegli anni in via Dora Grossa (ora via Garibaldi) 22, gli scrisse il 3 ottobre: «So della generosa carità esercitata da lei e dai suoi nella malattia che minacciava specialmente i poveri della città... Le debbo ringraziamenti vivissimi come Cristiano» (MB 5,118).
Anche il Sindaco ringraziò in data 7 dicembre per l'assistenza prestata ai colerosi e per l'ospitalità concessa agli orfani (CL 444).
46. Il ragazzo dei giganti
«E andrai lontano, lontano, lontano...»
Durante i convulsi giorni del colera, don Bosco ebbe una di quelle esperienze che ci lasciano pensosi. Giovanni Cagliero, diventato cardinale, nel 1916 parlò ai sacerdoti di Roma. E raccontò:
«Infieriva il colera a Torino nel 1854 ed io mi trovavo ammalato nell'infermeria dell'Oratorio. Avevo allora 16 anni e i medici giuravano che mi trovavo in fin di vita. Nella casa si diceva che io ero così ridotto, perché avevo commesso l'imprudenza di accompagnare don Bosco nella visita al lazzaretto. Don Bosco fu sollecitato dai medici a visitarmi e ad amministrarmi gli ultimi sacramenti. Venne al mio letto, e lo ricordo come se lo vedessi qui:
- Che è meglio per te - mi chiese -, guarire o andare in Paradiso?
- È’ meglio andare in Paradiso - gli risposi.
- Sta bene - aggiunse - ma questa volta la Madonna ti vuole salvo; tu guarirai, vestirai l'abito clericale, sarai sacerdote e prenderai il tuo Breviario e andrai lontano, lontano, lontano...
Agli occhi del Padre si apriva allora una stupenda visione. Avvicinandosi al mio lettuccio - doveva raccontarmelo solo trentacinque anni più tardi - egli l'aveva visto circondato da selvaggi di alta corporatura e fiero aspetto, dalla carnagione cuprea (= color rame) e dalla folta chioma nera, stretta da un legaccio sulla fronte. Neanche sapeva allora, a che razza appartenessero quelle figure prodigiosamente intravviste e solo più tardi aveva sfogliato in segreto un manuale di geografia e aveva trovato che corrispondevano al tipo dei Patagoni e dei Fueghini. Si apriva dunque, allora, nell'animo del Padre la stupenda visione di quell'immensa regione che egli profetò ricca di minerali e di industrie, di fabbriche e di ferrovie, benedetta dal dono della fede cristiana per le fatiche e il sangue della sua famiglia spirituale.
Certo io guarii in quel momento; la febbre passò per incanto e neanche ricevetti i Sacramenti, perché mi parve meglio, giacché dovevo guarire subito, di farlo quando fossi levato. Devo però aggiungere che gli accennati particolari don Bosco li manifestò soltanto dopo che io avevo iniziato l'evangelizzazione della Patagonia e ne ero già Vicario apostolico; poiché egli, precisamente per timore di essere guidato dalla sua impressione particolare, non volle mai prendere iniziative sue circa la mia persona e i miei uffici, ma lasciò disporre tutto alla divina Provvidenza, che diresse esattamente le cose come le aveva mostrate al, Padre in un baleno del futuro» (BS 1916, 138).
Studenti, bambini, artigiani
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Con l'arrivo dei 20 orfanelli del colera, la popolazione quotidiana dell'Oratorio aumentò in maniera sensibile. Gli studenti delle «superiori» partivano al mattino presto per le scuole dei professori Bonzanino e Picco.
Gli alunni delle elementari erano radunati in aula dal maestro Rossi. I più piccoli erano affidati al maestro Miglietti, buono come il pane. «Lungo il giorno - scrive Lemoyne - presso la sala della portineria, Miglietti faceva loro scuola unitamente ad altri fanciulli che andava cogliendo qua e là nei dintorni. Alla sera poi accorreva a lui un gran numero di giovani popolani, per imparare a leggere, scrivere e fare i conti» (MB 7,54). Gli artigiani che nel 1854-55 toccavano i settanta, erano affidati a don Alasonatti, un bravo e serio sacerdote che era appena venuto da Avigliana a dare una mano a don Bosco. «In quel principio - scrive Francesia - molti andavano ancora a lavorar fuori. Egli perciò li assisteva, perché dicessero le orazioni, avessero la santa Messa, e poi potessero andare alle loro fabbriche... Nell'estate bisognava levarsi alle quattro, perché alle cinque molti dovevano già essere in bottega. D. Alasonatti li assisteva nelle camerate, li faceva levare... non li perdeva mai di vista. Questo suo alzarsi per tempo lo obbligava a una vita stentata tutto il giorno. Sovente noi lo sorprendevamo addormentato sul suo tavolino con la penna in mano. Lo si chiamava e, destatosi, continuava tranquillamente l'opera sua. Aveva il letto nella stessa camera d'ufficio, ché allora si era allo stretto, e non abbiamo mai veduto quel letto una volta disfatto».
«Tutto a carico della casa»
L'anno 1855 fu di miseria per il Piemonte. La guerra di Crimea e la spedizione di 5 mila soldati contro la Russia - ricorda Bonetti -, la crittogama che intisichì i migliori vigneti del Monferrato e delle Langhe, la ricomparsa del colera in Sardegna portarono strettezze per tutti. L'Oratorio non fece eccezione, «ebbe a trovarsi in gravi bisogni e in dolorose necessità» (CL 471). Per mantenere i suoi 49 studenti e 70 artigiani don Bosco dovette elemosinare tra amici e conoscenti, fino all'umiliazione sua e all'esasperazione di qualche amico, nelle strettezze pure lui.
Da alcuni fogli su cui don Bosco prese rapidi appunti su entrate e uscite di quest'anno, si viene a conoscere che su 70 artigiani solo 8 pagavano qualcosa, da 26 a 5 lire al mese. Gli altri erano «tutto a carico della casa». Su 49 studenti, solo 20 versavano una pensione da 35 a 8 lire al mese. Gli altri erano «a carico dell'Oratono». Fa commozione leggere i nomi dei grandi salesiani del futuro, e accanto parole di estrema povertà:
Bongiovanni. Gratuitamente. Sua zia Musso lo veste. Cagliero. Pagherà qualche poco. I parenti lo vestono. Francesia. A carico della casa. Un po' di vestito dai parenti. Rua. Sua madre gli provvede un po' di vestimenta.
Savio Domenico. I parenti lo vestono. Buzzetti. Tutto a carico della casa.
Enria. Tutto a carico della casa (ST 3,586ss).
47. Domenico Savio
«Venga con me»
Un giorno don Bosco stava lavorando in camera sua, quando un ragazzo entrò in fretta. (È lui stesso che lo racconta).
- Presto, venga con me.
- Dove vuoi condurmi?
- Faccia presto, faccia presto -. Se si fosse trattato di un ragazzo qualsiasi, don Bosco l'avrebbe creduto uno scherzo. Ma quel quattordicenne era Domenico Savio. E don Bosco lasciò il suo lavoro e lo seguì.
«Esce di casa, passa per una via, poi un'altra, ed un'altra ancora, ma non si arresta, né fa parola; prende in fine un'altra via, io lo accompagno di porta in porta finché si ferma. Sale una scala, monta al terzo piano e suona una forte scampanellata -. È qua che deve entrare - egli dice, e tosto se ne parte» (OP ED 11,246).
La porta si apre. Una donna scarmigliata vede il prete e dice con sollievo: «Venga in fretta. Mio marito ha avuto la disgrazia di farsi protestante. Adesso sta morendo e chiede per pietà un prete che gli dia l'assoluzione».
Don Bosco si avvicina al letto del malato e gli ridà la pace di Dio. Appena in tempo, perché la morte è già lì, e se lo porta via rapidamente.
Don Bosco torna a casa pensieroso. Come ha saputo Domenico di quel povero malato? «Un giorno - scrive - ho voluto chiedergli come avesse potuto sapere..., ed egli mi guardò con aria di dolore e poi si mise a piangere» (ib., 247).
Don Bosco non gli fece più domande del genere. Aveva capito che quel ragazzo parlava con Dio.
Incontro con Minot
Domenico Savio fu il secondo giovane da lui conosciuto di cui sentì il bisogno di scrivere la vita (il primo era stato Luigi Comollo). Era venuto in contatto con lui in maniera quasi casuale. Don Giuseppe Cugliero, suo amico, era insegnante a Mondonio, e si era trovato in classe quella perla di ragazzo. Di salute fragile, di intelligenza buona, di bontà eccezionale. Incontrando don Bosco durante l'anno del colera, gliene parlò:
- Si chiama Domenico, ma noi lo chiamiamo tutti Minòt. La famiglia è poverissima, il padre fa mille mestieri per
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tirare avanti. Ma Minòt è un vero san Luigi. Qui all'Oratorio puoi avere ragazzi uguali, ma difficilmente ne hai qualcuno che lo possa superare.
Rimasero intesi che don Bosco avrebbe incontrato il padre e Minòt ai Becchi, quando sarebbe andato lassù per la festa della Madonna del Rosario. (Durante il colera era pericoloso far scendere qualcuno in città).
Il primo incontro, don Bosco lo descrive nel capo 7° della sua breve biografia. Riporto l'essenziale:
«Era il primo lunedì d'ottobre (2 ottobre 1854) di buon mattino, allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicina. L'aria ridente ma rispettosa, trasse verso di lui i miei sguardi.
- Chi sei - gli dissi -, donde vieni?
- Io sono Savio Domenico, di cui le ha parlato don Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio.
Allora lo chiamai in disparte... Conobbi in quel giovane (12 anni) un animo tutto del Signore e rimasi non poco stupito. Prima che chiamassi il padre mi disse:
- Mi condurrà a Torino per studiare?
- Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.
- A che può servire questa stoffa?
- A fare un bell'abito da regalare al Signore.
- Dunque io sono la stoffa: lei ne sia il sarto; dunque mi prenda con sé e farà un bell'abito pel Signore.
- Io temo che la tua gracilità non regga allo studio. (Don Cugliero doveva avergli detto che due fratellini di Domenico erano morti pochi giorni dopo la nascita, e che altri tre nati, Raimonda di 7 anni, Maria di 5 e Giovanni di 2 non erano fiori di salute).
- Non tema per questo. Il Signore mi aiuterà.
- Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino che cosa vorrai diventare?
- Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente abbracciare lo stato ecclesiastico (=diventare prete).
- Bene, ora voglio provare se hai sufficiente capacità per lo studio; prendi questo libretto, oggi studia questa pagina, domani tornerai per recitarmela.
Mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: "Se vuole, recito adesso la mia pagina". Non solo aveva letteralmente studiato la pagina, ma comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.
- Bravo - gli dissi -; tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Ti condurrò a Torino. Comincia fin d'ora a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà» (OP ED 11,184 ss).
Ciò che Domenico portò all'Oratorio
Domenico entrò nell'Oratorio il 29 ottobre 1854. Don Bosco aveva 39 anni, era nel pieno delle sue forze e stava dando forma al suo massimo progetto: la Congregazione Salesiana. Domenico si trovò con Buzzetti, Rua, Cagliero, Francesia, un anno più tardi con Bonetti e Cerruti: i giovani che don Bosco preparava senza rumore ad essere le pietre fondamentali del futuro edificio.
I ragazzi interni erano più di un centinaio. I laboratori erano tre: calzolai, sarti, legatori. Alla domenica (e anche nei pomeriggi dei giorni feriali) i prati dell'Oratorio erano invasi da centinaia di ragazzi di ogni genere: venivano a giocare, a imparare qualcosa, a stare con don Bosco, pronti magari a scappare quando era l'ora di andare in chiesa. Tra questi ragazzi, sovente sporchi e maleducati, Domenico fu più che un amico: «Si prestava volentieri a fare il catechismo ai più piccoli nella chiesa dell'Oratorio», ricorda Bonetti sottolineando che fu «mio condiscepolo» (CL 445ss).
Ciò che Domenico portò all'Oratorio fu una dolce e soda devozione alla Madonna.
Già alla prima Comunione aveva elencato tra i suoi propositi:
«I miei amici saranno Gesù e Maria».
A Valdocco, nella prima festa dell'Immacolata che trascorse, ci fu entusiasmo grande. Pio IX, a Roma, dichiarava verità di fede l’Immacolata Concezione di Maria (cioè che essa era nata senza peccato originale). Domenico, nel pomeriggio di quel giorno, andò all'altare della Madonna, nella chiesa di S. Francesco, e si consacrò a Lei con queste semplici parole: «Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei; ma per pietà fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato».
La Compagnia dell'Immacolata
Nel 1856 Domenico ebbe l'idea di fondare la Compagnia dell'Immacolata. C'è una certa discussione sul come ebbe origine questa associazione giovanile, che fu la prova generale della Congregazione Salesiana e finché sopravvisse fu nelle case salesiane un serbatoio inesauribile di vocazioni.
Senza pretendere di risolvere il problema, riporto semplicemente le parole di Giovanni B. Francesia, che ne fece parte (come risulta dai verbali) fin dalle prime riunioni. Egli scrisse una breve vita di Giuseppe Bongiovanni, prete salesiano, che prima di entrare nell'Oratorio ebbe vita avventurosa e scapigliata. Aveva una fantasia fervida, manifestava doti di commediografo e di poeta dialettale. All'Oratorio, dopo le prime difficoltà, divenne amico indivisibile di Domenico Savio. Con sei anni più di lui, seppe dare realizzazione concreta alle idee entusiastiche che Domenico manifestava.
«Fu grande fortuna per lui (Giuseppe Bongiovanni) il trovarsi al fianco il virtuoso Domenico Savio, e fare con lui le prime prove di scuola ginnasiale - scrive Francesia -. Con Savio Domenico, mi pare di poter dire, che se
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questi era la mente, Bongiovanni ne era la mano... Si pensò all'apostolato dei piccoli biricchini nell'Oratorio. Veramente fu Savio Domenico che ne parlò con don Bosco, e che introdusse la Compagnia dell'Immacolata che fece tanto bene tra noi. Bongiovanni ne fu l'estensore degli articoli organici (il regolamento era composto di 21 articoli, più 7 postille di don Bosco) e ne fu il segretario nato e direi perpetuo».
Una delle attività principali della Compagnia fu quella di «curare i clienti». I ragazzi indisciplinati, dallo schiaffo e dall'insulto facile, venivano assegnati ai singoli soci perché funzionassero nei loro riguardi come «angeli custodi». In quei primi tempi caratterizzati dalla scarsità di assistenza, quei ragazzi fecero in silenzio del bene grande all'Oratorio: non permisero che il disordine e la prepotenza s'impossessassero della situazione.
L'acqua fresca dei muratori
Ma la salute di Domenico (come don Bosco aveva temuto fin dal primo momento) deteriorò rapidamente. Don Bosco lo rimandò in famiglia una prima volta nel luglio del 1856, permettendogli di tornare in agosto per gli esami scolastici.
Domenico riprese l'anno scolastico regolare nell'ottobre 1856. Ma presto comparve una febbre ostinata, e uno sfinimento di forze che gli faceva passare frequenti giornate nel lettuccio dell'infermeria. Don Bosco andava sovente a trovarlo, e un giorno gli domandò: «C'è qualcosa che ti darebbe piacere adesso?». Domenico guardava i muratori che lavoravano sul tetto di fronte e, tutto arso dalla febbre, rispose: «Mi piacerebbe bere l'acqua fresca nella mestola dei muratori». Don Bosco non si mise a ridere come davanti alla stranezza di un ragazzo. Scese, salì sul tetto a prendere il secchio dei muratori, tornò nell'infermeria e con la mestola sgocciolante diede da bere a Domenico.
Dieci volte sgorgò il sangue
Nel febbraio del 1857 la tosse cominciò a tormentare Domenico, e don Bosco decise di mandarlo nuovamente dai suoi: «A casa ti siederai vicino al focolare, accanto a tua mamma, e la tosse ti passerà. Anche questa brutta febbre se ne dovrà ben andare». Domenico lo fissò con quegli occhi grandi e scosse la testa: «Io me ne vado e non tornerò più. Don Bosco, è l'ultima volta che possiamo parlarci. Mi dica: cosa posso ancora fare per il Signore?». «Offrigli le tue sofferenze». «E cos'altro ancora?». «Offrigli anche la tua vita». Il tono di don Bosco si era fatto grave:
sapeva che quell'offerta sarebbe stata accettata.
A Mondonio, dove mamma e papà lo avvolsero nel loro affetto, il medico diagnosticò «infiammazione polmonare» (= polmonite). Ricorse al rimedio allora universale: cavar sangue dalle vene. Per dieci volte, da quel fragile corpo, la lancetta del chirurgo fece sgorgare sangue. Fu letteralmente dissanguato.
Si spense quasi all'improvviso il 9 marzo 1857, mentre parlava col papà e tentava invano di ricordare ciò che il parroco gli aveva detto poche ore prima.
Don Bosco ristampò tante volte la vita di Domenico, e ogni volta che correggeva le bozze non riusciva a frenare le lacrime. Papa Pio XII lo dichiarò santo il 12 giugno 1954. Il primo santo di 15 anni.
48. Le memorie di un novantenne
Non era il posto migliore per un prete
Giovanni Roda non si trova tra le 4800 persone ricordate, citate, raccontate nei 19 volumi delle Memorie Biografiche di don Bosco. Fu intervistato quando aveva 91 anni, ed era «dritto come un fuso, camminava spedito, gesticolava svelto, era lucido, comunicativo, simpatico». Era il 1933. In quell'anno Domenico Savio veniva dichiarato «Venerabile», e lui era stato compagno di Domenico.
Marco Bongioanni ha tradotto la storia di Giovanni Roda, narrata in piemontese schietto, in tre pagine saporose, e l'ha collocata nel suo bel libro Don Bosco tra storia e avventura (pp. 79-81).
Quelle tre pagine le riporto qui, perché sono splendide, e condensarle sarebbe un peccato.
«Mi trovavo in una delle stradette attorno a Porta Palazzo in zona Molassi. Eravamo in parecchi, c'erano garzoni, ingaggiati dai barbieri, dai cappellieri, dai cuoiai, dai sellai, dalle mercantesse, tutta gente che bisognava chiamare monsù e madama (signore e signora). Andavamo là ad aspettare lavoro perché sui 12- 13 anni eravamo maggiorenni e bisognava guadagnarsi il pane. (...)
Be' non era il posto migliore per un prete con tutto il chiasso di bancarelle, di ambulanti, di saltimbanchi e di giocatori che si faceva. Ma don Bosco conosceva un po' tutti e quando era necessario non badava troppo alle convenienze. Io l'ho incontrato là, ed è stato così che ho incontrato mio padre.
(...) Quando mi ha visto mi è venuto incontro tenendo in mano una nosàla (nocciola) e fissandomi negli occhi. Aveva quel sorriso furbo... e le tasche sempre piene di noccioline mandorle arachidi e altro. Andava a rifornirsi dai mercanti poi girava tra banchi e saltimbanchi in cerca di merlotti...
È venuto da me ed ha schiacciato la nosùla così, con due dita, poi mi ha messo in bocca il gheriglio. - Cosa fai qui?
- Eh, aspetto chi mi dà lavoro.
- Cosa sai fare?
- Un po' di tutto. So imparare. - Tuo padre e tua madre?
- Sono morti da tanto tempo.
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Erano morti di colera subito dopo la mia nascita. Io ero nato nel 1842 il 27 ottobre. Quell'anno arrivò il colera e io sono rimasto solo. Mi aveva allevato una famiglia amica, un po' parente alla lontana... Saputa la mia situazione don Bosco rimase un poco sopra pensiero masticando e masticando, poi mi agganciò come lo avevo visto fare con altri.
- Non ti piacerebbe venire da me?
- A fare?
- A stare. Imparare qualcosa, un mestiere.
- Eh già, che mi piacerebbe.
- Allora vieni, non è lontano.
Gli sono andato dietro come un cagnolino. Ricordo che faceva già abbastanza freddo, era a metà novembre 1854. Don Bosco abitava in un caseggiato, una specie di cascinale, con una chiesina bell'e nuova di fianco (la chiesa di san Francesco di Sales)».
«Poi ha chiamato Domenico»
«Arrivati al cancello, prima di attraversare un cortile, ha chiamato forte;
- Mamma, venite un po' qui. Venite a vedere chi c'è.
Ha gridato proprio così, facendo festa come quando arriva un parente o un figlio. Poi ha chiamato Domenico. In quel preciso momento io ho conosciuto mamma Margherita e Domenico Savio che aveva la mia stessa età e che era arrivato lì tre o quattro settimane prima di me.
Da quel momento l'Oratorio è diventato casa mia, e don Bosco è diventato mio padre.
La vita nell'Oratorio! Ah, quanta felicità! Impossibile dimenticarla. A me è andata molto bene, meglio che a tanti altri, e dico subito il perché.
Don Bosco aveva l'abitudine di mettere qualche buon ragazzo a fare da angelo custode a qualche altro ragazzo un po' più desbela, "vivace", e io dovevo essere proprio un desbela coi fiocchi se mi capitò la fortuna di avere Domenico a tenermi d'occhio.
Abbiamo fatto tanta amicizia che ero sempre io a cercarlo; andavo dietro a lui, giocavo con lui, studiavo con lui... E lui mi aiutava, mi dava consigli, a patto che mi comportassi come si deve, che smettessi di fare il monello come a Porta Palazzo. Eravamo come due fratelli.
Domenico era abilissimo a giocare. Giocava bene, molto bene, e sapeva vincere. Le poche volte che perdeva non se la prendeva, ci rideva sopra, era un tipo abbastanza allegro. A ciri-mela (= il gioco della lippa) sembrava un Ercole scatenato. Con quel bastone che maneggiava così bene, e con quella linguetta un po' fuori dei denti, batteva il bastoncino "caviglia" con una forza che lo mandava a finire lontano, fiii, che era una bellezza...
Era piuttosto minuto di statura. Avevamo la stessa età, pochi mesi di differenza. Nemmeno io ero un gigante, ma lui era un po' più minutino di me. Mostrava meno degli anni che aveva, ma era della mia stessa classe 1842.
All'Oratorio c'erano anche dei garzoni più grandi e grossi di noi, erano destaca-salam (spilungoni) di 18-20 anni che poi partivano anche militari. Grandi, grossi e robusti che quanto a forza ci avrebbero vinto dieci volte. Lui però sapeva tenere testa, faceva valere le sue buone ragioni, sempre educato ma sempre molto deciso. Ah, non si lasciava mica mettere il piede sul collo.
Qualcuno, si sa, era un po' sboccatino, conservava il gergo di Porta Palazzo, aveva certi modi di fare che a don Bosco piacevano poco o niente. Domenico, con belle maniere: tu ti sei dimenticato dei patti, avevi promesso questo, ti eri impegnato per quello, perché non hai detto così, era meglio se facevi cosà...
Non era mai pesante, era convincente e simpatico, aveva un ascendente su tutti.
Otteneva quello che era giusto, sempre senza discussioni. Tutti gli dovevano qualcosa di bene, quindi nessuno trovava da ridire quando metteva le sue piccole condizioni; era anche furbo, ma voleva solo il giusto. Raro che qualcuno lo trattasse in malo modo. Se succedeva, quelle poche volte, lui filava zitto zitto e se ne andava in chiesa. Dava solo un'occhiata triste, e se ne andava...».
Verso i Becchi, avanguardia della truppa
«Una volta don Bosco ci ha mandati insieme tutt'e due ai Becchi. Da soli, si capisce, lui e io da soli. Quella è stata una gran bella sgambata attraverso le colline e i campi. Ne facevamo altre di sgambate, ne facevamo molte. Non solo ai Becchi, ma in altre parti. Ci mettevamo il tempo che ci voleva, ma passando per traverso, per le scorciatoie, neanche troppo, avevamo buona gamba.
Mamma Margherita quella volta era già là, era partita prima. (Don Bosco quando portava ai Becchi i ragazzi migliori per la festa del Rosario, mandava avanti sua madre a preparare cucina e dormitorio).
Quel giorno dunque via. Abbiamo saltato, scherzato, riso come due merli. Ma non perché eravamo fuori: fuori andavamo sempre a volontà, non eravamo mica in collegio. Don Bosco era una famiglia, teneva sempre le porte aperte. Si andava in città dove si voleva. Glielo dicevamo, si capisce, ma quando faceva bisogno andavamo fuori come chiunque. Andavamo a scuola, andavamo a comprare, andavamo per commissioni... Andavamo perfino a vedere i saltimbanchi a Porta Palazzo, eravamo della masnà (bambini).
Be', quella volta con Domenico è stata una festa. Aveva quel modo gentile di fare, di parlare, di segnarsi e dire una preghiera insieme davanti ai piloni, alle chiese. Poi infilava subito la strada e via di corsa. Prendimi se riesci...
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Siamo arrivati ai Becchi tutti sudati, rossi come d'pito (tacchini). E mamma Margherita a farci lavare la faccia nel catino. Poi è andata nella stalla, ha preso una scodella di legno, ha munto la vacca, ci ha fatto bere quel latte appena munto. Buono, ma buono... Un po' di pane e burro con un pizzichino di zucchero... Ah, è stata una festa quella volta.
Il giorno dopo è arrivato don Bosco con il grosso della truppa. Noi eravamo solo l'avanguardia...».
49. Un quaderno per piangere
Alle 5 del pomeriggio
«Se dovessi indicare il più bravo tra Domenico Savio e Francesco Cerruti, non saprei proprio chi scegliere. Sono due angeli». Don Bosco disse queste parole moltissime volte, attesta Giovanni Francesia. E aggiungeva: «Se Francesco dovesse morire prima di me, e potessi scrivere le cose bellissime che so di lui, ne verrebbe fuori una vita da mettersi in mano a tutti i giovani».
Francesco entrò nella casa di don Bosco a undici anni. Ricordava lui stesso quei giorni: «Quando l'11 novembre 1856 entrai nell'Oratorio come studente, mi trovai tra 169 interni. Dal mio piccolo paese di Saluggia passavo alla capitale dell'antico Regno di Sardegna; dalle cure di una madre tenerissima che guidò per 30 anni i miei passi nel cammino della vita e ora mi sorregge dal Paradiso, la Divina Provvidenza mi conduceva tra le braccia di un secondo padre, don Bosco. Il primo, mio papà, lo perdetti prima di compiere 3 anni.
Mi trovai, nei primi giorni, come smarrito. Pur stando volentieri all'Oratorio, i miei pensieri e il mio cuore erano sempre con mia mamma, e ciò soprattutto alla sera, quando cominciava a imbrunire. Perciò alle 5 del pomeriggio, arrivato nella sala di studio coi miei compagni, per prima cosa parlavo un pochino con mia mamma dicendole tante cose per iscritto, sullo stesso quaderno dei compiti. Versavo in lei, come se fosse presente, tutto quanto il mio cuore. Poi, asciugatemi le lacrime, mi mettevo al lavoro sullo stesso quaderno, che serviva perciò agli sfoghi del cuore e ai compiti. E questa musica... durò parecchio.
Mi fece grande impressione la vista di don Bosco. Mi pareva di trovare in lui qualcosa di più che negli altri preti. La persuasione mia fu quella di moltissimi miei compagni, cioè che don Bosco fosse una persona straordinaria e santa (...). Ammiravo la sua umiltà nello scegliere come oggetto speciale delle sue cure, fra i fanciulli dell'Oratorio festivo, quelli più poveri, cenciosi, senza educazione civile, spesso luridi e pieni d'insetti. La prima e più forte impressione la ricevetti quando andai a confessarmi, e lo vidi circondato da una quantità di questi ragazzi, uno dei quali puzzava orribilmente. E pareva che egli godesse a trovarsi in mezzo a loro.
Lo vidi tener da solo intorno a sé nei giorni festivi, e talora anche nei giorni feriali, centinaia di fanciulli, discoli e indisciplinati, facendoli poco per volta buoni e ferventi cristiani. Egli si compiaceva di chiamarsi capo dei birichini di Torino. Li attirava all'Oratorio coi bei modi, dovunque si trovasse. E con le scuole serali, i divertimenti, la musica, i teatrini, il regalo di dolci, i giochi di prestigio e di destrezza che egli medesimo faceva, li guidava all'amicizia con il Signore, alla confessione e alla Comunione. Alle confessioni si prestava sempre. Non si mostrava mai stanco o annoiato».
«Io mi chiamo Savio Domenico»
«Un giorno, durante la ricreazione, mentre me ne stavo tutto timido e pensoso, appoggiato a una delle colonne del porticato, mi si avvicina un compagno dal fare modesto, dalla fronte serena, dallo sguardo dolce. - Chi sei? - mi dice - come ti chiami?
- Mi chiamo Cerruti Francesco.
- Che scuola fai?
- Seconda grammatica (corrispondeva più o meno alla nostra seconda media).
- Oh, bene - ripigliò -, dunque sai il latino. Sai da che cosa deriva Sonnambulo?
- Da somno ambulare. Ma tu chi sei che mi parli? - chiesi io guardandolo fisso in volto.
- Io mi chiamo Savio Domenico.
- Che scuola fai?
- Umanità (quarta ginnasiale) -. E senza attendere altre domande: - Saremo amici, non è vero? - mi disse.
- Volentieri - risposi io.
Ciò fatto, ci separammo, ma la sua fisionomia, l'atteggiamento suo, il luogo stesso in cui avvenne quel colloquio fortunato, tutto mi rimase così profondamente impresso che l'ho presente come se fosse cosa di ieri. Ebbi in seguito occasione frequente di avvicinarlo, di parlargli, di trattenermi con lui anche in circostanze inti- me della vita, durante quei tre mesi e mezzo che trascorsero da quel primo colloquio alla sua partenza del 1° marzo 1857.
Mi pare ancora di vederlo, una sera del gennaio 1857, raccogliere durante la cena i frustoli di cacio (e che cacio!) e di pane, che certi compagni gettavano malamente a terra, pulirli dal sudiciume e mangiarseli tranquillamente, invece della sua porzione a cui rinunziava.
L'idea che me ne formai e che mi rimase sempre è che Savio Domenico fosse un santo giovane, un altro vero san Luigi» (BS 1917, pp. ìO2ss).
Don Bosco sbaglia pillole
Don Bosco stimò sempre moltissimo Francesco. Di lui chierico disse: «Di Francesco Cerruti, purtroppo, ne abbiamo uno solo». Ma a un certo punto sembrò che non ci tenesse proprio tanto ad averlo. Nove anni dopo
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la sua entrata all'Oratorio, appena ventenne, lo mandò come professore di quinta ginnasiale nel piccolo Seminario che don Bosco aveva aperto a Mirabello Monferrato. A metà anno, per l'eccessivo lavoro, Francesco cadde in uno stato di esaurimento. Il direttore, don Michele Rua, scongiurò don Bosco che gli togliesse quell'incarico troppo pesante. Don Bosco, stranamente, rispose solo con cinque parole: «Cerruti continui a far scuola».
Francesco Cerruti obbedì, ma ad aprile allo sfinimento si aggiunse una grave malattia polmonare. Scrive: «Alla grande stanchezza e prostrazione di forze si aggiunsero sputi sanguigni e frequenti; poi tosse persistente, catarrosa, febbre quasi continua, respirazione affannosa (...). In quel tempo don Bosco capitò a Mirabello, m'interrogò sulla malattia e mi suggerì alcune pillole che in verità mi fecero molto male. Poi, prima di partire, mi disse:
- Non è ancora la tua ora, sta' tranquillo. Hai ancora da lavorare prima di guadagnarti il Paradiso.
Il male crebbe a tal segno che il medico giudicò disperata la guarigione. Ricordo sempre che, me presente, disse:
- Non ci sono più rimedi. Il male è troppo grave e le forze troppo deboli. Perciò riposo assoluto, silenzio rigoroso, e lasciamo operare la natura».
Don Michele Rua, oltreché far pregare mattina e sera i ragazzi per Francesco, andò a Torino e ne parlò con don Bosco. Si sentì rispondere:
- Non è ancora la sua ora. Cerruti deve pensare a guarire.
«Il giorno in cui don Rua mi comunicò queste parole di don Bosco - continua Francesco - fui sorpreso da tale eccesso di tosse che, non potendo più resistere, mi gettai sul letto, e credevo di morire da un momento all'altro. Tuttavia il giorno dopo ripresi la mia scuola di quinta ginnasiale, e alla sera stavo meglio. Il giorno seguente mi sentii quasi del tutto guarito, e continuai ad insegnare fino alla fine dell'anno» (BS 1917, p. 104). E da quell'anno ne passarono ancora 52, prima che «si fosse guadagnato il Paradiso».
«Don Bosco non è stato abbastanza capito»
Francesco Cerruti divenne direttore generale delle scuole salesiane, e come programma ebbe le parole di don Bosco che sentì (e registrò) nel 1885. Settantenne, don Bosco era ormai logoro. Nella casa salesiana di Marsiglia aveva appena cenato coi suoi e con l'avvocato Michel. Il discorso girava sul paganesimo che stava penetrando a fondo nelle nuove generazioni. Francesco Cerruti a un tratto sentì che il tono della voce di don Bosco si faceva vibrante. Lo sentì pronunciare con «energia e dolore» queste precise parole:
«Ora qual è la causa principale, anzi l'unica vera causa di questo disastro? Essa sta tutta nell'educazione pagana che si dà generalmente nelle scuole. Questa educazione, formata tutta su classici pagani, imbevuta di massime e sentenze pagane, impartita con metodo pagano, non formerà mai e poi mai, ai nostri giorni in cui la scuola è tutto, dei veri cristiani. Ho combattuto tutta la vita contro questa perversa educazione, che guasta la mente e il cuore della gioventù nei suoi anni più belli; fu sempre mio ideale riformarla su basi sinceramente cristiane. (...) Questo è lo scopo a cui ho costantemente mirato. Ed ora vecchio e cadente me ne muoio con dolore, rassegnato sì, ma pur sempre con dolore, di non essere stato abbastanza compreso» (BS 1917, p. 105).
Comunicando ai Salesiani queste parole, Francesco Cerruti commentava: «Amare don Bosco vuol dire comprenderne i desideri, tradurne in pratica le intenzioni, le idee» (ivi).
50. Una giornata di libertà
La prigione dei ragazzi
Sulla strada Torino-Stupinigi c'era una casa che faceva venire la tristezza a don Bosco. Era la «prigione dei ragazzi», chiamata «Generala». Un ragazzo in prigione, per don Bosco, era un controsenso. Se aveva fatto del male non bisognava sbatterlo via, ma stringerlo talmente a sé, volergli un bene così speciale, che lui do- veva concludere: «Sono proprio stato uno sciocco».
Don Bosco andava sovente in quella prigione, era amico di tutti i ragazzi-prigionieri. Avrebbe dato la vita per tirarli fuori di lì.
Fino al 1845, a Torino, i ragazzi «delinquenti» finivano nelle prigioni comuni insieme con gli adulti. Là don Bosco li aveva trovati arrivando a Torino, ed era andato infinite volte a trovarli, a consolarli, a farsi promettere che appena usciti sarebbero andati a cercarlo per trovare insieme un onesto posto di lavoro.
Nel 1845, sulla stradale che portava a Stupinigi, fu riadattato e trasformato in «prigione dei ragazzi» un «caseggiato mal costruito, vetusto, sdruscito e di cattiva e malsana distribuzione». In due bracci dell'edificio, al secondo piano, furono disposte 300 celle destinate alla segregazione notturna dei singoli giovani detenuti. A pianterreno e nei sotterranei furono disposti laboratori capaci di contenere 30 operai ciascuno. In quei laboratori i giovani potevano imparare i mestieri di falegname-ebanista, calzolaio, sarto, tessitore, tagliatore di vetri.
C'era un refettorio comune. Al primo piano stavano 12 celle destinate all'isolamento notte e giorno dei nuovi arrivati e dei giovani ribelli. L'edificio era dominato da un osservatorio di vedetta.
C'erano anche una chiesa e aule destinate alle scuole elementari. Nelle terre attorno i giovani che sceglievano l'agricoltura potevano esercitarsi nella coltivazione dei campi e degli orti.
Dei 135 giovani prigionieri entrati nel primo anno, 55 avevano padre e madre, gli altri erano orfani o illegittimi.
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Solo 18 sapevano leggere e scrivere. Metà erano affetti da qualche malattia.
Nel 1854 superavano i 300, con un'età che andava dagli 8 ai 18 anni. In quell'anno le cause dell'imprigionamento erano le seguenti: 270 per oziosità e vagabondaggio, 133 per furti, 12 per delitti, lì messi li dal padre «per correzione».
A dirigere la «Generala» erano stati chiamati i religiosi della Società di S. Pietro in Vincoli. Ma negli anni precedenti il 1854 i religiosi erano stati licenziati, e la gestione era passata in mano a laici. Sotto la direzione laica da «istituto di rieducazione» la «Generala» si trasformava sempre più in «luogo di sorveglianza e lavoro forzato». Il motivo lo sottolineava il Biffi: «Alla "Generala" s'incontrano gli inconvenienti dell'aver guardiani i quali, più che altro, sono custodi di carcere». Non educatori, quindi, ma carcerieri. (ST 3,164-171 passim)
«Quante guardie le occorrono?»
Nella quaresima del 1855 don Bosco aveva fatto con i piccoli prigionieri tre giorni di Esercizi Spirituali, cioè di riflessione sulle cose serie della vita terrena e della vita che viene dopo quella terrena. Fu così contento dell'impegno dei ragazzi, che alla fine andò dal direttore:
- Le chiedo di lasciare uscire tutti i ragazzi, per fare una passeggiata fino a Stupinigi.
- Ma lei parla sul serio, reverendo? - fece l'omino socchiudendo gli occhi e guardando preoccupato don Bosco -. Ma lo sa che se allarga solo la porta, quelli scappano tutti?
- Non scapperà nessuno.
- Guardi - tagliò corto - con me è tempo perso. Si rivolga al Ministro.
Ministro dell'Interno era Urbano Rattazzi, un po' amico e un po' ammiratore di don Bosco, anche se solenne mangiapreti. Don Bosco chiese udienza e fu ricevuto.
- Va bene - disse Rattazzi dopo averlo ascoltato -. Una buona passeggiata fa bene a tutti. Quante guardie le occorrono?
Don Bosco quasi si arrabbiò:
- Lei mi deve dare la parola d'onore che non ce ne sarà nessuna. Non scapperanno, stia tranquillo. Se proprio uno scappa, metterà in prigione me.
Rattazzi scoppiò a ridere:
- E ci starebbe proprio bene un prete là dentro! Va bene, accetto. Non che creda alle sue parole. Ma ho cinquecento guardie. Ci metteranno dieci minuti a riacciuffare quattro monelli.
Don Bosco tornò dai ragazzi:
- Usciremo di qui! Andremo per tutta una giornata a passeggio, a visitare il castello di Stupinigi e a giocare nel Sangone. Non ci sarà nessuna guardia: mi ha dato la sua parola il Ministro. Però adesso la parola dovete darmela voi: se uno scappa, io sarò disonorato.
Discussero insieme, in cerchio. Poi uno a nome di tutti disse serio:
- Torneremo tutti. Le diamo la nostra parola.
Fu una giornata favolosa, con salti, corse, grida, spruzzi d'acqua, risate, pranzo, merenda, e Messa e Comunione (con don Bosco c'erano sempre!). Tornando, i ragazzi fecero salire don Bosco in groppa all'asino che aveva portato le provviste.
Al tramonto rientrarono. L'omino li contò preoccupato, come si contano le mucche che tornano dal pascolo: c'erano proprio tutti.
Rattazzi, quando lesse il rapporto, volle parlare ancora con don Bosco:
- Perché lei riesce a fare queste cose e noi no?
- Perché io gli voglio bene, e voi no. Perché io parlo di Dio e del Paradiso, e voi no (cf CL 489ss; MB 5,217ss).
Il sistema di don Bosco
Molte volte chiesero a don Bosco di spiegare la sua maniera di educare i ragazzi. Don Bosco si stringeva nelle spalle. Diceva:
«Gli voglio bene. Tutto qui». A una domanda esplicita del rettore del seminario francese di Montpellier, mormorò: «Il mio sistema si vuole che io esponga! Ma se neppure io lo so! Sono sempre andato avanti senza sistemi, come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano!» (MB 18,127 e 6,381). Avrebbe potuto aggiungere: «Li tiro su come mia mamma ha tirato su me».
Ma chi gli viveva vicino, nelle svariatissime situazioni di una giornata, sentiva sulle sue labbra espressioni semplici, folgoranti, che facevano capire di colpo la sua maniera di educare:
«Se noi vorremo umiliarli perché siamo superiori, ci renderemo ridicoli» (MB 14,847).
«Dolcezza in tutto, e chiesa sempre aperta» (MB 16,168).
«I giovani non solo devono essere amati, ma devono sentire di essere amati» (MB 17,111).
«Si prendono più mosche con un piatto di miele che con un barile di aceto» (MB 14,514).
«La nostra è una casa. Si vive in famiglia» (MB 16,168).
«Il mio sistema? La carità e il timor di Dio» (MB 6,381). E ai giovani chierici, impacciati perché non sapevano come fare:
«Passa coi giovani tutto il tempo possibile» (MB 10,1043). «Parlare, parlare! Avvertire, avvertire!» (MB 4,567). «Abbi l'occhio sempre aperto, aperto e lungo» (MB 10,1022). «Con quelli permalosi siate ancora più benigni» (MB 9,357).
«I parenti ce li affidano per l'istruzione, ma il Signore ce li manda affinché noi ci interessiamo delle loro
anime» (MB 6,68).
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Nove paginette
Un giorno, però, vinto dalle insistenze, don Bosco tirò giù nella sua pessima grafia nove paginette. In esse chiama la sua maniera di educare «Sistema Preventivo». Non sono un «trattato scientifico», ma un insieme di consigli d'oro. Così semplici che ciascuno può dire: «Fin lì potevo arrivarci anch'io». La differenza è che don Bosco ci arrivò «per tutta la vita», con una costanza e pazienza infinite. Tanti altri educatori e genitori ci arrivano «qualche volta», quando hanno i nervi calmi ed è 48 ore che si riposano.
Ecco le righe più belle di quelle paginette (che i Salesiani trovano in fondo alle loro Regole, per un confronto quotidiano con don Bosco):
«Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l'amorevolezza. Esclude ogni castigo violento, e cerca di tenere lontani gli stessi castighi leggeri...
Il direttore e gli assistenti (siano) come padri amorosi: parlino, servano di guida, diano consigli e amorevolmente correggano...
Il sistema Preventivo rende amico l'allievo, che nell'assistente vede un benefattore che... vuol farlo buono, liberarlo dai dispiaceri, dai castighi, dal disonore. L'educatore, guadagnato il cuore del suo protetto... potrà avvisarlo, consigliarlo...
La pratica di questo sistema è tutta poggiata sopra le parole di san Paolo che dice: "La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo". Perciò soltanto il cristiano può con successo applicarlo. Ragione e religione sono gli strumenti di cui deve costantemente far uso l'educatore...
Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla sanità...
La frequente Confessione, la frequente Comunione, la Messa quotidiana sono le colonne che devono reggere l'edificio educativo... Mai obbligare i giovanetti alla frequenza dei santi Sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro la comodità di approfittarne...
La lode quando una cosa è ben fatta, la disapprovazione quando vi è trascuratezza, sono già un premio e un castigo...
Si usi la massima pazienza perché l'allievo comprenda il suo torto con la ragione e la religione. Il percuotere in qualunque modo... si deve assolutamente evitare, perché... irrita i giovani e avvilisce l'educatore» (Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales, Roma 1984, pp. 236ss).
51. Tra Stato e Chiesa
il valletto rosso
L'Arcivescovo imprigionato
24 marzo 1848. L'Arcivescovo Fransoni nel Duomo di Torino ha pregato solennemente per il re Carlo Alberto e il principe ereditario Vittorio Emanuele, che nella notte partiranno per il fronte della prima guerra d'indipendenza. Re e principe hanno partecipato alla sua preghiera, nel Duomo gremitissimo. All'uscita, l'Ar- civescovo è fischiato sonoramente. I carabinieri si fanno largo a forza verso le squadre di studenti e di agitatori, ma essi si disperdono lanciando pesanti insulti verso Fransoni.
Nelle ore seguenti, sotto le finestre dell'arcivescovado, si rinnovano chiassate e sassaiole. Il ministro dell'Interno fa avvisare cortesemente ma fermamente Fransoni che non può garantire della sua incolumità. Si sa che l'Arcivescovo è contrario alla guerra contro l'Austria, e le reazioni sono imprevedibili. È invitato a «fare un viaggio», in Svizzera.
29 marzo. Mons. Fransoni parte per Ginevra, dopo aver manifestato la propria indignazione contro un governo che non sa garantire l'incolumità dei suoi cittadini.
È’ l'inizio dello scontro durissimo che, negli anni seguenti, contrapporrà Stato e Chiesa.
Dicembre 1849. La prima guerra d'indipendenza è definitivamente perduta. Nuovo re è Vittorio Emanuele Il. Tante cose sono cambiate, ma il permesso all'Arcivescovo Fransoni di rientrare nella sua città non è stato ancora concesso. Mille preti e diecimila laici presentano una petizione al primo ministro d'Azeglio perché il ri- torno di Fransoni sia consentito. A denti stretti, d'Azeglio accetta. Nel febbraio 1850, senza clamori, l'Arcivescovo rientra in Torino.
Nella primavera di quell'anno è discusso alla Camera il disegno di legge del ministro Siccardi. Propone di abolire la «convenzione sulle immunità» concordate nel 1841 tra il Regno di Sardegna e la Santa Sede: il foro ecclesiastico, per il quale i preti macchiatisi di delitti comuni venivano giudicati da tribunali loro riservati; la possibilità di accrescere i beni della Chiesa mediante lasciti ed eredità; il diritto d'asilo, per il quale non si poteva arrestare nessuno in una chiesa o in un convento.
9 aprile. Il re firma la legge approvata dalla Camera e dal Senato.
Il Papa protesta vivacemente. Il Nunzio apostolico presso il Governo piemontese lascia Torino. Gli Arcivescovi di Torino (Fransoni) e di Cagliari (Marongiu) dichiarano la legge ingiusta e vietano ai preti di osservarla. Entrambi sono arrestati e imprigionati. Fransoni è condannato a un mese di carcere da trascorrersi nella Cittadella di Torino. Viene internato il 4 maggio. Uscirà il 2 giugno.
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Dodici anni di esilio a Lione
Agosto 1850. Il ministro dell'Agricoltura Pietro Derossi di Santarosa è in fin di vita. Chiede il Viatico. L'Arcivescovo ordina al parroco di esigere pubblica ritrattazione per aver approvato la legge Siccardi. Il ministro rifiuta e muore senza Viatico.
Le bande anticlericali si scatenano contro l'Arcivescovo, i preti, i religiosi. La tensione in città è gravissima. Il ministro della Guerra, Alfonso La Marmora, manda i carabinieri ad arrestare Fransoni. È’ il 7 agosto. Viene portato nella fortezza di Fenestrelle, presso il confine francese. Di qui, il 29 settembre, è accompagnato al confine. L'Arcivescovo raggiunge Lione, dove vivrà esiliato fino alla morte, nel 1862.
1852. Il primo ministro d'Azeglio presenta in Parlamento un progetto legge per l'imposizione del matrimonio civile. I cattolici piemontesi (sono la grande maggioranza anche se al Parlamento, per il quale vota il 2 per cento della popolazione, non sono praticamente rappresentati) reagiscono duramente. Il re dichiara che in coscienza non potrà mai firmare quella legge. D'Azeglio la ritira.
La «legge maledetta»
1854. Si comincia a discutere in Parlamento un disegno di legge presentato dal ministro Rattazzi. Viene chiamata spregiativamente «la legge dei frati». Il nuovo primo ministro Camillo Cavour ha dichiarato più volte che il principio che lo guida nella politica verso la Chiesa è «libera Chiesa in libero Stato». La legge che Rat- tazzi (membro del suo governo) presenta è una flagrante violazione del principio. Essa propone di sopprimere gli ordini religiosi «non dediti all'istruzione, alla predicazione o all'assistenza ospedaliera», cioè metà dei conventi del Piemonte. Lo Stato incamererà tutti i beni degli ordini soppressi.
«Era una intromissione dello Stato nella vita della Chiesa - scrive Francesco Traniello -, specialmente grave per il fatto che il governo si arrogava il diritto di decidere quali ordini religiosi potevano essere ancora utili alla società, secondo un criterio per così dire produttivistico. Anzi, Cavour giunse ad affermare che gli ordini disciolti non erano più utili neppure alla Chiesa».
La legge, per le violente proteste da cui fu investita, fu chiamata da Cavour «maudite bi», «legge maledetta».
I sogni del valletto rosso
Don Bosco, suo malgrado, fu coinvolto in questa faccenda da un sogno «scomodo» che «mi ha fatto star male» e lo rese «addoloratissimo ». Da casa reale, specialmente dalla regina madre Maria Teresa, aveva ricevuto aiuti ingenti. L'ultimo gli era arrivato il 14 novembre di quel 1854.
Ed ecco che, sul finire di quel mese, sogna di essere in cortile, accanto alla pompa murata contro la casa Pinardi, quando si avanza «un valletto di Corte in rossa uniforme» che gli grida: «Annunzia: gran funerale in Corte! gran funerale in Corte!». Don Bosco si sveglia «come fuori di sé». Dopo pranzo, mentre gli sono intorno Rua, Buzzetti, Francesia, Enria, Angelo Savio ed altri, racconta il sogno e conclude: «Mi ha fatto star male e mi ha affaticato molto». Si sente in dovere di raccontare il sogno al re, ma non ne ha molto coraggio. Il chierico Savio si offre. Allora don Bosco gli porge un biglietto su cui ha tracciato la brutta copia, e gli dice: «Copia e spedisci».
Cinque giorni dopo, il sogno si ripete. Ma il «valletto in rossa livrea» questa volta entra addirittura in camera sua, e gli grida:
«Annuncia: non gran funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte!». Questa volta, impressionatissimo, all'alba don Bosco scrive personalmente al re. Gli racconta il sogno «e lo pregava di fare in modo di schivare i minacciati castighi, coll'impedire a qualunque costo l'approvazione della legge... Al chierico Cagliero e ad altri il Santo disse apertamente trattarsi di vere minacce del Signore, e, addoloratissimo, ripeteva frequentemente: "Questa legge attirerà sulla casa del Sovrano gravi disgrazie!"» (ivi, pp. 499s).
La collera del re
Se anche il re non fosse religioso e superstizioso (ed è entrambe le cose) ce ne sarebbe abbastanza per impressionarlo. Fa chiamare il marchese Fassati, e lo manda da don Bosco a manifestargli tutta la sua collera. Il marchese arriva buio buio all'Oratorio e «tira le orecchie» a don Bosco:
«- Ma le pare questa la maniera di mettere sossopra tutta la Corte? Il Re n'è rimasto più che impressionato e turbato... e montato su tutte le furie.
- Ma ciò che è stato scritto è verità! - gli risponde don Bosco -. Mi rincresce di aver cagionato questo disturbo al Sovrano; ma, insomma, si tratta del bene suo e di quello della Chiesa» (ivi, p. 500).
La morte delle due regine
Nonostante le furie del re e il rincrescimento di don Bosco, i sogni si avverano. Scrive Alfassio Grimaldi: «Rigidissimo è l'inverno del 1855, in cui l'undicenne Umberto vede spopolarsi la casa. Vengono a mancare prima le donne: la nonna Maria Teresa (vedova di Carlo Alberto), calata da Moncalieri a Torino per assistere la nuora che soffre per l'imminente maternità, prende freddo in chiesa e muore di polmonite, all'età di 53 anni, il 12 gennaio, e il 16, per portarla a Superga, s'ammalano parecchi soldati di scorta... I funerali di Maria Teresa sono fatti in modo da non allarmare Maria Adelaide, senza campane e senza colpi di cannone, per vie inusitate».
Ma anche Maria Adelaide, la sposa di Vittorio Emanuele Il, è alla fine. Sfinita dalle gravidanze, offesa dalla
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vita disordinata del marito, tormentata dalla solitudine in cui la lascia per intere settimane, quando s'alza dal letto e dalla poltrona, dà l'impressione di essere sul punto di cadere per terra.
«Nel pomeriggio del 18 il re fa chiamare Clotilde: "Chichina, vuoi vedere la mamma?". Adelaide con un filo di voce le chiede degli studi e le fa dare un gelato di albicocca... Il 20 Maria Adelaide rende finalmente l'anima a Dio dopo lunghe giornate di atroci dolori, di lamenti che si sentivano perfino in piazza». All'età di 33 anni lascia questa, veramente per lei, valle di lacrime. La poveretta, che ha cominciato ad avere figli a 21 anni, smette solo con la morte le troppo frequenti gravidanze. Otto nati, dei quali gli ultimi tre sono morti prima di lei. «La marchesa Costanza d'Azeglio scrive al figlio che questa fatalità che pesa sulla famiglia reale, diffonde un velo di tristezza, "io direi persino di terrore" nel pubblico... E l'ala della morte continua implacabile a librarsi nelle stanze di palazzo reale. Il 10 febbraio il re perde il fratello Ferdinando, duca di Genova, trentatreenne, e il 16 maggio ritorna in cielo a soli quattro mesi l'ultimo nato: per la quarta volta i sotterranei di Superga si riaprono, "quasi per ingoiare tutta quanta la più antica stirpe d'Europa", scrive nel suo diario la contessa Savio... Nel giro di poche settimane (il re) è dimagrito di metà» (AL GR 20s).
Uno stupido luogo comune
Uno dei più stupidi luoghi comuni rappresenta il «profeta minaccioso», mentre annuncia il castigo di Dio, con il dito puntato e gli occhi fiammeggianti, e soddisfatto quando i fulmini divini minacciati arrivano. Per don Bosco non fu assolutamente così. Aveva una grande venerazione, come tutta Torino, per le due regine. Le vedeva regolarmente al Santuario della Consolata confuse con le donne del popolo e da esse aveva ricevuto gesti di grande bontà. Anche solo dal punto di vista squallidamente materiale, la loro morte metteva a dura prova le incerte entrate della beneficenza per l'Oratorio. Ma prima di tutto lui sapeva che cosa si prova quando la morte arriva in casa. L'aveva provato per la prima volta a due anni. L'avrebbe provato ancora, in maniera dolorosissima, un anno e mezzo più tardi, quando il 25 novembre 1856 mamma Margherita l'avrebbe lasciato. E i principini, anche se figli di re, erano bambini che rimanevano senza mamma, e nulla al mondo faceva compassione a don Bosco come i bambini orfani.
Sfrattati 5456 tra preti, frati e suore
Qualunque fosse lo stato d'animo del re, 13 giorni dopo la morte del suo ultimo nato egli firmò la «maudite bi». Furono soppressi 35 ordini religiosi, chiuse 334 case, sfrattati 5456 tra preti, frati e suore. Ad essi furono negati i diritti civili di contrarre matrimonio, di possedere, di ereditare e di fare testamento. Persero anche il diritto al voto politico e amministrativo, perché non costituissero una milizia elettorale per il «partito reazionario». Fu una grave violazione del diritto comune. A frati e suore fu assegnata una pensione o un assegno di lire 1,50 al giorno per gli uomini, e una lira per le donne, decurtati dell'imposta di ricchezza mobile. Lo Stato rivendicò pure la designazione dei vecovi. Tra Stato e Chiesa era guerra aperta.
Voler fondare una nuova Congregazione religiosa in una situazione simile, era come voler costruire case durante un terremoto. Eppure don Bosco ci provò.
52. La Congregazione Salesiana
«È’ come cacciar via gli uccelli»
Un giorno, a Marsiglia, don Bosco disse sorridendo: «Sopprimere le Congregazioni religiose è come battere le mani per cacciar via gli uccelli scesi a beccare il grano... Scappano subito, ma poi uno dopo l'altro ritornano» (MB 14,437).
Don Bosco era persuaso di portare in sé non solo il sogno, ma anche la volontà del Cielo di fondare una Congregazione religiosa. Una volontà a cui non poteva ribellarsi. E questo, almeno da quando aveva 32 anni. Nel 1847, infatti, aveva fatto il sogno del «pergolato»: in esso la Madonna lo aveva esortato a camminare sotto un pergolato di rose bellissime che nascondevano spine crudeli. Doveva farlo per aiutare una moltitudine di ragazzi che correvano rischio di perdersi. Ma nessuno voleva mettersi a camminare con lui. Finché dei giovani cresciutigli accanto si misero con decisione ad accompagnarlo. Raccontando il sogno ai suoi primi chierichi, don Bosco aveva detto queste testuali (e per lui insolite) parole: «Ognuno abbia la sicurezza essere Maria Vergine che vuole la nostra Congregazione» (MB 3,32).
Nel 1848, mentre «uno spirito di vertigine» si leva «contro agli ordini religiosi, e contro le Congregazioni Ecclesiastiche», egli pensa e ripensa alla Congregazione che dovrà fondare. E scrive: «In quel tempo Dio fece in maniera chiara conoscere un nuovo genere di milizia, che egli voleva scegliere; non già tra le famiglie agiate... Quelli che maneggiavano la zappa o il martello dovevano essere scelti a prendere posto glorioso tra quelli da avviarsi allo stato sacerdotale».
Gli pare quindi che Dio stesso gli suggerisca il carattere fondamentale della futura Congregazione: figli del popolo a servizio dei figli del popolo.
Per la prima volta «Salesiani»
Nonostante i suoi progetti, nel 1850 don Bosco è un sacerdote diocesano di Torino come tutti gli altri. Si trova a capo di tre Oratori: di Valdocco, di Porta Nuova e di Vanchiglia. All'Oratorio di Valdocco ha aggiunto una casa per raccogliere ragazzi senza tetto. Ma egli governa queste opere sotto l'autorità dell'Arcivescovo, mons. Fransoni. I sacerdoti che l'aiutano (da don Borel a don Carpano) costituiscono una società, dai vincoli
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abbastanza larghi, ma che si può chiamare «Società Diocesana degli Oratori» alle dipendenze dell'Arcivescovo. Solo nel 1852 mons. Fransoni, dall'esilio di Lione, elegge don Bosco «Direttore degli Oratori».
Ma con tenacia e in silenzio, don Bosco conduce avanti il «suo» progetto.
26 gennaio 1854. Don Bosco, mentre fuori c’è un'aria gelida da tagliare la faccia, raduna in camera sua quattro giovani. Due hanno già indossato la veste da chierico, Rua e Rocchietti, un terzo la indosserà alla fine di quell'anno, Giovanni Cagliero. Dice loro, dal più al meno, queste parole: «Come vedete, io sono solo a lavorare tra i ragazzi abbandonati, e da solo non ce la faccio quasi più. Bisogna tirar via dalla strada gli sbandati moltiplicando gli oratori, aprire scuole per dare la possibilità a chi è intelligente di farsi una cultura, iniziare altri laboratori per i ragazzi che vengono sfruttati nelle officine. E a tutti questi ragazzi dare catechismo e amicizia con Dio. E questo non solo in Torino, ma in tante città d'Italia e del mondo. Per far questo io ho bisogno del vostro aiuto, e tutti quanti abbiamo bisogno dell'aiuto del Signore. Se ve la sentite, vi propongo di fare una promessa: di dedicarvi come me ai giovani più poveri. Domani questa promessa potrà diventare un voto. Io vedo in voi i "don Bosco" di domani».
Michele Rua ci ha tramandato una relazione abbastanza burocratica di quella riunione: «Ci venne proposto di fare coll'aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo per venire poi ad una promessa; e quindi se sarà possibile e conveniente di farne un voto al Signo- re. Da tale sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proposero e si proporranno tale esercizio» (MB 5,9).
Dar tempo al tempo
Anche don Cafasso, vedendo l'Oratorio crescere tumultuosamente senza i sacerdoti necessari all'assistenza e all'educazione cristiana dei giovani, diceva in quegli anni a don Bosco: «Per le vostre opere è indispensabile una Congregazione religiosa» (MB 5 685). Glielo suggerì addirittura un chierico, Ascanio Savio, che in quel tempo dava una mano a don Bosco, ma che pensava ormai di trasferirsi in seminario: «Io dissi a don Bosco: - Fondi un ordine religioso -. Ed egli mi rispose: - Da' tempo al tempo» (ivi).
Dar tempo al tempo. Per don Bosco è la maniera normale di agire. In quel tempo la parola «religioso» fa rizzare le orecchie. Non è più di moda. Sembra una faccenda tramontata per sempre, insieme alle parole «frate» e «monaca». Bisogna procedere con lentezza e prudenza. D'altra parte, impegnarsi «per tutta la vita» non è una fischiatina. Ma don Bosco non ha fretta. Crede nei tempi lunghi. Sono gli unici che danno non solo frutti, ma alberi.
Intanto, senza clamori, nel marzo 1855 Michele Rua si consacra a Dio con i voti di povertà, castità e obbedienza. Si lega personalmente a don Bosco e alla sua missione. Alcuni mesi dopo pronuncia la stessa consacrazione il prete don Alasonatti. Nel 1856 è la volta di Batistin Francesia. Ha 17 anni, il ragazzo che scappando andò a sbattere in don Bosco, ed è diventato un formidabile professore di latino. Dall'alto della sua cattedra, con voce armoniosa e sicura, tiene in ordine una classe di settanta allievi. Sono i primi tre «salesiani», anche se la Congregazione Salesiana non è ancora stata fondata.
Lo sprazzo di luce viene da Rattazzi
1857. Don Bosco è nell'ufficio del ministro Rattazzi, che lo ha pregato di accettare nell'Oratorio due ragazzi orfani. Ad un tratto si sente dire:
«Don Bosco, lei è mortale come ogni altro. E se venisse a mancare, che ne sarebbe dell'opera sua? Quale misura intende adottare per assicurare l'esistenza del suo Istituto?» (MB 5,696).
Don Bosco cade dalle nuvole. Trattiene a stento un sorriso. L'anticlericale Rattazzi, quello che due anni prima ha fatto approvare la «legge sui frati», che ha sbaraccato 334 case religiose, gli sta proponendo di fondare un nuovo Istituto religioso. Tra il serio e il faceto risponde: «Non ho intenzione di morire così presto. Ad ogni modo, per continuare l'opera degli Oratori, cosa mi consiglierebbe?».
Rattazzi gli dà, stando a don Lemoyne, la risposta seguente:
«A mio avviso (...), lei dovrebbe scegliere alcuni tra laici ed ecclesiastici di sua confidenza, formarne una Società sotto certe norme, imbeverli del suo spirito, ammaestrarli nel suo sistema, affinché fossero non solo aiutanti, ma continuatori dell'opera sua dopo la sua dipartita».
«Ma il Governo - obietta don Bosco - due anni fa soppresse parecchie società religiose; e forse si sta preparando alla estinzione delle rimanenti. Permetterà che se ne fondi un'altra?».
«La legge di soppressione io la conosco - ribatte Rattazzi - (...)Essa non le recherà nessun incaglio, purché istituisca una Società... in cui ogni membro conservi i diritti civili, si assoggetti alle leggi dello Stato, paghi le imposte e via dicendo. In una parola, la nuova Società in faccia al Governo non sarebbe altro che un'As- sociazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme ad uno scopo di beneficenza. Nessun Governo... impedirà lo sviluppo di tale Società, come non impedisce, anzi promuove le Società di commercio, d'industria, di cambio... Qualsiasi Associazione di liberi cittadini è permessa».
«Le parole di Rattazzi - conclude don Lemoyne - furono uno sprazzo di luce» (MB 5,696 ss).
La parola del Papa e l'allenamento
Nel marzo 1858, accompagnato dal chierico Rua, don Bosco scende per la prima volta a Roma. Deve fare il viaggio per mare da Genova a Civitavecchia. (Ricorderà: «Che viaggio mi toccò fare per mare! D. Rua non
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soffrì nulla, ma io non me lo dimenticherò mai più». Durò tre giorni, e furono giorni di nausee e voltastomaco). Il 9 marzo è ricevuto in udienza da Pio IX, che ha già sentito parlare molto bene di lui e lo tratta con molta bontà. Don Bosco gli parla delle sue opere, dei suoi ragazzi, della Congregazione che vorrebbe far nascere. Domanda la sua approvazione.
Pio IX prende tempo. Dice che vuol pensarci sopra. Ricevendolo nuovamente il 21 marzo, gli dice: «Ho pensato al vostro progetto, e mi sono convinto che potrà procacciare assai del bene alla gioventù. Bisogna attuarlo... Studiate in modo che ogni membro di essa in faccia alla Chiesa sia un religioso e nella civile società sia un cittadino» (MB 5,880s).
Tornato a casa, don Bosco lascia trascorrere ancora otto mesi. Intanto, quelli che saranno le pietre fondamentali della Congregazione, li allena alla sua maniera. Li fa studiare regolarmente e regolarmente dare gli esami necessari per insegnare. Contemporaneamente affida loro la scuola, l'assistenza nei refettori e nei cortili. Li vuole attivi, fantasiosi, allegri, instancabili. Ricorda don Francesia: «Ci insegnava col suo esempio ad aspettare e pazientare, a non disperare mai (di nessuno), ed anche a non pigliare certe cose di fronte, a non pretendere da un momento all'altro miracoli di conversione» (VBP, 7). Insegnava a giocare coi ragazzi vicini, ma ad avere l'occhio «lungo», che sa guardare anche i lontani.
Alla domenica, per chiudere la settimana, li manda negli Oratori di Torino. Fanno i «don Bosco» per centinaia di piccoli operai, muratorini, spazzacamini, giovani studenti. Tornano alla sera stanchi morti. Ingoiano un boccone di cena lasciato al caldo per loro, e poi si arrampicano fino agli abbaini del sottotetto, dove sono i loro letti. Fa un caldo feroce d'estate, là dentro, e un freddo polare d'inverno. Ma non soffrono d'insonnia. Michele Rua ricordava che si addormentava di colpo, come folgorato. Giovanni Cagliero si svegliò un lunedì mattino sulla sedia, con una calza in mano. Non ce l'aveva fatta a raggiungere il letto. S'era addormentato lì.
«Voi siete stati scelti da me»
9 dicembre 1859. A don Bosco pare che i «tempi lunghi» siano durati abbastanza. È’ ora di fare la proposta chiara a tutti i migliori. Ne chiama 19 nella sua stanza, e parla pressappoco così:
«Da molto tempo meditavo di istituire una Congregazione. Tale è stato da parecchi anni l'oggetto principale delle mie cure. Pio IX lodò il mio proposito. Veramente questa Congregazione non nasce adesso... Possiamo dire che voi vi appartenete già in spirito. Si tratta ora di costruirla formalmente, di darne il nome e di accettarne le regole. Vi saranno ascritti soltanto coloro che dopo matura riflessione vorranno emettere i voti di povertà, castità e obbedienza. Voi siete stati scelti da me, perché vi giudico atti a divenire un giorno membri effettivi della Pia Società che conserverà il nome di Salesiana... Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra.
Dopo quelle parole chiare, lunghi silenzi, riflessione. Giorni di esitazioni. Qualcuno butta là: «Rimanere con don Bosco mi è sempre piaciuto. Ma adesso ci chiede di diventare dei frati». Ancora silenzio, poi risponde ad alta voce Giovanni Cagliero, che per don Bosco si butterebbe nel fuoco: «Frate o non frate, io rimango con don Bosco» (ivi, 31).
La sera del 18 dicembre, nella stanzetta di don Bosco rientrano in diciassette. Il verbale, redatto da don Alasonatti, elenca prima quelli che hanno accettato di diventare Salesiani: «Il sacerdote Alasonatti Vittorio, i chierici Savio Angelo diacono, Rua Michele suddiacono, Cagliero Giovanni, Francesia G. Battista, Provera Francesco, Ghivarello Carlo, Lazzero Giuseppe, Bonetti Giovanni, Anfossi Giovanni, Marcellino Luigi, Cerruti Francesco, Durando Celestino, Pettiva Secondo, Rovetto Antonio, Bongiovanni Cesare Giuseppe, il giovane Chianale Luigi». Poi elenca le prime cariche assegnate: Don Bosco superiore maggiore, don Alasonatti prefetto, Rua direttore spirituale, Angelo Savio economo, Cagliero, Bonetti e Ghivarello consiglieri.
I primi ventidue
14 maggio 1862. Riuniti a sera nella stessa stanzetta di don Bosco, davanti al Crocifisso, i «Confratelli della Società di S. Francesco di Sales» fecero «voto di povertà, castità e obbedienza per tre anni». Erano 22. Tra loro, i primi due salesiani laici, Federico Oreglia di S. Stefano, cavaliere, e Giuseppe Gaj a, cuoco. Michele Rua, ordinato sacerdote da due anni, leggeva ad alta voce la formula dei voti, che tutti ripetevano frase per frase.
Pronunciate le ultime parole della professione, don Bosco rivolse loro parole di fiducia nell'avvenire, parole che don Bonetti si è sforzato di ricostruire con fedeltà:
«Mentre voi facevate a me questi voti, io li facevo pure a questo Crocifisso per tutta la mia vita; offrendomi in sacrificio al Signore, pronto ad ogni cosa... per la sua maggior gloria e la salvezza delle anime, specialmente per il bene della gioventù... Miei cari, viviamo in tempi torbidi. Ma non importa. (...) Chi sa che il Signore non voglia servirsi di questa nostra Società per fare molto bene alla sua Chiesa! Da qui a 25 o 30 anni, se il Signore continua ad aiutarci, come fece finora, la nostra Società sparsa per diverse parti del mondo potrà anche ascendere al numero di mille socii» (MB 7,163s). Si sbagliava, ma per difetto: nel 1887 (dopo 25 anni) i Salesiani sarebbero stati 972, e nel 1892 (dopo 30 anni) 1636. Nel 1967 avrebbero toccato il tetto di 22.810. Subito dopo don Bosco, con parole semplicissime, tracciò il programma della Congregazione neonata:
- istruire con le prediche il basso popolo, - educazione dei ragazzi abbandonati,
- far scuola,
- scrivere e diffondere buoni libri,
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- tutti a sostenere... la dignità del Romano Pontefice e dei ministri della Chiesa (MB 7,164).
Il segreto dei pani e dei pesci
Nelle parole scritte da don Bosco nel 1848 e in quelle dette in quel 14 maggio sta la spiegazione dello sviluppo rapidissimo, addirittura sbalorditivo dei Salesiani, che faceva ricordare a mons. Fulton Sheen la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Don Bosco aveva fondato una Congregazione che non «andava» verso il popolo, ma che «era» del popolo.
Con i giovani emarginati della prima rivoluzione industriale, con i contadini cresciuti su una terra desolata dalle guerre e dalle carestie, con quei mezzi umani poverissimi costruì una Congregazione e tracciò un programma assolutamente adatti ai tempi di crisi che stavano cominciando, adatti per il «ceto popolare» che diventava il protagonista della nuova era, per le masse, per il Terzo Mondo.
Partendo da una stima grande, assoluta della gente comune, non cercò di fare dei figli di questa gente dei raffinati, degli studiosi aristocratici, ma valorizzò gli elementi evangelici di cui questa gente è portatrice: la semplicità, la solidarietà, la capacità di sacrificio, l'allegria anche rumorosa, la capacità di dividere il pane con quelli ancora più poveri, la capacità di trovare la gioia nelle piccole cose, di ascoltarsi e capirsi, di considerarsi piccole persone senza importanza, di sperare in un mondo più giusto da realizzare con l'aiuto di Dio ma anche con il lavoro delle nostre mani e il sudore della nostra fronte.
I «cavallacci» di don Bosco
Don Bosco dimostrò che si può costruire una santità eroica anche su elementi poverissimi di cultura; che si può parlare con Dio mentre si è ancora sudati e impolverati, dopo corse frenetiche in un cortile. Il cardinale Giovanni Cagliero depose sotto giuramento: «E ricordo bene come alcuni (cita l'abate Tortone, rappresen- tante della S. Sede a Torino, e poteva citare l'Arcivescovo Gastaldi), visitando il nostro Oratorio, e presenziando la ricreazione dei giovani, con giochi, corse e salti, abbiano detto che don Bosco educava i suoi alla carlona: e ci fu persino chi ci disse «cavallacci, ii cavalass 'd dun Bosc». E questi cavalass erano i sacerdoti don Rua, don Francesia, don Cagliero, don Albera, don Lasagna apostolo del Brasile, don Fagnano apostolo della Terra del Fuoco... e mille altri che ora sono zelantissimi missionari, vescovi, arcivescovi, parroci, sacerdoti ».
Don Bosco si senti della «razza» dei poveri, e volle i suoi Salesiani «di questa razza». È qui la loro genuinità e la loro grandezza.
53. Cavour, Napoleone e la guerra
Il progetto di Napoleone e quello di Cavour
Il 26 aprile 1859 inizia la «seconda guerra d'indipendenza». Napoleone III, imperatore dei Francesi, ha promesso a Cavour di portare in Italia un grosso esercito, che sconfiggerà l'Austria e darà un volto nuovo all'Italia: regno Piemonte-Lombardia-Veneto a nord sotto i Savoia; regno dell'Italia centrale sotto la corona di un principe francese; regno dell'Italia meridionale sotto il comando di un discendente del generale napoleonico Murat. Gli Stati Pontifici verranno ridotti al Lazio. Il Papa dovrà accontentarsi, e sarà proclamato «presidente» della Confederazione degli Stati italiani. La Francia sarà ricompensata con il rimborso delle spese militari e la cessione di Nizza (città natale di Garibaldi) e della Savoia (terra patria dei re del Piemonte). Cavour accetta il progetto di Napoleone, ma in testa ne tiene in serbo uno diverso: nelle regioni centrali e meridionali ci sono suoi emissari che in questo momento stanno mettendo le premesse per tumulti e rivoluzioni in favore di Vittorio Emanuele Il. L'Italia si unificherà non in una confederazione sotto il Papa, ma in un regno sotto Vittorio.
Offensiva-lampo di Gyulai
La guerra inizia con un'offensiva-lampo degli Austriaci. Il generalissimo Gyulai, successore dell'« eterno» Radetzky morto l'anno prima a 92 anni, cerca di conquistare Torino prima dell'arrivo dei Francesi. Lancia i suoi 160 mila uomini a marce forzate. Giunge a 25 chilometri dalla capitale. A Torino si preparano le barricate. Ma Napoleone sbarca a Genova 150 mila uomini, e con l'aiuto impagabile delle ferrovie (fatte costruire con preveggenza da Cavour) cerca di portare il suo esercito alle spalle del nemico, costretto a battere velocemente in ritirata.
La battaglia fu praticamente una sola, e si svolse sulle alture di Solferino e San Martino il 24 giugno. Vi parteciparono un re, Vittorio Emanuele, e due imperatori, Napoleone III e Francesco Giuseppe. La vittoria fu di Napoleone, ma sul terreno rimasero 30 mila uomini, mentre altre migliaia se le portava via il tifo, scoppiato in forma epidemica tra le truppe francesi.
Gli emissari del Governo piemontese, in quei mesi, lavorarono con molto successo. A Parma, a Modena e nelle Legazioni Pontificie (centro Bologna), ci furono insurrezioni popolari e la costituzione di governi provvisori filo-piemontesi. Il Regno dell'Italia centrale, ipotizzato da Napoleone per un principe francese, franava.
Le preoccupazioni per la vastità del moto popolare (che travolgendo gli Stati Pontifici gli creava impopolarità in Francia), la forte perdita di uomini, e le minacce della Prussia di intervenire nella guerra a favore dell'Austria, spinsero Napoleone a offrire un armistizio all'Austria. Fu firmato, all'insaputa di Cavour, l'8 luglio a Villafranca.
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Minaccia di morte per l'Oratorio
Al Piemonte veniva ceduta solo la Lombardia tranne Mantova. Il gioco degli equivoci tra Cavour e Napoleone arrivava così alla resa dei conti.
Cavour ebbe un' arrabbiatura terribile. Avrebbe dovuto consegnare a Napoleone la Savoia (e questo adombrava Vittorio Emanuele) e Nizza (e da questo momento Garibaldi sarebbe stato suo nemico violento e irriducibile). E la guerra era costata 400 milioni (circa 1500 miliardi del 1986): una somma che faceva traballare le finanze dello Stato.
Ma nei tumultuosi mesi che seguirono, Toscana, Parma, Modena e le Legazioni Pontificie si dichiararono unite al Piemonte. Il 5 maggio 1860, Garibaldi (a capo dei leggendari «Mille» che erano 1150) partì dalla Liguria per abbattere il Regno delle Due Sicilie.
A questo punto don Bosco sente addensarsi la più seria minaccia di morte per il suo Oratorio.
54. Una «talpa» in Vaticano
18 poliziotti a picchettare i cortili
Pomeriggio del 26 maggio 1860.
Don Bosco è nel suo ufficio. Sta accettando nell'Oratorio un ragazzo orfano di padre. È’ accompagnato dalla mamma, una donna povera e pallida, e da una lettera di raccomandazione del Ministero dell'Interno. Don Bosco annota in margine alla lettera (come fa sempre) «Tenere presente». Quella domanda gli servirà per do- mandare a sua volta qualche sussidio, e per difendersi da qualche attacco del governo anticlericale. Non suppone nemmeno che un attacco durissimo sta arrivando proprio in quei minuti.
18 guardie di sicurezza scendono da alcune carrozze e picchettano silenziosamente cortili e scale. Tre funzionari del Ministero dell'Interno entrano nell'ufficio di don Bosco: «Dobbiamo parlare con lei di cosa urgente e riservata. Abbiamo mandato di compiere un'ispezione domiciliare in ogni ambiente del suo Oratorio». (Seguo la relazione di Giovanni Bonetti, testimone di quegli avvenimenti, riportata in Cinque lustri di storia... pp. S6Oss.)
Don Bosco è leggermente scosso ma non perde il suo sangue freddo. Sa che sui giornali sono apparse notizie «soffiate» da persone vicine al ministro: si parla di relazioni segrete tenute da don Bosco, don Cafasso, canonico Ortalda e conte Cays con l'Arcivescovo Fransoni in esilio a Lione, e con il cardinale Antonelli segretario di Stato di Pio IX. La rozza Gazzetta del Popolo ha pure «rivelato» che a Valdocco e in altri istituti educativi sono state ammassate armi in «cantine e camere segrete»: si prepara una guerra civile con ingenti somme inviate dal Vaticano, si addestrano i giovani alla guerriglia. Tutto questo avverrebbe per rispondere ai colpi di mano con cui il Governo piemontese ha detronizzato i granduchi e i principi dell'Italia centrale e cerca di liquidare lo Stato Pontificio. (Nel giugno 1859 un plebiscito ha proclamato l'Emilia Romagna «annessa al regno di Vittorio Emanuele Il» Il re ha accettato. Il Papa ha risposto il 26 marzo 1860 scomunicando gli occupanti. In Francia i cattolici sono violentissimi contro gli «usurpatori piemontesi», e incitano Napoleone III a sbarcare truppe nel Lazio per difendere gli ultimi domini del Papa).
Don Bosco sa che soldi, armi, addestramenti alla guerriglia esistono solo nella testa di giornalisti sprovveduti; ma sa anche che esistono lettere e rapporti compromettenti. Nonostante la sua assoluta prudenza (nessuno della casa è al corrente, il solo don Alasonatti ha visto una lettera indirizzata a Roma) sa che se quei do- cumenti venissero scoperti, per il suo Oratorio sarebbe finita. Il governo non ha esitato a confinare in Torino, a domicilio coatto, il cardinale Corsi, Arcivescovo di Pisa. Non avrebbe esitazioni maggiori con lui, nonostante le sue alte amicizie.
Un francobollo pontificio nel cestino della carta
Con freddezza e abilità consumata, don Bosco gioca tutte le sue carte. Sa di avere qualcosa da nascondere, ma sa che dall'altra parte hanno da nascondere molto di più. Le scene che seguono (viste e riportate fedelmente da don Bonetti che non conosce il «nocciolo della questione») sanno di pantomima.
Come inizio, don Bosco richiede un regolare «mandato scritto di perquisizione», e minaccia in caso contrario di «far suonare le campane a stormo» contro i violatori di un domicilio privato.
Il mandato è stato dimenticato nell'ufficio della Questura, e bisogna andare a prenderlo.
I giovani dell'Oratorio, intanto, sono usciti dalle scuole e dai laboratori. Vedono le guardie nei punti strategici e sono presi dalla paura. Passano di bocca in bocca (come sempre in questi casi) voci incontrollate: stanno per arrestare don Bosco, chiuderanno l'Oratorio, ci metteranno in prigione. Don Bosco gioca pesante su questo stato emotivo dei suoi ragazzi: «Bella impresa! Con uno squadrone di guardie, venite a spaventare centinaia di ragazzini!».
Don Alasonatti, economo incaricato della posta in arrivo e in partenza, confida a don Bonetti con candida semplicità: «Fra tutte le lettere che don Bosco riceve in questi giorni, può darsi che qualcuna tratti di politica in senso contrario al Governo, e disapprovi l'annessione della Romagna. Un simile scritto... basterebbe a dare pretesto a costoro di usarci violenza».
La perquisizione si svolge in maniera minuziosa. Nel cestino della carta di don Bosco si trova una lettera con francobollo dello Stato Pontificio. Nell'ufficio della direzione si trova un «breve» autografo del Papa Pio IX che loda l'opera salesiana. Ma niente di più. Don Bosco, con ironico umorismo, guida gli ispettori a scoprire le
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fatture non pagate del panettiere e del macellaio. Anche la Gazzetta del Popolo deve riconoscere il fallimento dell'ispezione: «Il fisco ha proceduto ad una perquisizione al noto don Bosco, direttore di una nidiata di baciapile in Valdocco; si dice che nulla siasi trovato di compromettente» (31 maggio 1860).
Un grosso tino vuoto: contiene fucili?
Quattordici giorni dopo, l'ispezione viene ripetuta all'improvviso. Una nuova «soffiata» deve aver fatto tornare a Valdocco con più decisione i tre funzionari. Don Bosco è assente. Don Alasonatti, sottoposto a pesante interrogatorio, è preso dall'affanno e sviene. Fortunatamente don Bosco è rintracciato in città, torna e può prendere in mano la situazione.
Ha parole durissime per i modi usati fin lì, e ottiene formali scuse. Ottiene pure che vengano allontanate dalla casa le guardie che impauriscono i giovani.
Poi si fa elencare con precisione le accuse: detenzione di gran quantità di denaro inviato dal Papa e dai principi deposti dai piemontesi, detenzione di armi, contatti con il Papa per congiurare contro il Governo.
I tre ispettori visitano minuziosamente le scuole, la cucina, le camere da letto, i laboratori, la cantina. Qui un grosso tino vuoto attira l'attenzione (potrebbe contenere fucili). Ciò che però colpisce don Bosco è l'ispezione scolastica: con domande capziose cercano di impaurire i ragazzi, di scoraggiare i maestri. Don Bosco capisce che chi li ha mandati non crede tanto in fantomatici depositi di denaro e di armi, ma vuole mettergli paura, vuole «impartirgli una lezione».
I risultati sono zero, come nell'ispezione numero uno. Ma don Bosco non è tranquillo.
Sette ore di anticamera
In data 12 giugno indirizza una lunga lettera al ministro degli Interni, Luigi Farmi. Tra l'altro scrive: «Sono sempre stato rigorosamente estraneo alla politica; non mi sono mai mischiato né pro né contro alle vicende di attualità del giorno... Questo ho stimato di fare, nella persuasione che un sacerdote possa sempre esercitare il pio ministero di carità verso il suo prossimo in qualsiasi tempo e luogo, e in mezzo a ogni specie di governo». Ma i giornali continuano ad attaccare don Bosco. «I perversi - scrive don Bonetti - andavano ripetendo le loro calunnie, stimolando il Governo contro di noi. Era quindi a temersi che un giorno o l'altro questo ordinasse la chiusura del nostro Ospizio e la nostra dispersione». Don Bosco è inquieto, e cerca ostinatamente un incontro a tu per tu con il ministro dell'Interno.
Lo ottiene solo per il 14 luglio (Garibaldi e i suoi «Mille» hanno conquistato Palermo e stanno occupando tutta la Sicilia). Vi si reca accompagnato dal chierico Giovanni Cagliero, e gli confida: «Quei signori del Ministero hanno una gran voglia di distruggere l'Oratorio, ma non ci riusciranno. Hanno da fare con chi è più potente di loro, con la Beata Vergine che disperderà i loro consigli».
Fanno sette ore di anticamera. Poi viene loro detto che l'udienza è rimandata al giorno dopo. Don Bosco torna, accompagnato questa volta dal chierico Giovanni Battista Francesia. Il ministro Farini lo riceve. Senza troppi giri di parole gli dice: «Fino a quando la Signoria Vostra si è occupata di poveri fanciulli, fu sempre l'i- dolo delle autorità governative; ma da che lasciò il campo della carità per entrare in quello della politica, noi dobbiamo stare all'erta, anzi tenere d'occhio ogni suo passo». Ed elenca seccamente i «fatti» addebitati a don Bosco. Non denari ammassati in cantina né fucili stivati in tini vuoti, ma «le corrispondenze coi nemici della patria... Le relazioni politiche coi Gesuiti, con Fransoni e col Cardinale Antonelli».
Don Bosco reagisce a muso duro. Non nega le relazioni, ma le giustifica come cose normali per un prete fedele ai suoi Superiori:
«Dei Gesuiti in Torino ignoro persino la dimora. Con mons. Fransoni e con la Santa Sede non ho mai avuto altre relazioni fuori di quelle che un sacerdote deve mantenere coi suoi Superiori ecclesiastici, per quelle cose che spettano al sacro Ministero».
A tu per tu con Cavour
A questo punto, scrive don Bonetti, nell'ufficio di Farmi entra «per caso» il Presidente del Consiglio, Camillo Cavour. Don Bosco gli è stato amico per molto tempo, ha avuto da lui protezione. «Signor Conte - gli dice - quella casa di Valdocco che fu da lei tante volte visitata, lodata e beneficata, la vogliono distruggere».
«Si dia pace, caro don Bosco - risponde Cavour -. Noi due siamo sempre stati amici. Lei però è stato ingannato, caro don Bosco, e taluni abusando del suo buon cuore l'hanno tratto a seguire una politica che conduce a tristi conseguenze».
Cavour e don Bosco capiscono benissimo di cosa stanno parlando. Ognuno «sa che l'altro sa», ma hanno interesse a sfiorare soltanto l'argomento. Il Conte non può parlare apertamente delle trame segrete che, mentre Garibaldi avanza nel Sud, sta ordendo nell'Italia centrale a danno del Papa; e il prete non può dire apertamente che conosce queste trame e che è suo dovere di coscienza mettere sull'avviso chi può averne gravissimo danno.
Dopo lunghi giri di parole e discussioni bizantine, don Bosco cala la carta pesante che, presa o lasciata, significherà vita o morte per la sua opera: «Crede il signor Conte che don Bosco sia un cospiratore, un nemico della patria?». Cavour lascia, e impegnando anche il suo ministro dell'Interno salva l'Oratorio: «No. Io ho sempre visto in lei un galantuomo. E perciò intendo fin d'ora che tutti i suoi guai siano finiti, e lei sia lasciato in pace» (CL, p. 625).
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Un foglietto e tante trame
Un decisivo fascio di luce sui sottintesi di questa vicenda l'ha gettato Francesco Motto, nello spoglio sistematico dei fondi dell'Archivio Segreto Vaticano. Egli ha potuto «ricuperare un inedito autografo di don Bosco, tanto inatteso quanto importante per la storia... Si tratta di un semplice foglietto di sole due facciate, privo di data», ma scritto nel gennaio 1859. Don Bosco scrive al Papa: «Cavour manifesta buona volontà... Ma è circondato da gente trista che lo trascina chissà dove... Approfitto... per dire a V. Santità una cosa che mi preme. Da alcuni scritti che potei avere tra le mani ho ripetutamente saputo che alcuni malevoli vorrebbero far centro a Civitavecchia, ad Ancona e a Roma. Lo scopo sarebbe di promuovere idee rivoluzionarie pèr porle in pratica sul finire di marzo» (MOTTO, volume in corso di stampa).
Tra i politici che a Torino si proclamano fedeli al Papa, don Bosco ha molti amici. Essi sono a conoscenza delle tante trame che si ordiscono per strappare al Papa lo Stato Pontificio. Sanno per esempio (oggi è scritto sui libri di storia) che Massimo d'Azeglio, nel febbraio 1859, è andato a Roma per portare al Principe di Galles il collare dell'Annunziata a nome di Vittorio Emanuele Il. Sotto questa «copertura», ha ricevuto da Cavour la missione segreta di promuovere e organizzare la sollevazione dell'Italia centrale contro il Papa. Sanno pure che La Farina ha organizzato una vasta rete di comitati pronti a sollevarsi contro il Papa al grido di «Viva l'Italia e Vittorio Emanuele».
Don Bosco riceve molte confidenze su questo stato di cose, ed esortazioni a farle conoscere «a chi di dovere». Come prete fedele al Papa si sente obbligato in coscienza a informarlo attraverso persone fidate in viaggio per Roma (canonico Sossi, marchese Scarampi), o attraverso la «valigia diplomatica» dell'abate Tortone, incaricato d'affari della Santa Sede presso il governo di Torino.
Ha fatto così giungere al Papa il biglietto nel gennaio 1859, una lunga lettera datata 9 novembre 1859 in cui stigmatizzava il comportamento del governo piemontese nella Romagna (la lettera per cui temeva il candido don Alasonatti?), e un'altra lettera datata 23 aprile 1860.
Talpe in Vaticano
Se don Bosco aveva a Torino dei politici amici e fedeli al Papa, il Governo piemontese aveva di certo qualche «talpa» negli uffici romani. Di qui, con ogni probabilità, partì la segnalazione che don Bosco «si intrigava di politica e faceva opera di spionaggio». Scattarono le perquisizioni.
I frequenti accenni a «relazioni con il Cardinale Antonelli» spingono a credere che Farmi e Cavour conoscessero gli scritti di don Bosco inviati a Roma.
Nelle mani di un rigido come Farmi, essi potevano significare la chiusura dell'Oratorio (e don Bosco lo temette). Nelle mani di Cavour, no. Al «grande volpone» sembrava più opportuno che il velo della discrezione coprisse opportunamente tutto: i messaggi di don Bosco, e le sue missioni segrete affidate a d'Azeglio e a La Farina. Se si doveva accusare qualcuno di congiura e di spionaggio, questo «qualcuno» non poteva essere solo don Bosco.
Il conte fece quindi capire al prete di Valdocco che sapeva tutto, ma gli riconfermò la fiducia. Per lui don Bosco rimaneva un bravo prete: fedele ai giovani poveri e fedele al Papa. (Si poteva pretendere da un bravo prete di non esserlo?).
E poi, il Conte sapeva che altri avvenimenti colossali erano nell'aria. Conquistata la Sicilia, Garibaldi sarebbe passato nella Penisola e sarebbe salito velocemente a Nord. Con il pretesto di fermarlo, nei prossimi due mesi Marche e Umbria (la parte più cospicua dello Stato Pontificio) sarebbero state occupate dall'esercito piemontese. E non sarebbero bastati i «foglietti» di don Bosco ad arrestare l'armata del re.
55. Tra politici e vescovi esiliati
Una mazzetta ad ogni parlamentare
Don Bosco conosceva i politici.
Era salito innumerevoli volte ai loro uffici, chiedendo un sussidio e offrendo una preghiera e una benedizione. Tra frasi di cortesia e frettolosi congedi, aveva avuto modo di valutarli come persone.
Nel 1857, gravato di debiti per 60 mila lire (250 milioni circa del 1986), aveva inventato una nuova lotteria, e aveva mandato a tutti i deputati e i senatori (clericali, moderati e mangiapreti) una mazzetta di 20 biglietti a mezza lira l'uno. Interessante leggere i suoi veloci appunti accanto al nome di ognuno.
Il maggiore Raffaele Cadorna (futuro conquistatore di Roma e padre di Luigi Cadorna, generalissimo della Prima Guerra Mondiale) rifiuta tutti i biglietti. Lorenzo Valerio, un solenne mangiapreti, li accetta e li paga. Così il marchese di Beaugerard, vecchio istitutore di Carlo Alberto. L'avvocato Angelo Brofferio, altro illustre mangiapreti, gli manda due lire e gli restituisce 17 biglietti. I famosi Terenzio Mamiani e Lorenzo Pareto accettano e pagano. Il conte Tahon di Revel (al quale don Bosco, per l'esplicito impegno cattolico, ha rifilato 50 biglietti) manda dieci lire e rimanda trenta biglietti. Il generale La Marmora, ministro della Guerra che ha arrestato personalmente l'Arcivescovo Fransoni, paga quaranta biglietti e manda parole di elogio per chi «promuove il vantaggio morale della gioventù abbandonata». Il ministro dell'Interno Rattazzi, l'estensore della «legge sui frati» che ha soppresso 35 ordini monastici in Piemonte (ma che in quello stesso anno suggerirà a don Bosco la maniera «sicura» per fondare i Salesiani), paga 200 lire per 400 biglietti, e rimanda i biglietti stessi perché don Bosco li possa vendere una seconda volta. E accompagna il tutto con alcune righe di suo pugno: «Scorgendo nella lotteria che si sta attuando un nuovo tratto di quella filantropica carità, che sì
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eminentemente distingue il sig. don Bosco, la prego di ricevere i bigletti stessi e il dono che il ministro fa, siccome novella prova dell'interessamento che il medesimo prende all'incremento dei medesimi». Su 124 deputati e senatori, 73 accettano, 51 respingono. (ST 3,99; 420s).
Quando i ministri scherzarono con don Bosco
Anche i politici (come già si può dedurre dalle righe precedenti) conoscevano don Bosco.
Il ministro di Grazia e Giustizia Paolo O. Vigliani, dopo la conquista di Roma (1870), nel momento forse più aspro del contrasto tra Stato e Chiesa, gli scrive: «(...)se tutto il Clero fosse animato dai prudenti e moderati di lei sentimenti, in tutto degni di un virtuoso Sacerdote e di un buon suddito, Ella ed io saremmo ben presto consolati da buoni frutti di reciproca condiscendenza se non di vera conciliazione nelle cose della Chiesa in relazione collo Stato. Faccia Ella adunque una savia propaganda e operi quel miracolo che alcuni fin troppo diffidenti proclamano impossibile. Il cielo continui a benedire e prosperare le molte di Lei opere di carità e La conservi al bene della Chiesa e anche dello Stato» (cit. in MOTTO, Ricerche Storiche Salesiane, gennaio- giugno 1987, p. Ss).
Don Bosco commenta: «Il ministro Vigliani aveva con me una straordinaria confidenza... sebbene sapesse che io ero più papalino del Papa» (MB 12,422).
Anche il ministro Menabrea, che l'aveva invitato a Firenze «per affari», si sente dire da lui: «Sappia, Eccellenza, che io sono in ogni cosa col Papa» (MB 9,483).
Nel 1876 va al governo la «sinistra» di Depretis, Zanardelli, Crispi. Nelle relazioni tra Stato e Chiesa essa è ancora più dura dei governi precedenti. Ma con i leaders della sinistra, proprio nei primi mesi di governo, don Bosco ha un'occasione unica, straordinaria per conversare e farsi conoscere: l'inaugurazione della ferrovia Torino-Ciriè-Lanzo.
L'evento, oggi, sembra modesto. Non si riesce quasi a credere che per quell'esiguo tronco ferroviario si spostassero da Roma il primo ministro Depretis, il ministro degli Interni Giovanni Nicotera, quello dei Lavori Pubblici Giuseppe Zanardelli, molti senatori, deputati e notabili. Ma essi credevano ancora al grande progetto finanziario inglese-francese-italiano di fare della nostra Penisola il percorso più vantaggioso per le merci in viaggio dall'Oriente: Suez, porto di Brindisi, ferrovie italiane, galleria del Frejus, strade ferrate francesi. Torino, secondo quel progetto, doveva acquistare una posizione preminente, come ultimo scalo italiano prima del Frejus e quindi nodo internazionale d'importanza nevralgica. Le valli che convergevano su Torino venivano di colpo ad acquistare importanza come serbatoi alimentatori della grande via internazionale.
Mentre tuttavia maturava questo progetto, furono varati i primi piroscafi a vapore, che soppiantarono le navi a vela e resero i trasporti marittimi più vantaggiosi di quelli ferroviari. E la ferrovia Torino-Ciriè-Lanzo divenne un tronco secondario, senza molta importanza.
Ma il 6 agosto 1876 tutto questo non è ancora prevedibile, e a Lanzo, per l'inaugurazione, sale la crema della politica nazionale. Il vicario di Lanzo, teologo Federico Albert, spruzza d'acqua santa la locomotiva, e subito dopo i politici salgono al Collegio da dieci anni affidato ai Salesiani di don Bosco. Sulla porta, i collegiali e la banda di Valdocco danno un fragoroso benvenuto. Segue il ricevimento.
Più peccatore il ministro degli Interni o quello dei Lavori Pubblici?
Per più di un'ora don Bosco siede in mezzo ai ministri, parla e scherza con loro. Il senatore Ricotti proclama che don Bosco è una gran brava persona, ma ha due punti neri: fa troppi preti e troppi professori. Poi il deputato Ercole mette tutti a disagio chiedendo a don Bosco se è più peccatore Nicotera (quel giorno straor- dinariamente loquace) o Zanardelli (taciturno e sofferente). Attorno al quesito imbarazzante, si accende una schermaglia di battute spiritose. Don Bosco se la cava dicendo che «le apparenze molte volte ingannano», e che «io credo siano galantuomini».
Quando la festa è finita, don Bosco dice ai suoi Salesiani: «Noi abbiamo un detto evangelico: Date a Cesare quello che è di Cesare. E anche questo va eseguito. Non abbiamo fatto altro che prestare ossequio ad autorità costituite. Di più, abbiamo ottenuto, io spero, qualche altro vantaggio. Credo che coloro non saranno più del tutto nemici acerrimi dei preti. Essendosi accorti che li trattavo col cuore, si persuaderanno facilmente che molti preti altro non desiderano se non il bene di tutti. Io credo che in punto di morte avranno tutti il desiderio di avere un prete accanto al loro letto» (MB 12,423ss; STELLA in «Stampa Sera» 9.8.1976, p. 3).
Il fatto che don Bosco conosca i politici, che i politici conoscano lui, e che il Papa fin dal primissimo incontro provi nei suoi riguardi una stima eccezionale, mette il prete di Valdocco nelle condizioni ideali per diventare un mediatore privato, fidato, silenzioso in anni difficilissimi tra Chiesa e Stato.
Francesco Motto, che ha studiato questo periodo con la pazienza di uno «speleologo di archivi», scrive: «Lasciò ad altri il compito principale della lotta aperta, (...) della difesa ad oltranza (...). Optò per salvare il salvabile, al di là delle divergenze di principio». E ancora: «La forza della sua politica fu quella di non fare politica», cioè di cercare il bene della gente con umiltà, lealtà, senza sotterfugi, al di là di ogni puntiglio» (MOTTO, volume in corso di stampa).
Carcere, deportazione, esilio per 79 vescovi
La conquista degli Stati Pontifici spinse moltissimi vescovi e parroci a protestare nelle lettere pastorali e dai pulpiti. L'estensione ad ogni regione conquistata o annessa al Regno d'Italia della «legge Rattazzi» (che sopprimeva gli ordini religiosi e ne incamerava i beni) rinnovò il coro furente delle proteste. Sui pulpiti e nelle
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lettere vescovili il Governo era definito «una banda sacrilega di ladroni».
La reazione dello Stato non si fece attendere.
Nel Nord venne imprigionato il vicario capitolare di Milano e oltraggiati i vescovi di Bergamo e di Brescia. Nell'Italia centrale furono sottoposti a processo e condannati al carcere o alla deportazione il cardinale Corsi di Pisa e i vescovi di Parma, Piacenza e Guastalla. Fu incarcerato il vicario generale di Bologna. Il cardinale De Angelis di Fermo fu arrestato e condotto a Torino. Altri due cardinali, Antonucci di Ancona e Morichini di Iesi, furono confinati nelle loro ville. Altri otto vescovi furono molestati.
Nell'Italia meridionale furono incarcerati o allontanati dalle loro sedi ben sessanta vescovi (cfr. MASSÉ, Il caso di coscienza del Risorgimento italiano, pp. 342 s).
Un vescovo in esilio all'Oratorio
Nel maggio 1866 i ragazzi di Valdocco videro arrivare all'Oratono il vescovo di Guastalla, mons. Pietro Rota. Era stato deportato a Torino in domicilio coatto «per trame politiche contro il regno d'Italia». Don Bosco gli andò incontro con la berretta in mano, e non sapeva cosa fare: come ricevere un vescovo? Ma mons. Rota lo tolse d'imbarazzo dicendo: «Lei non accoglie poveri e abbandonati? Eccone qua uno. Mi consideri un povero orfano e mi dia un po' di ricovero come lo darebbe ad uno di essi». Si contentò di una piccola stanza. «Destava la nostra meraviglia - ricorda don Bonetti - vederlo ogni otto giorni confessarsi da don Bosco in sacrestia, mettersi in ginocchio in fila con i giovani, aspettando il suo turno. La prima volta tutti vollero cedergli il posto, ma lui si mise in un angolo e stette là immobile aspettando finché tutti si furono confessati».
Rimase fino a ottobre, quando poté tornare alla sua diocesi. All'Oratorio non stava in ozio. Spendeva il suo tempo confessando, facendo catechismo, andando a dare la Cresima. Tornato a Guastalla, ringraziò pubblicamente don Bosco con una lettera all'Unità Cattolica di Torino. Eccola: «Non posso e non debbo ta- cere quell'uomo incomparabile, che mi accolse in casa sua, mi fu generoso e mi usò delicati riguardi, mi edificò con il suo zelo e i prodigi della sua carità, che opera in quel suo Oratorio. Quei sette o ottocento giovinetti, per lo più levati dalla miseria, che vengono educati alle lettere e alle arti, e quel che più importa al santo timor di Dio, quei sacerdoti e chierici, che dedicati all'educazione di questi fanciulli, vivono una vita più dura di quella dei virtuosi claustrali (= monaci), quella Casa che accoglie una sì sterminata famiglia... si possono chiamare, specialmente in questo secolo e in questi anni, prodigi di don Giovanni Bosco» (cfr. CL 730 s).
In questi anni tristi, invitato dal Papa e dal Governo, don Bosco iniziò la sua azione mediatrice. Non fu il solo né il principale lavoratore per la pace tra Stato e Chiesa. Ma la sua parte la fece tutta. E lavorò non come il «Garibaldi del Vaticano», come lo definì qualche giornale in vena di ironia anticlericale, ma come una formica instancabile che si dà da fare per salvare il salvabile nel formicaio terremotato dalla bufera.
A questa azione importante di don Bosco, sconosciuta agli storici e in parte negata finora anche negli ambienti salesiani, Francesco Motto ha dedicato ottanta pagine di serrata iridagine storica, dopo un lunghissimo e paziente lavoro all'Archivio Segreto Vaticano. Dalle minuziose e aride citazioni incrociate emerge la trama del lavoro silenzioso di don Bosco. Dopo aver letto lo studio di Francesco Motto ne condenso i tratti salienti.
56. Vescovi per l'Italia
Missione Vigezzi
Con un titolo ad effetto, La passione di Cristo nella sua Chiesa, nell 8641 l’Unità Cattolica offriva ai suoi lettori questo quadro della Chiesa italiana: vescovi processati e riconosciuti innocenti, 13; vescovi trascinati a Torino, fra cui i cardinali di Pisa e Fermo, 5; vescovi morti di dolore, 16; vescovi in esilio, tra cui i cardinali di Napoli e Benevento, 43; vescovi eletti che non possono prendere possesso delle loro sedi, 16.
Un giornalista della Perseveranza, di Milano, si domandava annoiato: «In fin dei conti, a chi importa che le diocesi siano vuote di vescovi?». «Don Bosco non avrebbe esitato a rispondere - scrive Motto -: a me, e come me a tutti coloro cui sta a cuore la salvezza delle anime». Diocesi senza vescovo volevano dire seminari allo sbando, parrocchie senza direttive, giovani preti disorientati, iniziative cattoliche in progressiva disgregazione. Nell'estate del 1864, superando ogni risentimento personale, il Papa invita personalmente Vittorio Emanuele Il ad aprire trattative su questa questione spinosa ma vitale.
Il primo invito a don Bosco a mettersi in contatto col governo arriva da parte del Papa nel febbraio 1865. Deve vedere se è possibile sciogliere il nodo delle 9 diocesi in Piemonte e delle 8 in Sardegna che sono senza vescovo. Mediatore ufficiale del governo italiano è Saverio Vigezzi. D'accordo con lui e con don Manacorda (altro uomo di fiducia di Pio IX), don Bosco ha contatti con il primo Ministro La Marmora e il ministro dell'Interno Lanza.
Dopo cinque mesi di caute trattative «l'unico risultato che si ottenne - scrive Motto - fu la condiscendenza di massima del governo italiano al ritorno in sede dei vescovi assenti». Di quelli, cioè, che non erano stati condannati. Non fu un risultato da poco.
Missione Tonello
Nel 1866 si combatté la terza guerra d'indipendenza. «Il costo totale può essere avvicinato ai 600 milioni», scrive Clough (o. c. p. 56). Cioè circa 1500 miliardi del 1986.
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Bettino Ricasoli, tornato ad essere primo Ministro, scriveva all'amico Bon Compagni: «Io do opera al ritorno presso le loro famiglie di coloro che per ragioni politiche ne furono allontanati. Se ciò faccio per i laici, potrei non farlo per i vescovi? Chi potrebbe giustificare una così grande ingiustizia, se i vescovi, i vescovi solo fossero tenuti lontani dalle loro diocesi? Quindi è ch'io ho cominciato a togliere di mezzo gli ostacoli al loro ritorno».
C'era tuttavia un punto dolente e insuperabile: i vescovi dovevano giurare fedeltà a uno Stato che la Santa Sede considerava «usurpatore».
Il Papa, conosciute le buone intenzioni di Ricasoli, fece sapere che era disposto a ricevere «a braccia aperte» qualsiasi persona gli venisse inviata per trattare.
Il 10 dicembre il governo italiano incaricò di questa nuova missione il prof. Michelangelo Tonello.
«Negli stessi giorni in cui a Roma si avviavano i colloqui bilaterali - scrive Motto - don Bosco partì alla volta di Firenze. (...) Bettino Ricasoli lo invitò a Palazzo Pitti... È ragionevole supporre che il presidente del consiglio non fosse all'oscuro sia dei passi compiuti da don Bosco al tempo della missione Vigezzi, sia dell'«entratura» dell'educatore di Torino presso gli ambienti vaticani. Pertanto si può arguire che il Ricasoli abbia pregato don Bosco di operare affinché da parte della curia vaticana (ci fosse) un'attenuazione della rigidità degli schemi mentali». Il compito affidato a don Bosco era «rimuovere tensioni, recuperare consensi, ridurre contrasti e timori»... «Niente più stava a cuore (a don Bosco)... Accettò l'invito del Ricasoli... per la provvista di vescovi alle sedi vacanti».
Il viaggio a Roma di don Bosco (durato due mesi: gennaio e febbraio 1867) è descritto da un pittoresco volumetto di don Francesia. Ma Motto lo prende raramente in considerazione per affidarsi ad una documentazione più rigorosa.
«Don Bosco giunse a Roma e prese alloggio in casa del conte Vimercati. Lo attendeva un terribile "tour de force" fatto di visite, predicazioni, confessioni, benedizioni ad ammalati, colloqui a tutti i livelli... Aveva portato con sé numerosi documenti in vista della sospirata approvazione della Società salesiana».
La sua borsa e quella del suo segretario, don Francesia, contenevano quegli strani passaporti con cui don Bosco entrava dovunque: le mazzette di biglietti della lotteria in corso, per finanziare la chiesa di M. Ausiliatrice (di cui parlerò nel capitolo 58). In quanti ambienti politici riservati, don Bosco entrò esibendo quelle mazzette, e deviando così i curiosissimi occhi dei giornalisti?
«Il Tonello e don Bosco fecero di tutto per nascondere i loro contatti personali al punto di evitare di rivolgersi la parola incontrandosi in città e fin sugli scaloni dei palazzi vaticani».
Accenno agli avvenimenti principali.
Don Bosco arriva a Roma l'8 gennaio, dopo un faticoso viaggio di 30 ore in ferrovia. Incontra subito Tonello, preavvertito da un telegramma di Ricasoli: «Vedete di intendervi con don Bosco». «Probabile che già in questo primo abboccamento (To-nello) abbia sottomesso al parere di don Bosco tanto la lista di nomi di eleggibili all'episcopato inviatagli da Firenze il 2 gennaio, quanto la nota delle diocesi da prendere in immediata considerazione».
Il giorno 9 don Bosco è ricevuto in udienza dal Cardinale Segretario di Stato, Antonelli. Il giorno 10 Tonello e Antonelli si incontrano. Sono d'accordo su tutto, eccetto sui particolari che implicano il riconoscimento del governo italiano da parte della Santa Sede. Discussioni bizantine a non finire.
Il giorno dopo, don Francesia porta in Vaticano una lettera di don Bosco. Nei giorni successivi don Bosco incontra Tonello, il cardinale segretario di Stato ed è ricevuto dal Papa.
Il compromesso raggiunto stentatamente viene comunicato al governo di Firenze, che il 29 gennaio comunica la sua accettazione.
Comincia il «balletto» delle assegnazioni. Ogni nome deve corrispondere a una diocesi. Ma l'abbinamento deve essere gradito al governo, alla Santa Sede e all'interessato. Una specie di parole crociate a schema libero. In questo gioco «ecco don Bosco giocare le sue carte per rimuovere reciproche diffidenze, fugare sospetti, proporre soluzioni, ridurre le conseguenze di errori politici».
Ma il lavoro di don Bosco non si limita a favorire l'intarsio delle assegnazioni. «Alcuni giorni prima don Bosco aveva consegnato al card. Antonelli una lista di nominativi per le sedi vacan'ti, e questa lista era poi passata nelle mani di Tonello, indi a quelle... del Ricasoli... Prova sicura ne è che il Tonello scriveva: "Intanto (il card. Antonelli) mi comunicò una nota che qui unisco... di persone a giudizio della S. Sede proponibili a Sedi episcopali... Io ho ragione di ritenere, che la parte ditale nota riguardante il Piemonte sia stata suggerita dal sacerdote torinese don Bosco"».
Nella nota consegnata dal cardinale al Tonello, al secondo posto figura il «canonico Gastaldi di Torino».
Il 22 febbraio, in concistoro segreto, il Papa annuncia ben 17 nomine di Vescovi in Italia. Don Bosco lascia Roma cinque giorni dopo. «Non poté che gioire di tali nomine - annota Motto -. Sulle sue proposte avevano convenuto sia la Santa Sede che il governo di Firenze».
«Gli era di consolazione l'affetto del santo Padre, del card. Antonelli, di alti prelati romani e dei numerosi vescovi da lui proposti che sentirono il dovere, una volta consacrati e fatto il loro ingresso in diocesi, di ringraziarlo portandosi all'Oratorio di Valdocco. Da Aosta, da Saluzzo, da Alba, da Milano vari presuli si mossero per incontrarlo, al punto che - scriveva don Angelo Savio al cav. Oreglia il 14 giugno - "in pochi giorni abbiamo avuto nella casa dieci Vescovi"».
La breccia di Porta Pia
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L'ultimo contingente della guarnigione francese che aveva difeso Roma dagli ardori garibaldini e dai pretesti governativi s'imbarcò a Civitavecchia il 10 agosto 1870. Ora la città eterna si trovava indifesa davanti alle truppe italiane che si addensavano sui confini toscano-umbri. L'ultimo difensore di Roma, Napoleone III, era impegnato in una guerra mortale con la Prussia, e aveva bisogno di ogni suo soldato.
Dal 30 agosto al 2 settembre si combatté la battaglia di Sedan. I prussiani di von Moltke sbaragliarono il campo. Giunse la notizia che il 1° settembre lo stesso Napoleone era caduto prigioniero, e che l'impero di Francia era stato sostituito dalla Repubblica.
Il governo italiano impartì l'ordine al generale Cadorna di occupare Roma. Il Lazio fu occupato senza un colpo di fucile. Anche per Roma, Pio IX voleva che fosse accuratamente evitato ogni spargimento di sangue. Desiderava soltanto che la violenza con cui gli toglievano la sua capitale fosse documentabile davanti a tutti i cattolici del mondo. Per questo fece chiudere e interrare tutte le porte d'accesso.
Il generale Cadorna attese alcuni giorni perché all'interno di Roma avvenissero quelle «sollevazioni popolari» che avrebbero giustificato un suo intervento «pacificatore». Ma i Romani se ne stettero tranquilli. Nessuna ribellione al Papa, nessun delirio per Vittorio Emanuele. E allora Cadorna mise in azione i cannoni.
Il primo colpo fu sparato alle 5,15 del 20 settembre. Fu abbattuto un tratto di mura presso Porta Pia, e per questa «breccia» entrarono i bersaglieri. Sul cupolone di S. Pietro Pio IX fece issare la bandiera bianca di resa. Dopo più di mille anni la Roma papale cessava di esistere.
Il 12 ottobre fu fatto il «plebiscito popolare». Fu favorevole (come sempre). Sette giorni dopo Vittorio Emanuele lo accettava, e annetteva Roma all'Italia. Il Papa dichiarò di «considerarsi prigioniero». L'impressione nel mondo fu enorme. Per numerosissimi nemici della Chiesa, e anche per moltissimi preti, quella sembrò l'ultima battaglia. Ma nella storia molte volte i preti combatterono «l'ultima battaglia», la persero, e la Chiesa continuò a vivere. Capitò così anche questa volta.
La questione dei Vescovi continuava. Alla Santa Sede ripugnava eleggere vescovi che dovessero giurare fedeltà al governo che aveva occupato Roma con la forza. Più ancora ripugnava che per entrare in possesso delle loro rendite, gli stessi vescovi dovessero sottoporre la loro elezione al controllo del governo. Ma lasciare numerose diocesi senza Vescovo era una tragedia.
L'ultima missione di don Bosco
Nel giugno 1871 il primo ministro Lanza invitò don Bosco a Firenze. Partì da Torino il giorno 28. Dopo due colloqui, seguiti entrambi da sedute del Consiglio dei Ministri, don Bosco proseguì per Roma dove fu quasi immediatamente ricevuto dal Papa.
Il 4 luglio don Bosco è di ritorno a Torino. «Il papa - scrive Motto - gli aveva dato l'incarico di compilare una lista di sacerdoti eleggibili all'episcopato, o, se vogliamo, di raccogliere informazioni sul conto di eventuali candidati. Don Bosco, allora, per via epistolare, si mise in contatto con vescovi, vicari generali e capitolari, singoli sacerdoti del Piemonte, della Liguria e di altre diocesi. Sul finire di agosto poi, radunò presso la villa della contessa Gabriella Corsi, a Nizza Monferrato, un certo numero di ecclesiastici. Si riprometteva di concordare le candidature che avrebbe segnalato alla Santa Sede».
Il 21 agosto Pio IX inviò una lettera personale a Vittorio Emanuele Il, in cui lo informava che avrebbe nominato entro breve tempo nuovi vescovi per le diocesi vacanti. Il re era a caccia in Valsavaranche, e il card. Antonelli fece giungere la lettera del Papa all'incaricato di affari della Santa Sede in Torino, abate Tortone, con l'invito «a concertare con don Bosco il modo più spedito e conveniente perché il foglio medesimo giungesse con sicurezza nelle mani dell'alto Personaggio».
La lettera del Papa fu nelle mani del re il 31 agosto, e questi la trasmise al primo ministro Lanza. Per evitare di trovarsi davanti a liste «non concordate», Lanza telegrafò urgentemente al Prefetto di Torino: «Se Sacerdote don Bosco si trova costà, lo chiami a sé e lo preghi di recarsi al più presto a Firenze per conferire con me sopra affare a lui noto. Attendo risposta - G. Lanza».
Don Bosco stava presiedendo gli Esercizi Spirituali dei Salesiani a Lanzo Torinese. Don Berto, suo segretario, depose sotto giuramento al processo di canonizzazione:
«Mi invitò... ad accompagnarlo dal Prefetto di Torino... Tornato dall'udienza del Prefetto mi disse: - Sai di che cosa si tratta? Il Presidente del ministero Lanza mi chiama a Firenze... per trattare delle nomine dei Vescovi delle diocesi vacanti d'Italia... Pio IX mi ha espressamente comandato di trattare, e di preparargli una lista di Soggetti, che paressero opportuni. Veramente mi rincresce un poco partire questa sera stessa... irientre noi dobbiamo cominciare gli Esercizi Spirituali, e i Direttori delle varie case ne furono già avvisati. Ma il bene della Chiesa va messo innanzi a tutto, anche a quello della nostra Congregazione. Partirò stasera col treno delle sette, viaggerò tutta la notte, e domani mi troverò a Firenze al ministero».
Una riga che vale dieci anni di amarezze
«Da quanto ci è dato presumere, il presidente del consiglio dovette pregare don Bosco perché facesse pressioni sugli organi vaticani onde le elezioni episcopali cadessero su ecclesiastici moderati. (...) Don Bosco con sé aveva sicuramente la lista dei nomi dei sacerdoti sui quali aveva raccolto ottime referenze.(...) Avuta assicurazione circa la disponibilità governativa, don Bosco raggiunse direttamente Roma. (...)Fu ricevuto in udienza dal Pontefice e dal Card. Segretario di Stato. Riferì loro del risultato del suo colloquio fiorentino con il Presidente del consiglio... Assicurano le Memorie Biografiche che don Bosco sottopose all'attenzione del Papa una lista di nomi e che con lui fissò le sedi cui inviare ciascun neo-eletto.(...) L'archivio segreto vaticano
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ci ha restituiti intatti 4 preziosi fogli autografi di don Bosco. Vi si legge: "Ponderate bene le cose davanti al Signore, dopo aver fatto particolari preghiere mi sembra si possano proporre come modelli di vita pastorale: 1. Bottino Gio. Battista Teologo can.co della Metropolitana... 2. Fissore Celestino... (seguono altri 6 nomi, poi) Monsignor Gastaldi, vescovi di Saluzzo, dai buoni è desiderato a Torino per la sua scienza e pietà..."» (Motto). (Con quest'ultima riga don Bosco non sapeva di chiedere per sé dieci anni di amarezze. Eppure «aveva fatto particolari preghiere»...).
Il 13 settembre don Bosco era di ritorno a Torino.
Il 27 ottobre il Papa nominò 41 vescovi italiani, fra i quali Lorenzo Gastaldi per Torino e Celestino Fissore per Vercelli.
Nella sua Cronaca, don Berto afferma: «Tutte le elezioni che si fecero dei vescovi del Piemonte dal 1866 al 1872 si può dire che furono tutti individui proposti da don Bosco a Roma appena fatta qualche eccezione». Francesco Motto osserva che questa affermazione è inesatta per difetto. Innanzitutto don Bosco venne pure interpellato per sedi non piemontesi, «anche al di là del Ticino, oltre il Po e al di sotto dell'Arno». In secondo luogo, i documenti ritrovati provano che don Bosco influì sulla nomina di vescovi fino al 1885, per diocesi italiane e sudamericane.
Motto chiude il suo studio con una punta polemico-umoristica. Alcuni studenti salesiani di teologia del lontano 1953 (tra cui si distinse poi qualche non mediocre storico) contestarono a don Ceria, ultimo estensore delle Memorie Biografiche, la storicità dell'intervento di don Bosco sulla nomina dei vescovi.
«Ebbene - conclude Motto - alla luce dei risultati della nostra ricerca l'obiezione non ha più ragion d'essere... Non si può non rimanere piacevolmente sorpresi di fronte alla sostanziale attendibilità storica di quanto i compilatori (delle Memorie Biografiche) hanno saputo ricostruire circa l'argomento oggetto della nostra indagine... Non solo non hanno asserito il falso... Ma il vero da loro raccontato o ipotizzato è effettivamente riduttivo della consistenza della pagina di politica ecclesiastica che don Bosco ha scritto nella concitatissima seconda metà del secolo XIX».
Dieci anni di amarezze
Intanto a Torino, tra il nuovo Arcivescovo e don Bosco (fino a quel momento amici fraterni), era scoppiata una dolorosissima e lunga incomprensione. Dal 1871 al 1883 si arrivò fino alla sospensione di don Bosco dalla facoltà di confessare e a un processo criminale intentato da Gastaldi contro di lui presso la Santa Sede. I motivi della faccenda delicata e intricata possono essere ristretti a tre.
Don Bosco credette di avere in Gastaldi (che aveva segnalato a Pio IX come «desiderato a Torino») un amico e «protettore» della sua nascente Congregazione. L'Arcivescovo vide invece in certi suggerimenti e richieste dell'amico un attentato alla sua «unica e suprema autorità». «Non voglio fare a Torino il vicario di don Bosco!» disse seccamente al teologo Belasio nel 1876. Fu un eccellente organizzatore della sua diocesi, ma nella sua marcata suscettibilità non volle addosso nemmeno l'ombra di un'eminenza grigia.
Era inoltre seriamente preoccupato della «indisciplina» che notava nella Congregazione Salesiana nascente. Vedere i chierici in veste nera giocare nei cortili polverosi coi ragazzi, non vedere un noviziato regolare né corsi di studi severi e regolarissimi, lo riempiva di ansietà. Egli che aveva trasformato il suo seminario in un quasi-monastero, era «disgustato dal fervore vulcanico dell'Oratono e della Società Salesiana, ch'era tenuta saldamente in pugno da don Bosco, ma che a estranei poteva apparire un complesso clamoroso e caotico di forze disorganizzate» (P. Stella).
La questione più lacerante fu poi la pubblicazione in Torino (dal 1877) di alcuni volumetti anonimi contro Gastaldi. Per imprudenti parole di un ex-gesuita, padre Pellicani, don Bosco fu creduto dall'Arcivescovo autore dei libretti e citato in processo criminale presso la Santa Sede. Leone XIII intervenne di persona a bloccare il processo e a dettare una «concordia». In parole povere, don Bosco doveva domandare perdono all'Arcivescovo, e questi concedere il perdono. Implicitamente, don Bosco doveva riconoscersi autore dei libretti infamanti. Don Bosco obbedì con una ripugnanza infinita. Solo in una lettera segreta alla Santa Sede, nell'ottobre 1895 (sette anni dopo la morte di don Bosco), il prete diocesano Giovanni Turchi riconobbe se stesso e il gesuita padre Ballerini come autori dei volumetti anonimi (sbloccando tra l'altro lo svolgimento della beatificazione di don Bosco, ferma davanti a quei libretti).
57. Don Bosco moltiplicatore
Francesco e le 400 pagnotte
Francesco Dalmazzo era un ragazzino di famiglia benestante. A 15 anni, da Cavour, l'avevano mandato a frequentare le scuole di Pinerolo. I voti erano ottimi. Nella scuola lesse alcuni fascicoli delle Letture Cattoliche scritte da don Bosco, e domandò affascinato chi fosse quel prete. Gli risposero che aveva fondato a Torino un ospizio per giovanetti. Allora decise di andarci anche lui.
«Entrai come alunno nell'Oratorio il 22 ottobre 1860». Sentì parlare di don Bosco come di un santo, che «faceva cose straordinarie e miracolose».
Ma se c'era una cosa non miracolosa, all'Oratorio, era il cibo. «Dopo pochi giorni..., assuefatto a casa mia ad un vivere delicato, non potevo adattarmi al vitto troppo modesto... Quindi scrissi a mia madre che venisse a riprendermi, perché volevo assolutamente tornare a casa. Il mattino destinato per la partenza, desideravo confessarmi ancora una volta da don Bosco. Andai in coro ove egli confessava in mezzo ad una accolta di
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giovani, che lo circondavano da ogni parte... Dopo la S. Messa a ciascuno dei giovani veniva distribuita per colazione una pagnottella».
Per tre volte, mentre attende di confessarsi e mentre si confessa, Francesco vede arrivare due garzoni incaricati della distribuzione del pane. Interrompono don Bosco che confessa, e dicono e ripetono e che pane non ce n'è, che il panettiere non ne vuol più dare perché nessuno lo paga. Alla fine don Bosco dice ai garzoni di mettere le pagnotte disponibili in un canestro, che lui stesso le avrebbe distribuite alla porta.
«Innanzi alla soglia stava già il canestro - racconta Francesco -. Io allora, riandando nella mente i fatti miracolosi uditi sul conto di don Bosco, lo precedetti... Uscendo incontrai la madre mia venuta a prendermi... Le feci cenno di aspettare un momento e soggiunsi:
- Mamma, prima voglio vedere una cosa e poi vengo subito -. E la mamma si ritirò sotto i portici -. Io presi una pagnotta per primo e intanto guardai nel cesto e vidi che conteneva una quindicina di pani o una ventina al più. Quindi mi collocai inosservato proprio dietro a don Bosco... con tanto di occhi aperti. Don Bosco intanto si era accinto a fare la distribuzione del pane. I giovani gli sfilavano davanti..., mentre a ciascuno egli diceva una parola o dispensava un sorriso.
Tutti gli alunni, circa quattrocento, ricevettero il loro pane. Finita la distribuzione io volli di bel nuovo esaminare la cesta del pane, e con mia grande ammirazione costatai essere rimasta nel canestro la stessa quantità di pane, quanta ne era prima, senza che fosse stato recato altro pane o mutato il cesto. Io restai sbalordito, e corsi diffilato presso a mia madre, la quale replicava: - Vieni! -. E io senz'altro le risposi: - Non vengo più; non voglio più andar via; resto qui...-. Quindi le raccontai quello che avevo veduto cogli stessi miei occhi, dicendole: - Non è possibile che io abbandoni una casa così benedetta ed un sant'uomo come Don Bosco.
E fu questa la sola cagione che mi indusse a restare nell'Oratono e in seguito ad aggregarmi tra i suoi figliuoli» (MB 6,776ss).
Francesco Dalmazzo divenne salesiano, prete, fu per otto anni direttore del collegio di Valsalice, e per sette Procuratore generale dei Salesiani presso la Santa Sede a Roma.
Dai primi salesiani, ai quali raccontava sbalordito la «moltiplicazione» a cui aveva assistito, sentì raccontare altre «moltiplicazioni prodigiose» operate da don Bosco.
Comunione e castagne cotte per 300 ragazzi
Giuseppe Buzzetti gli raccontò che nel 1848, durante una festa solenne, al momento di distribuire la Comunione a trecento ragazzi, don Bosco si accorse che nella pisside c'erano otto o nove ostie soltanto. Giuseppe serviva Messa, e quando don Bosco cominciò a distribuire l'Eucaristia si mise a sudare, perché vedeva crescere le ostie sotto le mani di don Bosco, finché bastarono per tutti.
Lo stesso Buzzetti gli raccontò che l'anno dopo, nel giorno dei morti, don Bosco tornò dalla visita al cimitero con trecento giovani affamati a cui aveva promesso le castagne cotte. Mamma Margherita ne aveva preparato solo una piccola pentola, ma don Bosco si mise a distribuirle lo stesso a grandi mestolate. Anche quella volta Giuseppe, lì accanto, sudava freddo, perché la pentola non si svuotava mai. Alla fine i giovani erano così pieni di meraviglia che molti stavano lì, con le castagne calde in mano, a guardare quella pentola «magica» da cui don Bosco pescava allegramente.
Don Bosco moltiplicava, Dio anche
Perché Dio fece di don Bosco un santo «moltiplicatore»? Mi provo a rispondere.
Il prete di Valdocco con un amore grande per Dio e per i suoi ragazzi, anno dopo anno moltiplicava tutto: il suo lavoro, i laboratori, le chiese, il numero dei ragazzi e degli orfani ospitati.
Pietro Stella, analizzando il registro « Anagrafe» ha calcolato il numero dei giovani accettati da don Bosco, e tra essi il numero degli orfani. Ecco i dati:
1854, 39 ospitati (8 orfani); 1855, 83 ospitati (19 orfani); 1856, 90 ospitati (25 orfani); 1857, 116 ospitati (40 orfani); 1858, 113 ospitati (32 orfani); 1859, 184 ospitati (44 orfani); 1860, 355 ospitati (84 orfani); 1861, 299 ospitati (69 orfani); 1862, 328 ospitati (70 orfani); 1863, 360 ospitati (83 orfani); 1864, 257 ospitati (79 orfani); 1865, 358 ospitati (119 orfani); 1866, 410 ospitati (148 orfani), 1867, 412 ospitati (124 orfani); 1868, 366 ospitati (98 orfani); 1869, 375 ospitati (109 orfani) (ST 3,441 ss).
I ragazzi ricoverati, negli ultimi anni di don Bosco, sorpasseranno gli 800, e gli orfani toccheranno i 250. Cifre aride, ma eloquenti. Don Bosco moltiplicava, e Dio non si lasciava vincere in generosità. Ricambiava don Bosco della stessa moneta: moltiplicava anche lui. Poche volte le castagne e le pagnotte, ma sempre il denaro (facendoglielo sudare) e le persone pronte a dargli una mano e la vita.
I ragazzi sani e puliti che dissero a don Bosco «vogliamo restare con lei» non furono soltanto i leggendari Buzzetti, Rua, Cagliero, Francesia, Bonetti. Furono anche tanti altri, oggi quasi sconosciuti, dimenticati; degni invece di essere ricordati come le pietre vive con cui don Bosco poté costruire un pezzo non indifferente del Regno di Dio.
Anni di crisi nera
Nel 1865, quasi all'improvviso, la capitale d'Italia fu trasportata da Torino a Firenze. Torino si trovò di colpo più povera. Don Bosco fu sorpreso dall'avvenimento mentre costruiva la Chiesa di Maria Ausiliatrice (ne parlo nel capo seguente), e vide diminuire il numero dei benefattori.
Altri avvenimenti aggravarono in quegli anni la crisi finanziaria non solo di Torino ma di tutta l'Italia, fino a
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renderla una «crisi nera». Il ministro delle Finanze, conte Bastogi, aveva deciso nel marzo 1861 (e non ne poteva fare a meno) che l'Italia si accollava il debito pubblico di tutti gli antichi stati. A conti fatti, il debito pubblico risultò di 2.444 milioni. Nei cinque anni 1861-65 il deficit del nuovo Stato risultò di 2.174 milioni (5 mila miliardi del 1986). La situazione del Tesoro era disperata (cf CLOUGH, SSss).
I beni degli ordini religiosi e della Chiesa confiscati in tutte le regioni d'Italia (compreso il Lazio e la città di Roma, nonostante le garanzie che «mai» si sarebbe fatto un passo simile) dovevano fruttare allo Stato 1.700 milioni (4 mila miliardi del 1986). Finirono invece per ingrossare i possedimenti dei grandi proprietari e di un gruppo di astuti speculatori. Lo denunciò in Parlamento Sidney Sonnino (futuro ministro degli Esteri) dopo un'indagine ufficiale (CLOUGH, 65).
Per mettere un argine al bilancio fallimentare, lo Stato (dopo aver venduto i beni del demanio e le ferrovie pubbliche) dovette varare nel 1868 l'iniqua «legge sul macinato», cioè sulla macinazione di grano, granturco, cereali e castagne secche. Due lire ogni quintale di grano macinato. Era la «tassa sulla fame», che colpiva i più poveri, quelli che vivevano di pane e di polenta. Perché «nessuno sfuggisse» furono applicati i contatori alle macine dei mulini. In tutta l'Italia ci furono scioperi operai, tumulti contadini, l'esercito fu mandato a sparare sui «rivoltosi». 257 morti, 1099 feriti, 3788 arresti. La gente gridava «Viva Pio IX!» «Viva Francesco Il!».
Nello stesso tempo (con pessimo gusto) i giornali descrivevano il matrimonio (28 gennaio 1868) dei principi Umberto e Margherita e i favolosi festeggiamenti. Descrivevano l'abito da sposa con lo strascico lungo m. 2,70, e il gioiello d'oro e diamanti (25 grammi di peso) regalato dal sindaco di Firenze alla principessa. Qualche giornale «sacrilego» proponeva il problema: quanti quintali di macinato occorrevano per pagare quel gioiello e le feste della capitale Firenze, costate 800 mila lire?
Tassa sul pane anche a Valdocco
Il pane (che per 20 anni era costato sui 30 centesimi al chilo), in seguito alla tassa balzò a 40-41 centesimi. Per don Bosco, i ragazzi del quale consumavano in media un chilo di pane al giorno, fu una tegola pesante. La nota del panettiere Magra passò dalle 5 mila lire mensili alle 8 mila (ST 3,207). Più volte don Bosco scrisse al ministro piemontese Quintino Sella (ideatore della famigerata tassa) per ottenere la dispensa sul macinato per i suoi ragazzi. L'esito fu sempre negativo.
Don Bosco decise di fare qualche risparmio impiantando un forno all'interno dell'Oratorio. Il 3 novembre 1868 entrò a Valdocco Giovanni Orsello, di Montà d'Alba (gente onesta): il primo panettiere. Nonostante il rientro delle spese di cottura, la tassa sul macinato pesò su Valdocco, su Mirabello (il piccolo seminario aperto nel 1863) e su Lanzo (il collegio aperto nel 1864) per 12 mila lire l'anno (cf ST 3,848).
Le pensioni dei ragazzi, intorno al 1868, sono fissate teoricamente ad un massimo di L.24 mensili. Ma il contemporaneo P. Baricco scrive: «Tra gli studenti sono ammessi i giovani che hanno compiuto le elementari e sono di buona condotta: essi o sono accettati gratuitamente (e sono i più) o col pagamento di una pensione da L.5 a L.24 mensili. Tra gli artigiani sono ammessi giovani a 12 anni, orfani di padre e di madre e abbandonati, e tutti gratuitamente» (Cit. ST 3,208).
Il refettorio è il grande stanzone sotterraneo scavato sotto la chiesa di San Francesco di Sales. Studenti e artigiani scendono a turni diversi.
Una fontana che butti marenghi
Don Bosco ha bisogno di soldi. Per la chiesà di Maria Ausiliatrice, per le bocche dei ragazzi di Valdocco, Mirabello e Lanzo, per i loro libri e i loro vestiti, per i laboratori che ingrandisce e modernizza sempre più, per moltiplicare le case e gli oratori per ragazzi poveri. Dice a don Costamagna indicando la fontana del cortile: «Avrei bisogno che buttasse marenghi». Organizza lotterie; esaspera i suoi amici chiedendo sempre qualche lira in più, qualche biglietto da mille in più. A controllare la sua corrispondenza, le sue carte, si direbbe un uomo «assetato di soldi». Per chi viveva con lui, o soltanto lo avvicinava con impegno, questa impressione risultava invece falsa.
Scrive il Biffi, dopo aver sondato lo stato finanziario dell'Oratorio nel 1867: «Si direbbe che quel dabben uomo del sacerdote Bosco rifugga da tutto ciò che la scienza finanziaria) odierna suggerisce. A lui pare che basti compiere il bene e con pia intenzione, incaricandosi la Provvidenza di far germogliare la buona semente, farla crescere e portar frutto. Allorché si parlava di risultati statistici, di distinzioni da fare, di precauzioni, di ordinamenti, egli rispondeva con un sorriso, nel quale lampeggiavano la sorpresa, l'incredulità e la compassione... Al prete Bosco basta poter tirare avanti con quella sua immensa famiglia» (Cit. ST 3,369). L'unica parola che Biffi sbaglia è «dabben uomo». Don Bosco è tutto, fuorché un approssimativo, un ingenuo, un leggermente svanito. Lo dimostrano i fatti. In quello stesso anno l'Istituto degli Artigianelli, legalmente riconosciuto, con tutti i dati in colonna, ha «sopra di sé il non grato peso di 250 mila lire di debito» (circa mezzo miliardo del 1986) (ib. 370). La Società di patronato pei giovani dal carcere, retta dal consigliere di Stato e autorevole economista Ilarione Petitti di Roreto, deve chiudere perché il bilancio è fortemente passivo. Il cristiano Giovanni Bosco tira avanti il suo barcone a pelo d'acqua, ma non va a fondo, perché fa fruttificare faticosamente i talenti datigli da Dio, con tutte le cautele e tutto il sacrificio necessari.
Le gocce di sudore nel piatto
Egli ama concretamente il prossimo turbolento che Dio ammassa nelle sue case, e lavora ogni giorno fino allo
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sfinimento maneggiando per questo prossimo il torturante mezzo della beneficienza.
Mentre la marchesa di Barolo finanziava le proprie istituzioni con le rendite programmate delle sue tenute, don Bosco sollecita ogni giorno la liberalità privata e pubblica, moltiplica scuole, laboratori, attività editoriali con la ricerca paziente, tenace, da formica laboriosa, di ogni sussidio possibile.
Converte in pane e in edifici, in vestiti e in attrezzature le somme racimolate. - Vende sistematicamente i beni immobili che gli vengono donati. Allarga sempre più la cerchia del suo amore concreto ai giovani, trasforma il lavoro suo e dei suoi silenziosi collaboratori in ospizi, oratori, missioni. Misura giorno per giorno il suo amor di Dio a metri quadri di tetti messi sulla testa degli orfani, più che a decine di rosario.
Fu una fatica immane, un cilicio torturante come quello dei più austeri monaci dell'antichità. Rimettere in moto la rugginosa macchina di una lotteria gli costava molto più che una quaresima a pane e acqua. Incontrare decine di amici, e tendere a tutti la mano come un mendicante, era una via crucis a stazioni infinite. Chi ha visto in tutto questo un'attività «trionfale», a me sembra un presuntuoso chiacchierone.
Quando l'economo don Rua, mentre lui mangiava un piatto di minestra, gli sussurrò che era in protesto una cambiale di 40 mila lire (circa 100 milioni di oggi) che bisognava saldare con assoluta urgenza, don Cagliero li accanto lo vide sudare. «Era il mese di gennaio, il refettorio non aveva riscaldamento, e gli cadevano nel piatto gocce di sudore» (MB 11,212).
Il torturante cilicio del cristiano Giovanni Bosco, portato per amore dei suoi piccoli fratelli, fu benedetto da Dio, che gli fece crescere sotto le mani preziosi frutti: una stagione di vocazioni religiose e sacerdotali luminosissima, irripetibile. I pani e i pesci moltiplicati miracolosamente, affollati su una barca che minacciava sempre di affondare, ma non affondò mai.
58. La Chiesa nel campo dei sogni
Teneva d'occhio il campo seminato a granturco
Nel sogno fatto nella notte del 12 ottobre 1844, quando l'Oratono stava cominciando le sue migrazioni, la Signora gli aveva indicato un «campo seminato a granturco e patate», e don Bosco aveva visto «una chiesa alta e stupenda», tra un «numero di agnelli grandissimo» (vedi pp. 110-111).
Passarono 18 anni e don Bosco aveva sempre tenuto d'occhio quel campo che si estendeva oltre il muro di cinta del suo Oratorio.
Una sera del dicembre 1862, Paolino Albera (un giovane salesiano di 17 anni) si sentì confidare da don Bosco: «Ho confessato tanto e... quasi non so che cosa abbia detto o fatto... Mi preoccupava un'idea. Pensavo: La nostra chiesa è troppo piccola; i giovani vi stanno addossati l'uno all'altro. Quindi ne fabbricheremo un'altra più bella, più grande, che sia magnifica. Le daremo il titolo: Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice. Io non ho un soldo, non so dove prendere il denaro, ma ciò non importa. Se Dio lo vuole si farà» (MB 7,333 s).
Giovanni Cagliero ricordava che nello stesso 1862 don Bosco gli aveva confidato che «meditava l'erezione di una chiesa grandiosa e degna della Vergine SS. Soggiungeva:
- I tempi corrono così tristi che abbiamo bisogno che la Vergine SS. ci aiuti a conservare e difendere la fede cristiana. E sai tu un altro perché?
- Credo - risposi io - che sarà la Chiesa Madre della nostra futura Congregazione, ed il centro dal quale emaneranno tutte le altre opere nostre a favore della gioventù.
- Hai indovinato, mi disse: Maria SS. è la fondatrice e sarà la sostenitrice delle nostre opere» (MB 7,334).
Un particolare sconcertante: in quel 1862 don Bosco non possedeva nemmeno il «campo seminato a granturco e patate». Ma lo comprò nel 1863 con quattromila lire arrivate all'improvviso. Don Bosco lo fece subito cintare di assi, pregò l'ingegnere Antonio Spezia di studiare il progetto, e con il fascio di disegni si pre- sentò alle autorità municipali per avere il permesso di edificare.
Dopo aver esaminato a fondo il progetto, gli dissero che tutto andava bene. Ciò che non piaceva era il titolo: Maria Aiuto dei Cristiani. In quel tempo faceva storcere il naso. Il capo degli architetti municipali suggerì: «Non potrebbe chiamare la sua chiesa del Carmine, del Rosario, della Pace?... La Madonna ne ha tanti di titoli!». Don Bosco sorrise. Invocare la Madonna perché aiutasse tutti ad essere veri cristiani, in quel tempo in cui i ricchi sfruttavano tranquillamente i poveri, i «liberi pensatori» dichiaravano che il Cristianesimo era finito, lo Stato chiudeva le case dei religiosi e s'impossessava delle loro proprietà, poteva disturbare. Rispose che dal collegio degli architetti aspettava l'approvazione delle fondamenta, dei muri, del tetto. Sul titolo magari ci avrebbe ripensato. Non ci ripensò. Lo lasciò così, e il progetto fu approvato definitivamente nel 1864 (MB 7,466ss).
«Bisogna lasciar fare qualcosa alla Provvidenza»
Avuta l'approvazione di massima per il progetto, don Bosco chiamò il giovane economo della Congregazione, don Angelo Savio, e gli disse che poteva far iniziare gli scavi.
- Ma don Bosco, come farò? - gli rispose preso dal panico il giovane prete -. Si tratta di una chiesa molto grande e molto costosa. Stamane non avevamo in casa di che pagare le lettere spedite alla posta.
E don Bosco:
- Quando mai abbiamo cominciato un'opera avendo già i denari pronti? Bisogna bene lasciar fare qualcosa alla Divina Provvidenza! (MB 7,470).
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Come impresario e capomastro della grande chiesa, don Bosco chiamò Carlo Buzzetti, il ragazzo accolto da don Bosco nei primi giorni dell'Oratorio, insieme a Bartolomeo Garelli. Solo lui, che aveva visto crescere tutto dal nulla, poteva fidarsi di don Bosco. Quando quello strano prete, come primo acconto, gli rovesciò nelle mani il borsellino e ne uscirono otto miseri soldi di rame (duemila lire del 1986), solo lui poté credere alle parole che accompagnarono quei centesimi: «Stai tranquillo. La Madonna penserà a far arrivare il denaro conveniente per la sua chiesa. Io non ne sarò che il cassiere» (MB 7,652).
La Madonna ci pensò davvero. Ma per farlo arrivare si servì di molte grazie e di tutto il sudore di don Bosco. Nell'estate e nell'autunno 1863 furono compiuti i lavori di scavo. Nell'inverno furono trasportati 20 mila quintali di pietre da Borgone di Susa. Per avere il trasporto gratuito in ferrovia, don Bosco si rivolse a Bartolomeo Bona, già collaboratore del conte Cavour nelle costruzioni ferroviarie.
L'inaspettata crisi finanziaria
Nel settembre 1864 i muratori lavoravano già al basamento dell'edificio. Ma in quell'autunno (avvenimento assolutamente imprevisto) «l'orizzonte finanziario del regno d'Italia cominciò ad oscurarsi». Scrive Pietro Stella: «La tanto decantata abbondanza di giacimenti metalliferi in tutte le plaghe della penisola si rivelava pura fantasia. Una lunga serie di decreti ministeriali annullò, per rinuncia degli imprenditori, le numerose concessioni accordate negli anni precedenti per la ricerca e coltivazione di miniere di ferro, rame, piombo, argento... La moneta pregiata cominciò a rarefarsi, diminuì la disponibilità di risparmi» (ST 3,110).
A distanza di pochi mesi arrivò la tegola del trasferimento della capitale da Torino a Firenze (aprile 1865). Non solo diminuirono i benefattori, ma il barone Ricci del Ferres chiese la restituzione di un prestito di L.2000 fatto l'anno precedente. Don Bosco chiese aiuto a don Rua, allora direttore a Mirabello. A don Domenico Pestario, prete di Mornese, chiese addirittura un prestito di L.5000 per far fronte alle necessità urgentissime. Oltre alla costruzione, le spese di 400 persone ospitate a Valdocco si facevano sentire.
Come nei casi di massima strettezza, don Bosco lanciò una nuova lotteria: 167.928 biglietti a mezza lira ciascuno. Ma la situazione economica non accennava a migliorare, e «i biglietti della lotteria sono diventati molto pigri», scriveva (MB 8,356).
Per forzare al massimo la raccolta di denaro e non interrompere i lavori di costruzione, nella primavera del 1866 mandò a Roma il salesiano laico Federico Oreglia, amico di molti nobili romani. Gli scriveva nel maggio: «Io desidererei, e, se fosse obbediente, le comanderei di non venire a Torino, finché non abbia in saccoccia diecimila franchi, essendo questo il bisogno per continuare con un po' di energia i lavori della chiesa» (Cit. ST 3,113).
«Ogni pietra, una grazia»
Pollone mandò per ora 150 franchi per essere Ma a Federico Oreglia, don Bosco scrive anche altre parole: «La settimana scorsa potemmo raccogliere duemila franchi, ma tutta questua della Madonna... Il conte liberato, previa novena, da un malore che l'aveva portato sull'orlo della tomba.
La duchessa Melzi di Milano mandò franchi 500 perché sua nuora dopo una serie d'incomodi che la ridussero a pessimo stato di salute, con una novena a Maria Ausiliatrice pose fine a tutti i suoi mali.
Altre offerte per simili motivi vennero da Chieri, da Asti, da Cuneo, da Saluzzo, da Milano, da Monza, da Venezia. Con questi mezzi, in mezzo alle gravi strettezze in cui ci troviamo, possiamo andare avanti» (12 maggio 1866; MB 8,356).
La lotteria venne chiusa il 1° aprile 1867. Ma continuò l'onda di offerte piccole e grandi, per le grazie attribuite alla Madonna «di don Bosco». Nel giugno di quell'anno scriveva ancora all'Oreglia: «Non può immaginarsi le meraviglie, che noi vediamo ogni giorno operarsi da Maria SS. Ausiliatrice. La settimana scorsa in piccole offerte fatte per grazie ricevute, vennero registrati tremilaottocento franchi» (ST 3,116).
La fiducia della gente nella Madonna fu più tenace della depressione economica.
Quelle grazie, a volte strepitose, si verificavano ogni giorno, e «lasciavano lo stesso don Bosco sorpreso e quasi sgomento - scrive Pietro Brocardo -, tanto che sentì il bisogno di consultarsi con mons. Bertagna, il quale in una preziosa testimonianza del Processo Ordinario fa questa affermazione: "Credo che don Bosco avesse il dono soprannaturale di guarire infermi. Questo l'ho sentito da lui medesimo in occasione che eravamo ambedue agli Esercizi Spirituali nel Santuario di S. Ignazio sopra Lanzo e me lo diceva per avere consiglio a continuare a benedire gli ammalati colle immagini di Maria Ausiliatrice e del Salvatore, poiché diceva, si levava un cotal rumore per le molte guarigioni che succedevano e che avevano l'aria di prodigiose, in seguito a cotali benedizioni da lui impartite. Ed io ritengo che don Bosco dicesse il vero. Bene o male io ho creduto di consigliare don Bosco a proseguire le sue benedizioni"» (BROCARDO, Don Bosco profondamente uomo, profondamente santo, LAS 1985, p. 122).
Il grandioso santuario di Maria Aiuto dei Cristiani fu consacrato il 9 giugno 1868. Era costato 890.000 lire (due miliardi circa del 1986). Quando l'Arcivescovo sali l'altare per la prima Messa c'erano 1200 giovani che l'affollavano. Don Bosco si guardò intorno e disse: «Ogni pietra di questa chiesa è una grazia della Madonna» (MB 18,338-9,201).
59. La sofferenza di due bambine Due denti per la Madonna
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La voce di «grazie» piccole e grandi che la Madonna concedeva per le mani di don Bosco si diffuse rapidamente durante la costruzione del Santuario di Maria Ausiliatrice, e non si fermò più.
Riporto la testimonianza sconosciuta di una di queste «grazie». È’ scritta da una povera portinaia, con particolari a volte grossolani e poco «gentili». Ma proprio per questo mi sembra preziosa. È specialmente a questa povera gente che don Bosco portava l'aiuto della Madonna.
«Povera ragazza, ero affetta da otto anni di due grosse fistole dentarie. La buona mamma fece di tutto per vedermi guarita, ma inutilmente: ben sette dottori, che videro lo stato già cancrenoso sulla mia faccia, dissero che non v'era più nulla da fare. Non posso descrivere quanto soffrivo! Una notte, per l'eccesso del male, andai sul balcone per mettere la faccia sulla ringhiera, invocando un momento di sollievo.
Il papà e la cara mamma, visto il caso disperato, dissero:
- Non vi è più altro scampo che andar a Valdocco e vedere don Bosco.
La mattina, appena giorno, la mamma e la signora Del Bosco mi condussero al Santuario di Maria Ausiliatrice. Per gli eccessivi dolori che rispondevano al cervello, io non feci altro che gridare, non solo per la strada ma anche nel traversare la chiesa, con disturbo di quanti vi erano, i quali, forse, mi avranno creduto indemoniata. Nella prima sacrestia trovammo don Bosco che confessava un sacerdote. Io gridavo sempre ed egli mi guardò e mi fece cenno di pazientare. Dopo alcuni istanti si alzò, venne da me e mi disse:
- Poverina, hai tanto male non è vero? Aspetta un momento; io mi confesso solamente e poi ci aggiusteremo con la Madonna.
Io, con cuore leale come la sentiva, gli dissi:
- Ma lei è già santo e non ha più bisogno di confessarsi.
Ed egli tutto sorridente mi rispose:
- E non lo sai che sono ancora in questo mondo?
Si confessò; indi fece restar lì la mia mamma e la signora Del Bosco, prese me per la mano e mi condusse nella seconda sacrestia. Fattami inginocchiare su di un inginocchiatoio, mi disse:
- Hai volontà di guarire?
Io risposi di sì.
- Ebbene, vuoi che preghiamo insieme la Madonna con tre Ave Maria?
Io gli risposi: - Si, si.
Allora trasse una reliquia che teneva sotto l'abito; poi con una mano mi fece il segno della Croce con la reliquia, tenendomi l'altra mano distesa sul capo; questo per tre volte, dicendo ad ogni volta con me l'Ave Maria.
Alla terza volta mi sentii una cosa che non so dire; mi parve che mi avessero fatto un'operazione. Il fatto è che sull'istante io fui guarita perfettamente.
Dopo mi disse:
- Da oggi (era il 25 luglio, non ricordo più bene l'anno) fino al l° di novembre tu dirai tre Pate,; Ave, Gloria al SS. Sacramento e tre Salve a Maria Ausiliatrice che ti guarì. Le dirò anch'io e le farò dire da altri. Tu non soffrirai mai più di questo; e... poi mi porterai due denti che ti cadranno prima della festa dei Santi.
E presami per mano, mi ricondusse alla mamma, dicendomi intanto:
- Hai volontà di fermarti un poco in chiesa? Adesso io vado a celebrare la S. Messa all'altare di S. Pietro (quello che oggi è dedicato a don Bosco).
Io con grande gioia gli dissi di sì, ben volentieri; ed egli mi consegnò alla mamma che stava piangendo, come stava piangendo la suddetta signora. Don Bosco le interrogò perché piangessero tanto: esse gli risposero che, non avendomi d'un tratto più sentita gridare, credevano fossi morta. Don Bosco sorridendo rispose:
- No, no, non è morta. Maria Ausiliatrice l'ha subito guarita. Nei tre mesi durante i quali dovevo stare attenta per raccogliere e portare a don Bosco i due denti che egli mi aveva detto sarebbero caduti, una sera, caso strano, mentre camminavo sotto un viale, ove a quei tempi correvano ancora dei rigagnoli d'acqua, mi sentii un affare in bocca e, non pensando a nulla, sputai nell'acqua e subito, con mio forte dispiacere, mi accorsi che era uno dei denti. Andai a casa e raccontai lo sbaglio alla mia mamma. Ed ecco verso la fine di ottobre, un'altra sera, mangiando una minestra di riso e cavoli, mi sentii cadere il secondo dente, ma non potei trattenerlo e l'inghiottii col cibo. Il giorno dei Morti (2 novembre) tornai con mia madre a trovare don Bosco nella sua camera; gli dissi che mi erano caduti i denti, ma che non potevo darglieli per il motivo sopra narrato, ed egli ridendo di cuore (mi pare di vederlo) mi toccò la guancia dicendo:
- Vedi, la Madonna se li ha presi!
Indi continuò il discorso con la mamma che gli fece quell'offerta che poteva e, baciandogli la mano, tornammo a casa con gioia indescrivibile.
(...)Poco dopo, un mattino io passavo in piazza Castello, quando incontro il fu rev. teol. Fornasio, parroco alla Maddalena, oltre Giaveno, che prima era stato vice-parroco alla Gran Madre di Dio (in Torino). Conoscendomi, sapeva in che stato versavo per il mio male, che mi aveva già aperto due buchi nella faccia. Or bene questo sacerdote mi venne incontro e volle palpare colle sue dita la verità del fatto. Poi mi disse:
- Senti, quando seppi della tua guarigione, non potevo crederci; ma ora quando sarò di ritorno al paese, alla prima predica che farò, racconterò questo miracolo, potendo dire che l'ho visto coi miei occhi e toccato con le mie mani. E tu guarda bene: se un'altra ragazza fa male, fa male... Ma se tu sei cattiva, farai due volte male. Ricordati che sei stata graziata dalla Madonna SS. e da quel caro e santo don Bosco. (...)».
Torino, 3 settembre 1919. Anna Zanetti (BS 1919, 259s).
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«Se questa bambina guarirà»
Un'altra grazia la vide con i propri occhi il conte Cays il 23 maggio 1877.
Questo uomo nobile, laureato in legge, deputato al Parlamento Subalpino dal 1857 al 1860, già sposato e ora vedovo con un figlio quasi quarantenne, padrone del castello di Caselette dove aveva ospitato il Re e la Regina, da tempo chiedeva con insistenza a don Bosco di accettarlo tra i Salesiani.
Don Bosco esitava. Il conte aveva reso servizi grandissimi ai Salesiani, ma don Bosco temeva che non riuscisse ad adattarsi alla vita dura e poverissima di quei primi anni. Gli diceva sorridendo (è lo stesso conte che lo narra):
- Lei abita in un castello, ha domestici che lo servono dal mattino alla sera. Se viene fra noi, dovrò darle come stanza un abbaino stretto stretto, altro che castello! D'estate cuocerà di caldo, e d'inverno dovrà avvoltolarsi ben bene in una coperta verde da cavalli, di quelle che lei stesso ci ha ottenuto in regalo dal ministro della Guerra. Ce la farà?
- Se la Madonna mi aiuta, ce la farò.
- Va bene. Preghiamo la Madonna che ci faccia capire ciò che vuole da me e da lei. Non abbiamo fretta.
Il 23 maggio, vigilia della festa di Maria Ausiliatrice, il conte Cays è nell'anticamera di don Bosco insieme a moltissime altre persone che aspettano di parlare con lui. Ha pensato: «Oggi decido. O è sì, o è no».
Ed ecco entrare una mamma, spingendo avanti una bambina di undici anni. La ragazzina si chiama Giuseppina Longhi. Appare molto più piccola della sua età, perché paralizzata dal lato destro. Inoltre ha così poca capacità di respiro, che appena si trova in un luogo affollato, sviene. La mamma vorrebbe portarla da don Bosco, perché la benedica. Ma dopo pochi minuti, in quella stanza affollatissima la bambina comincia a sudare e implora la mamma di portarla via.
Il conte Cays, gentiluomo attentissimo, vede quel piccolo dramma, e si avvicina per chiedere alla signora se può servire in qualche cosa:
- È impossibile, è impossibile aspettare di più. Questa povera figlia non resiste. Bisogna ritornare a casa. Allora il conte Cays, intenerito, dice:
- Io credo di essere fedele interprete di questi signori. Noi tutti le cediamo il posto e lei potrà passare per prima con la sua bambina.
Tutti acconsentono. E il conte Cays pensa: «Se questa bambina esce guarita dalla stanza di don Bosco, vuol dire che la Madonna mi vuole Salesiano».
Appena esce chi stava parlando con don Bosco, il conte accompagna di persona la signora Longhi e la sua bambina nella stanzetta di don Bosco, e rimane a sorreggere la bambina. La signora Longhi racconta a don Bosco la sua povera storia, piangendo come tutte le mamme disperate. Don Bosco fa accomodare la piccola sul sofà, le siede accanto e le dice:
- Adesso pregheremo insieme la Madonna. Poi ti darò la sua benedizione, e vedrai che la Madonna sarà buona con te.
Dicono l'Ave Maria con raccoglimento, poi don Bosco dà a Giuseppina la benedizione di Maria Ausiliatrice. Al momento di farsi il segno della croce, la bimba lo fa con la mano sinistra. Don Bosco la rimprovera scherzosamente:
- Eh no, Giuseppina. Il segno di croce si fa con la mano de-stra.
- Ma non può! - protesta la mamma -. La paralisi...
- Zitta, signora, zitta. Lasci fare a lei. Dunque: si fa con la mano destra. Prova un po'.
E Giuseppina lo traccia lentamente con la mano destra. Mentre lo fa, capisce che qualcosa sta capitando in lei. Si alza di scatto, muove alcuni passi verso la mamma gridando:
- La Madonna mi ha guarita!
Don Bosco «era così impressionato che ne tremava da capo a piedi».' Le accompagnò sulla porta, e disse:
- Ora scendete nella chiesa a ringraziare la Madonna.
Il conte Cays potè parlare con don Bosco solo mezz'ora dopo, avendo atteso disciplinatamente il suo turno. Le sue prime parole furono:
- La Madonna mi vuole salesiano. Adesso ne sono certissimo. Lo divenne davvero. Abitò nello stretto abbaino che don Bosco gli aveva preventivato, nell'inverno gelido si avvolse nella coperta verde da cavalli. Ma fece del bene incalcolabile alla giovane Congregazione. Diceva scuotendo il capo: «Mi dispiace solo di dare a Dio gli ultimi avanzi della mia vita».
60. FMA: gli occhi bassi, ma la testa no
I miracoli si pagano
Sulle colline sud di Alessandria, nella rovente estate del 1860, scoppia il tifo. Un manuale di medicina del tempo definisce questa malattia: «complicatissima e praticamente impossibile da curare». Un almanacco che si vende sulle bancarelle delle fiere (e che la gente consulta con molta fede) prescrive come rimedio: bruciare lentamente un ragno insieme alla sua tela. Poi far bere al malato la cenere ricavata in un bicchiere di acqua di fonte. Si capisce che, con questi rimedi, il tifo fa strage dovunque arrivi.
Anche sulle colline di Mornese i morti, in quel 1860, sono tanti. In una famiglia (cognome Mazzarello) sono colpiti tutti: padre, madre, quattro figli. Due sono già in fin di vita.
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Don Pestarino, un giovane prete che aiuta il parroco, va a trovarli, e vede che in quella casa hanno bisogno di una donna che faccia pulizia e cucina. Va a casa di parenti (Mazzarello pure loro), chiama Maria, 23 anni e le dice:
- C'è da fare una grande opera di carità. In casa di tuo zio sono tutti ammalati di tifo. Hanno bisogno di una come te per non morire. Te la senti?
Maria ha paura. Ma è una cristiana sul serio.
- Vado ad avvisare mio padre.
Il padre non è d'accordo. Ma dice a don Pestarino:
- Se essa vuole andare, non mi oppongo.
Maria è una ragazza forte, robusta. Non ha mai contato le ore di lavoro e di fatica. L'ordine e la pulizia tornano rapidamente in quella casa di malati, insieme al cibo caldo. La salute che torna per tutti, anche per i moribondi, sembra un miracolo. Ma i miracoli spesso si pagano, e Maria (sfinita dal gran lavoro) è colpita lei dalla malattia in maniera violentissima.
Non ha nemmeno il tempo di tornare a casa. Mentre la febbre la scuote di brividi, dal suo lettuccio mormora: «Non ho più bisogno di niente. Solo che Dio venga a prendermi».
Le prime due orfane
Invece, senza ceneri di ragno, il miracolo avviene anche per lei. Ma il suo fisico esce da quella malattia prostrato. Non riesce più a maneggiare con forza la zappa per lavorare nei campi.
Mortificata, si confida con la cugina Petronilla: «Vado a imparare a fare la sarta. Poi aprirò un piccolo laboratorio e insegnerò a cucire alle ragazze povere. Perché non vieni anche tu? Insieme vivremo come in famiglia».
Petronilla ci sta. Dopo un anno il piccolo laboratorio è aperto. Una decina di ragazzine (che non vanno a scuola, perché in quel tempo la scuola è giudicata «non conveniente» per le ragazze) viene ogni giorno a imparare a cucire. Prima di cominciare, dicono un'Ave Maria. E Maria Mazzarello, quando il campanile batte le ore, commenta: «Un'ora di meno su questa terra, un'ora più vicino al Paradiso!». Vedendo le ragazzine impegnate con ago e stoffa mormora: «Ogni punto d'ago, un atto di amor di Dio. Lui sì che ci pagherà bene, altro che i nostri clienti».
Alla domenica non si lavora, ma le ragazzine tornano volentieri con Maria e Petronilla, e giocano, cantano, saltano con loro. Vanno alla Messa e pregano, poi fanno belle passeggiate fino al torrente Roverno, tra fiori e spruzzi.
Ma nell'inverno 1863 capita qualcosa che modifica tutto. Un venditore ambulante perde la moglie, e rimane solo con due bimbe di 8 e di 6 anni. Non sapendo che fare, va a bussare alla porta di Maria e di Petronilla. Parlando, il pover'uomo si rigira in mano impacciato il cappello:
- Io vado in giro per i mercati e le fiere. Se mi porto dietro queste due creature, mi muoiono di polmonite, con la neve che c'è. Non potreste tenerle con voi di giorno e di notte?
Come si fa a dire di no davanti a quei quattro occhi sgranati e spauriti? Maria va a chiedere in prestito due lettini, e un angolo del laboratorio, ogni sera, si trasforma in cameretta.
La notizia si diffonde: molti portano pane e polenta a Maria e Petronilla. Qualcuno, però, porta altre bambine abbandonate. Finché ce ne stanno: sette. Poi, sconsolate, Maria e Petronilla devono dire: «Ci dispiace. Ma finché non avremo un posto più grande...».
Arriva don Bosco
Don Pestarino, che segue da vicino e incoraggia Maria e Petronilla, è amico di don Bosco. L'ha incontrato in treno, è andato a trovarlo a Valdocco, ha domandato di diventare salesiano. Don Bosco l'ha accettato, ma gli ha detto: «Rimani a Mornese. Chissà che di quel gruppetto di ragazze, Dio non voglia fare cose grandi» (MB 7,297).
Don Bosco arriva a Mornese nel 1864, con la turba dei suoi ragazzi in passeggiata: banda in testa, tamburo battente, un asino che porta gli scenari per il teatrino che i ragazzi allestiscono sulle piazze dei paesi.
È’ per tutti una festa grande. Ma per don Bosco è qualcosa di più. Viene a vedere il «gruppetto di Maria Mazzarello». Da tempo sta pensando di fondare una Congregazione di suore che faccia del bene alle ragazze povere con lo stesso spirito dei Salesiani. Entra nel laboratorio, parla con don Pestarino. È’ impressionato. «Qui sta già di casa la Madonna», pensa. Il gruppetto, infatti, a cui si sono unite altre brave ragazze del paese, si chiama Figlie dell 'Immacolata.
Cinque anni dopo (don Bosco crede sempre nei tempi lunghi, non negli entusiasmi improvvisi) invia alle «figlie» un quadernetto scritto di sua mano. Dà direttive semplicissime:
«Procurate di vivere abitualmente alla presenza di Dio. Siate dolci, pazienti, amabili. Vegliate sulle ragazze, tenetele occupate, crescetele a una vita semplice di amicizia del Signore, schietta e spontanea» (MB 10,592).
Nascono le FMA
Maggio 1871. Don Bosco raduna il «Consiglio» della Congregazione Salesiana: sono i ragazzini cresciuti accanto a lui, divenuti sacerdoti, direttori delle nuove opere salesiane che si stanno diffondendo in tutta l'Italia. Si chiamano Michele Rua, Giovanni Cagliero, Paolino Albera... Dice:
«Molte persone mi hanno ripetutamente esortato a fare anche per le giovanette quel po' di bene che stiamo
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facendo per grazia di Dio ai giovani. Se voi approvate la mia iniziativa, fonderemo le Figlie di Maria Ausiliatrice. Il centro sarà Mornese, dove da nove anni vive nel silenzio, nel lavoro e nella preghiera, un gruppo di ragazze che dà piena garanzia» (MB 10,594-7).
Don Bosco domanda l'approvazione a quei «ragazzi» a cui ha insegnato a soffiarsi il naso e a usare la forchetta. È il gesto di un santo e di un grande educatore. Solo quando ottiene l'approvazione, considera iniziata la Congregazione delle FMA.
A Mornese, il gruppo di Maria Mazzarello si trasporta nel «Collegio di Borgo Alto»: hanno più spazio per le ragazze, e anche tanta povertà in più. Perché i Mornesini, che volevano il collegio per i loro ragazzi, considerano quel cambiamento un imbroglio, un tradimento, e all'inizio non danno nessun aiuto.
5 agosto 1872. Le prime quindici FMA ricevono l'abito religioso. Don Bosco dice:
«Voi siete in pena perché i vostri parenti stessi vi voltano le spalle. Non vi rincresca di essere così maltrattate nel mondo. Solo in questa maniera potrete fare un gran bene. Comportatevi da consacrate a Dio: gli occhi bassi, ma la testa no» (MB 10,616 s).
Il messaggio di don Bosco è chiarissimo: gli occhi si abbassano davanti alla maestà di Diò, ma la testa si porta davanti alla gente, e non deve essere curva come quella delle serve, ma lieta e fiera come quella delle figlie di Dio.
Tra quella povertà e quei disagi cresce robusta la famiglia delle FMA.
Nel 1876 partirono da Mornese 36 suore per fondare oratori, scuole, laboratori nel Piemonte e nella Lombardia. Ora esse sono diffuse in tutto il mondo. Occhi bassi e testa alta, serve di Dio e delle ragazze povere, e di nessun altro.
61. «Prenda me!»
Due pagnotte sulla coscienza
«Entrai nell'Oratorio di Valdocco nel 1872 ed avevo allora appena 11 anni, essendo nato a Pecetto Torinese l'8 aprile 1861. Ero molto birichino allora (come si può essere birichini a quell'età). Ebbi qualche difficoltà nell'adattarmi alla vita di alunno interno».
Chi racconta è Francesco Piccollo. Chi registra il racconto è Giorgio Seriè. Tutti e due grandi salesiani.
«Don Bosco si industriava per darci l'alimento necessario. (...) Al mattino per colazione ci davano, all'uscita dalla chiesa, una pagnotta, senza companatico. Quel pane talvolta era così duro che dovevamo ammollirlo con l'acqua che attingevamo alla pompa. A mezzogiorno avevamo minestra a volontà, in capaci scodelle di stagno: qualche volta alla domenica ci aggiungevano un po' di carne e frutta; nelle feste grandi la bicchierata. Alla sera minestra e frutta. Non che si patisse la fame, no! C'era don Bosco e basta! Vivevamo d'affetto, si respirava in una regione di splendide idee che ci riempivano di contentezza e non pensavamo ad altro.
Ma alla merenda ci davano la cosiddetta pagnotta bell'e fresca. I forni erano sotto il Santuario di Maria Ausiliatrice.
Durante la ricreazione delle 4 pomeridiane, andavamo accanto ai lucernari per respirare il profumo del pane che veniva sfornato. I famigli uscivano portando i cestoni di vimini ripieni di pagnotte, per distribuirle ai giovani. Un pomeriggio mi accorsi che alcuni miei compagni si destreggiavano per carpire di frode qualche pane, e anch'io, ahimé! mi lasciai tentare dalla golosità e, approfittando di una distrazione dei portatori, sottrassi due pagnotte e fuggii dietro il porticato a mangiarle con avidità. Ma poi venne il rimorso:
- Hai rubato, domani dovrai fare la santa Comunione! Devi confessarti!
Ma il confessore era don Bosco. Io sapevo quanto don Bosco aborriva il furto. Come fare? Non tanto per vergogna, quanto per non dare un dispiacere a don Bosco, scappai dalla porta della chiesa, e difilato andai alla Consolata (Santuario poco distante da Valdocco). Entrai nella chiesa semibuia, scelsi il confessionale più nascosto, con la grata più fitta e incominciai la mia confessione:
- Sono venuto a confessarmi qui, perché ho vergogna di confessarmi da don Bosco!
Una voce rispose:
- Dì pure, don Bosco non saprà mai niente!
Era la voce di don Bosco.
Misericordia! Non può essere! Ma se don Bosco era all'Oratorio. Sudavo freddo. Sarà un miracolo? No, niente miracolo! Don Bosco era stato invitato, come al solito, a confessare alla Consolata, e io mi ero imbattuto precisamente in colui che volevo sfuggire.
- Parla, parla, caro figliuolo! Che cosa ti è successo?
Tremavo come una foglia!
- Ho rubato due pani!
E ti hanno fatto male?
- No!
- E allora non affliggerti! Avevi fame?
- Sì.
- Fame di pane e sete di acqua, buona fame e buona sete! Guarda: quando avrai bisogno di qualche cosa, chiedila a don Bosco. Ti darà tutto il pane che vorrai, ma ricordati bene: don Bosco preferisce la tua confidenza a crederti innocente. Con la tua confidenza ti potrà aiutare sempre, invece con la tua innocenza potresti scivolare e cadere e nessuno ti darebbe la mano. La ricchezza di don Bosco è la confidenza dei suoi
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figli.
Non dimenticai mai più quella bontà e quella lezione».
«Mia mamma piangeva»
«L'anno seguente venne a trovarmi la mamma. Ero già in seconda ginnasiale (= seconda media). Essa mi parlò durante la ricreazione, dopo pranzo, e tra le altre cose mi confidò la sua pena per aver avuto un rifiuto dal signor Prefetto (= l'economo) di pazientare per la pensione (allora poca cosa, ma anche quel poco la mamma non l'aveva). Il Prefetto le aveva risposto:
- Se non pagate, vostro figlio lo manderò via!
Essa piangeva per questa minaccia e io dovendo andare a scuola la lasciai in pianto. Alla ricreazione del pomeriggio rividi la mamma che mi aspettava ancora in portineria, ma stavolta tutta allegra e trionfante e mi disse:
- Senti, Cecchino; io ora non piango più, tu pure sta' allegro. Sono stata da don Bosco e mi disse: «Sentite buona donna, non piangete! Dite a vostro figlio che se don Bologna (= l'economo) lo manda via dalla portineria, rientri dalla chiesa e venga da me. Don Bosco non lo manderà mai via.
Il Prefetto mi mandò a chiamare, e io spaventato... bussai alla porta di don Bosco.
- Chi è?
- Sono io!
- Avanti! Ah, sei tu? Bene, bene. Quanti mesi deve tua mamma?
E don Bosco con delicatezza infinita scrisse la ricevuta della pensione per tutto l'anno, apponendovi la sua firma. Nessuno si accorse, neanche il Prefetto, della generosità del buon Padre. Rimasi così commosso, attaccato a don Bosco da non dire».
Francesco non vide nel comportamento di don Bosco un «bel gesto», il gesto di un principe che può disporre di molto denaro, e con animo grande condona le tasse. La retta dei collegi di condizione popolare era di lire 24 mensili: il minimo necessario per il mantenimento. Ciò che don Bosco, su quel rettangolino di carta, dichiarava «ricevuto», sarebbe andato ad elemosinarlo facendosi venire le gambe gonfie a forza di salire scale, bussando a molte porte, inghiottendo risposte mortificanti. Questo lo sa Francesco e lo sanno tanti altri ragazzi, che nei momenti difficili don Bosco manda in chiesa a pregare, mentre lui salirà le scale dei ricchi. Quel bigliettino che Francesco porta all'economo non è solo un pezzo di carta, è sudore, fatiche, umiliazioni, che il suo don Bosco andrà volentieri a subirsi per lui, perché gli vuol bene. Per questo Francesco rimane «commosso, attaccato da non dire» a don Bosco. E rimane con il desiderio di ricambiare, con uguale amore. Francesco Piccollo continua a raccontare:
«Ero già in quinta ginnasiale. Un giorno mentre noi più grandi attorniavamo don Bosco, passeggiando sotto i portici, mi venne in mente di manifestare al buon Padre tutto il mio affetto. Don Bosco si accorse non so come del mio pensiero e senz'altro mi disse:
- Tu vorresti dirmi qualche cosa, nevvero?
- Ha indovinato, sissignore!
- Che cosa vorresti dirmi?
- Ma, non vorrei che gli altri sentissero!
E nel dire così tirai don Bosco in disparte e gli sussurrai all'orecchio:
- Vorrei farle un regalo. Credo che le farà piacere!
- E che regalo vuoi farmi?
- Prenda me!
- E che vuoi che ne faccia don Bosco di questo bell'arnese?
- Faccia di me quello che vuole, mi tenga sempre con lei!
- Veramente - aggiunse don Bosco - non potresti farmi un regalo più gradito! Io lo accetto, non già per me, ma per offrirti e consacrarti al Signore e alla Madonna Ausiliatrice».
«Starai in compagnia degli angeli»
Francesco divenne salesiano. Don Bosco lo mandò in Sicilia, e per 30 anni fu la copia esatta di don Bosco nell'isola. Giorgio Seriè gli domandò:
- Qual è il segreto del suo apostolato tra i giovani?
- Segreto? - rispose - nessun segreto! In don Bosco vi erano indubbiamente doni soprannaturali, noi che siamo stati al suo fianco possiamo testimoniarlo, e vi furono doti naturali straordinarie, non alla portata di tutti. Io mi sono limitato a fare timidamente con gli altri quello che don Bosco aveva fatto con me. Misi umilmente in pratica il consiglio ricevuto da don Bosco quando mi mandò in Sicilia: «Non badare alla scuola o alla classe che ti daranno, se alta o bassa, pensa solo a fare del bene. Se i ragazzi saranno piccoli, meglio ancora, starai in compagnia degli angeli. Quello però che ti raccomando è di cercare di farli buoni e di raccontare ogni giorno qualche fatto o della Storia Sacra o della vita dei Santi o di Maria Santissima. (...) Il Signore ti farà vedere quanto gli è gradito questo sistema di educazione cristiana».
«Ero chierico salesiano a Catania, insegnante di seconda elementare: avevo 46 alunni. Fin dal primo giorno di scuola, praticai il consiglio che mi aveva dato don Bosco: l'ultimo quarto d'ora della scuola l'avevo destinato al racconto di qualche fatto edificante. Per la novena dell'Immacolata promisi agli scolari di raccontare loro un fatto riguardante la Madonna: il racconto era atteso con ansia (...).
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Il quinto giorno della novena (...) erano le quattro pomeridiane, l'aria era pesante, nuvolo ed oscuro. Alle insistenze dei ragazzi anticipai la narrazione del fatto (...).
Quindi, per infervorare i miei fanciulli alla divozione alla Vergine benedetta, aggiunsi: Vedete questa volta che sta sul nostro capo? Ebbene, se amiamo Maria e la volta stesse per cadere, la Madonna la sosterrebbe, finché non fossimo fuori pericolo. (...).
Intanto suonò la fine della scuola, recitai la preghiera e diedi l'ordine di uscire banco per banco. Usciti gli alunni dell'ultimo banco li seguii anch 'io; non ero che a due metri di distanza dall'uscio della classe, quando sentii scuotere il fabbricato e poi uno scroscio spaventoso come il terremoto. Mi voltai: la scuola non esisteva più; il pavimento era rovinato, trascinando seco banchi, cattedra e tutto ciò che l'aula sosteneva e schiacciando quanto vi era nelle stanze sottostanti.
Confortai i miei fanciulli esterrefatti, dimostrando loro la grande bontà della Madonna, (...) ripetei le parole che mi disse don Bosco: "Il Signore ti farà capire quanto gli è gradito questo sistema di educazione cristiana"»'.
62. La fabbrica dei preti
La centesima parte
Don Bosco non sempre riusciva a destare in un buon ragazzo il desiderio di farsi prete. Ma ci tentava. Il suo Oratorio fu schizzato dai caricaturisti anticlericali del tempo come «la fabbrica dei preti». Le statistiche non ci hanno dato ancora le cifre precise, ma i numeri pacificamente correnti parlano di migliaia di sacerdoti usciti da questa «fabbrica».
Giuseppe Allamano, nipote di don Cafasso, fu alunno all'Oratorio, e don Bosco voleva farne uno dei suoi. Per sottrarsi alle sue insistenze, e anche per non dargli dispiacere, Giuseppe se ne andò senza salutarlo, approfittando di una vacanza domenicale nell'agosto del 1866.
Giuseppe Allamano divenne prete, canonico, fondatore dei Missionari della Consolata. E ricordava ai suoi: «Noi certo non abbiamo mai fatto, per avere un alunno, la centesima parte di quello che don Bosco fece per trattenermi con lui ».
Non sempre don Bosco l'indovinava
Il dottor Tommaso Bestente racconta:
«Ero ancora un ragazzo quando mio padre mi collocò all'Oratorio. Vi passai un anno, il 1867. Il regime era il più paterno e bonario che si potesse immaginare, ma io non riuscivo a mangiare la minestra.
Un giorno l'assistente di studio, don Racca, ci disse che se avevamo dei desideri, di qualunque genere, li scrivessimo su un foglio. I superiori, nel limite del possibile, avrebbero cercato di accontentarci. Scrissi: Io non posso mangiare la minestra.
Il giorno dopo, in tempo di ricreazione, me ne stavo in cortile pensieroso e solitario, sotto la camera di don Bosco, quando alzando a caso lo sguardo, vedo venir giù nell'aria, adagio adagio, un piccolo foglio aperto, come se cadesse dalle nuvole. Attesi con le mani alzate che arrivasse fino a me e l'afferrai con curiosità. Era il mio biglietto dove mi lamentavo della minestra!
Parlai con don Bosco. (...) Io non ero farina da far ostie: ma il mio dovere lo facevo e don Bosco mi voleva bene, anzi avendo posato lo sguardo su di me, pensava che potevo riuscire un buon prete. Sta di fatto che alla fine dell'anno, presentandomi a don Rua per avere il biglietto di uscita dall'Oratorio, mi sentii dire:
- Bene, bene, va' pure a casa, ma io trattengo qui il tuo corredo. Don Bosco mi ha detto che vuole che tu ritorni all'Oratorio; egli spera che potrai diventare...
Capii a volo e:
- Io non voglio farmi prete - l'interruppi bruscamente - e nemmeno voglio tornare all'Oratorio.
- Oh! e perché?
- Perché non voglio!
- Sarà, ma io scriverò a tuo padre ciò che mi ha detto don Bosco: quindi fa buone vacanze, mio caro, e arrivederci!
Partii molto scontento per non essere riuscito a ottenere il mio corredo né ad avere in mano il residuo del mio deposito in denaro. Ma il corredo giunse a casa, e giunsero anche i denari, e io non tornai più all'Oratorio e non rividi più don Bosco per molti anni... fino al 1881».
Don Bosco sulle scale dell'ospedale
«Già medico e assistente all'ospedale Mauriziano, un bel giorno, scendendo le scale, vidi salire un prete. Era don Bosco. Lo riconobbi, e volendo, nella prima impressione, passargli inosservato, indugiai sul pianerottolo, mi ritrassi contro il muro facendo contemporaneamente un inchino molto spiccio, che diceva: "Passi, passi, reverendo, e faccia presto che ho premura
M'ingannai. Anche don Bosco, sebbene avesse già gli occhi stanchi, subito riconobbe in me un antico allievo dell'Oratorio, e fermandosi mi s'accostò sorridendo ed esclamò:
- Ah! non mi scappi... Tu sei... aspetta, aspetta... te lo dico io... tu sei... Bestente, tu, Bestente! -. E di botto, come se continuasse un discorso interrotto il giorno prima, continuò:
- E sei ancora inquieto con don Bosco?
- E perché debbo essere inquieto con don Bosco? - risposi.
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- Allora perché non ti sei fatto più vedere? Vedi: credevo di proporti una carriera che mi pareva adatta... E tu ne hai seguita un'altra, è vero, ma vedo che ti sei fatto onore. Bravo, sono contento, e mi rallegro per te. Cercavo di abbozzare due parole di complimento e di scusa, e don Bosco accortosi del mio imbarazzo, senza darmi tempo di proseguire, continuò:
- Bene, bene, ora facciamo la pace. Ascolta: il giorno tale... sarà festa per i giovani dell'Oratorio e avremo con noi anche dei vescovi. Vieni anche tu a pranzo.
Volevo rifiutare, ma don Bosco non me lo consentì:
- Mi offenderei io - conchiuse -, se non venissi. Siamo intesi. Ti aspetto senz'altro.
Vi andai. (...) E tanto mi affezionai a don Bosco e all'Oratorio che ebbi l'onore di assistere don Bosco nell'ultima malattia. Io ero il più giovane dei medici che lo avvicinavano; e a me, come a un figliuolo, faceva le sue confidenze, quantunque avesse tutta la fiducia nei tre altri dottori, chiamati spesso a consulto: Albertotti, Fissore e Vignolo».
Una divisa che mette in imbarazzo
«Rammento che l'ultima volta che fui a visitarlo, il 29 gennaio 1888, essendo io uscito in quel mattino vestito da ufficiale per non so quale rivista, e non avendo più tempo di tornare a casa per cambiarmi, non sapevo se facevo bene a presentarmi a don Bosco in uniforme. Con tutta confidenza gli accennai il mio dubbio ed egli, quasi stupito, mi domandò:
- E perché?
- Perché - risposi - don Bosco è un prete e venirlo a trovare con una divisa che ricorda il Re... sa bene... il Papa e il Re... Il dominio temporale...
Don Bosco non poté trattenersi dal sorridere allegramente; poi, fattosi serio e scandendo quasi le parole:
- Ascolta, mio caro Bestente - mi disse -, siffatte questioni non riguardano nessuno di noi, né te né me... Penseranno a scioglierle quelli che possono scioglierle. Noi abbiamo altri doveri da compiere. Io, che sono prete, devo pensare a servire la Chiesa e il Papa, come meglio so e posso; e tu che vesti la divisa militare devi pensare a servir bene la Patria e il Re. Procuriamo ciascuno di compier bene il nostro dovere; ecco ciò che deve importare a me e a te, questo e null'altro (...)».
La lettera di un missionario
Il Bollettino Salesiano raccolse questi ricordi del dottor Tommaso Bestente nel giugno 1919. Alcuni mesi dopo, da Buenos Ayres, arrivò al direttore del Bollettino la lettera di un missionario salesiano, don Bartolomeo Molinari. Eccola.
«(...)Dopo aver letto il racconto riguardante il mio condiscepolo Bestente, ho sentito un gran desiderio di scrivere queste poche memorie, che non ho mai raccontato a nessuno (...).
Una mattina, verso le 9, don Bosco usciva dalla Chiesa di Maria Ausiliatrice per la porta laterale. I giovani facevano ricreazione, e molti corsero a dargli il buon giorno e a baciargli la mano. Mosso da curiosità, camminai anch'io verso don Bosco e per la prima volta lo vidi a pochi metri di distanza, poiché ancora non lo conoscevo. Appena mi scorse, mi diresse queste parole:
- Tu chi sei, e di dove vieni?
- Sono Bartolomeo Molinari, e vengo dalla Liguria.
- In che cosa ti occupi?
- Sono artigiano.
- Non ti piacerebbe studiare?
All'udire quelle parole, pensai subito che don Bosco volesse farmi studiar da prete, e ricordando le cose sciocche che nel mio paese avevo udito ripetere contro i preti, risposi prontamente e con un certo dispetto:
- No, signore: io voglio imparare un mestiere, e poi ritornarmene al mio paese.
- Va bene. Ma se per caso ti viene un po' di volontà di studiare, vieni a dirmelo. Abito in quella stanza che vedi lassù al terzo piano -; e ciò dicendo alzava il braccio e me la indicava; quindi continuò ad attraversare il cortile. Per qualche anno non pensai più alle sue parole.
Però, quasi tutti i giorni, dalle ore 9 alle 12 del mattino, vedevo una processione di gente di ogni età e condizione, la quale saliva le scale e andava a parlare a don Bosco: finché un giorno, chiesto il permesso al mio assistente, mi unii alla gente che saliva le scale e salii alla stanza di don Bosco.
Sulla soglia dell'anticamera il suo segretario, don Berto, guardandomi fisso e in tono piuttosto brusco, mi domanda:
- Tu che vuoi?
- Desidero parlare con don Bosco.
- Siediti e aspetta il tuo turno.
Vicino alla porta stava un quadretto rappresentante Mamma Margherita. (...) Sopra la porta c'era un cartello scritto con inchiostro comune, ma a grossi caratteri: "Una sola cosa è necessaria: salvare l'anima". Dissi tra me e me: "Le ha fatte scrivere perché non vadano a fargli perdere tempo coloro che vogliono trattare solo di cose materiali".
Intanto era venuto il mio turno e don Berto mi fece cenno di entrare. Don Bosco, che aveva accompagnato fino all'uscio uno che usciva, mi ricevette in piedi e, lasciò cadere la sua mano sopra la mia, toccandola leggermente. Sentii che era piuttosto fredda e alquanto rugosa. Mi disse in tono paterno:
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- Che vuoi, mio caro?
- Desidero che mi metta a studiare.
- Ricorderai che te lo proposi già io un giorno, nel cortile. Tu mi rispondesti che non volevi studiare, ma imparare un mestiere. Per ora ti dico anch'io di no, ma a questo patto: ritorna al tuo lavoro, e se un tale desiderio persiste in te, domandamelo di nuovo per lettera. Io ti risponderò.
Era la prima visita che avevo fatto al nostro Padre, e, soddisfatto e frettoloso, me ne tornai al mio dovere. (...) Un giorno prendo un foglio di carta e scrivo, più o meno, quello che avevo detto a voce e lo mando a don Bosco. Dopo pochi giorni, don Rua mi manda a chiamare in prefettura. Vi andai. Senza tralasciare di scrivere, mi accenna con gli occhi una busta e mi dice:
- È’ una lettera di don Bosco. Prendi e leggi.
Era la mia stessa lettera, con in margine queste parole:
- Faccia bene gli Esercizi Spirituali, e vedremo di accontentarlo.
Erano vicini gli Esercizi e io li feci. Dopo don Bosco mi mandò a chiamare e mi disse:
- Don Bosco ti passa tra gli studenti. Va' subito a dirlo a don Durando. Egli è nella sua stanza, in fondo a questo corridoio.
Conoscevo don Durando perché qualche volta veniva nel nostro cortile con una macchinetta elettrica, ci disponeva in forma di catena e ci dava la scossa per divertirci. Mi disse:
- Bene. Prendi questo biglietto e portalo al direttore delle scuole.
Feci così, ed entrai nelle scuole ginnasiali dell'Oratorio. Ho scritto queste cose per far conoscere sempre meglio il nostro Padre».
Buenos Ayres, ottobre del 1919. Don Bartolomeo Molinari, salesiano (BS, gennaio 1919, p. 14).
63. Terre lontane
La voglia di infilarsi in un bastimento
A 19 anni, Giovanni Bosco studente in Chieri pensò per la prima volta seriamente di diventare un missionario. A spingerlo c'era l'incerta situazione economica che l'aveva già fatto pensare ad entrare tra i Francescani. Ma c'era soprattutto un entusiasmo sincero per le opere missionarie. Tra la gente si diffondeva l'Opera della Propagazione della Fede. Le Lettere edificanti della stessa Opera, che «descrivevano le fatiche e i martiri dei Missionari» erano da lui lette «con avidità» (MB 1, 328).
L'intervento di don Cafasso lo dissuase.
Ma nel 1837, mentre frequenta il secondo anno di seminario, una notizia rimbalza sui pochi giornali del tempo, e viene annunciata dai pulpiti delle chiese, accendendo le fantasie: alcuni Oblati di Maria dal santuario torinese della Consolata partono missionari per la Birmania, a «portare per primi il nome e la soave immagine della Consolata nelle lontane plaghe infedeli ».
In quell'anno comincia in Piemonte l'affascinante e robusta predicazione di padre Guglielmo di Piovà, che diventerà il Cardinale Massaia, missionario in Etiopia. I frutti di quella predicazione missionaria si potranno contare dopo alcuni anni: i missionari degli Stati Sardi nel 1841 sono 68, nel 1849 salgono a 221, nel 1853 arrivano a 324. Anche le offerte per aiutare i missionari sono imponenti: dal 1834 al '44 negli Stati Sardi sono raccolte 652.181 lire, mentre nel resto d'Italia solo lire 619.452 (2 miliardi e 600 milioni del 1986 contro 2 miliardi e 477 milioni).
Nel 1841 don Bosco entra nel Convitto di don Cafasso. E sente leggere in refettorio (durante il silenzio rituale che accompagna i pasti) gli Annali della Propagazione della Fede. Don Cafasso si entusiasmava a sentir raccontare le storie dei missionari e delle conversioni tra gli infedeli. E il giovane e ardente don Bosco (MB 2,203 ss) per qualche tempo pensò seriamente di infilarsi su un bastimento insieme agli Oblati di Maria. Ripensava al sogno dei 9 anni, e gli pareva che quelle turbe di ragazzi lo aspettassero al di là dei mari.
Don Cafasso, però, dopo averlo visto maneggiare la grammatica spagnola e quella francese, gli disse risolutamente: «Voi non dovete andare nelle missioni». «E perché?». «Non vi sentite di fare un chilometro, anzi di stare un minuto in vettura chiusa senza gravi disturbi di stomaco. E vorreste passare il mare? Morire- ste per via!». Il progetto fu accantonato per la seconda volta.
Il fazzoletto bianco
1846. L'Oratorio ha posto radici stabili a Valdocco, e l'idea delle missioni torna ad affiorare. «Il giovane Giacomo Bellia - ricorda Ascanio Savio - abitava in una casa vicina all'Oratorio, e dopo aver pranzato portava a don Bosco gli Annali della Propagazione della Fede. Seduto presso la mensa, Bellia faceva ad alta voce lettura di quei fascicoli. E don Bosco, dopo aver udito le narrazioni delle gesta dei missionari, molte volte esclamava: «Se avessi molti preti e molti chierici, vorrei mandarli ad evangelizzare!» (MB 3,363).
Michele Rua ricordava di averlo visto giocare con un fazzoletto bianco in mezzo ai ragazzi che lo guardavano in silenzio. Col fazzoletto faceva una palla, la faceva saltare da una mano all'altra, e intanto diceva: «Se potessi avere dodici giovani dei quali fossi padrone di disporre come dispongo di questo fazzoletto, vorrei spargere il nome di Gesù... nelle terre lontane lontane» (MB 4,424).
Direttore dell'Opera della Propagazione della Fede a Torino, in quegli anni, è il canonico Giuseppe Ortalda, dai piani grandiosi ed entusiasti. Per sostenere i missionari piemontesi, lancia nel 1852 una grandiosa lotteria. La ripete nel 1858 appoggiandola con una esposizione di oggetti esotici inviati dalle
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missioni. La curiosità e l'entusiasmo sollevati da quegli oggetti strani «che vengono da altri mondi» sono enormi. I vescovi appoggiano la lotteria con circolari e lettere pastorali, l'aristocrazia forma comitati promotori, il governo e la stampa appoggiano, le parrocchie fanno collette generose. Il denaro affluito è tanto, che Ortalda lancia un periodico intitolato Esposizione a favore delle Missioni Cattoliche. È la prima pubblicazione periodica italiana esclusivamente missionaria, e vede la luce il 15 dicembre 1857.
Lettere dei piccoli seminaristi cinesi
Due anni dopo, nei locali del Cottolengo, a pochi passi dall'Oratorio, Ortalda fonda il «Piccolo Seminario delle Missioni», con un centinaio di allievi di varie diocesi. A benedirlo viene il Visitatore Apostolico delle missioni cinesi. Egli porta saluti e lettere dei piccoli seminaristi cinesi, che studiano a Hu-pé. Tra i ragazzi di Torino e quelli della Cina si stabilisce una corrispondenza in lingua latina, che certamente desta emulazione nell'Oratorio di Valdocco (dove nel dicembre di quello stesso 1859 sedici giovani chierici iniziano con don Bosco la Congregazione Salesiana).
Il can. Ortalda aveva progetti troppo grandiosi. «Non conosceva il valore del denaro», scriverà di lui il can. Dervoeux. E le sue opere, pur splendide, dovettero chiudere. Ma l'apostolato missionario da lui tanto incrementato diede ugualmente i suoi frutti. Nel 1861 i missionari piemontesi e sardi sparsi nel mondo erano 336. Di essi ben 12 erano vescovi: sei in Cina, due in Etiopia, uno nel territorio delle Montagne Rocciose...
È’ difficile capire il fervore missionario che don Bosco mise nel cuore dei suoi giovani e le grandi realizzazioni missionarie dei Salesiani se non si parte di qui. Giovanni Bosco crebbe in una Chiesa missionaria, protesa a portare la sua fede a genti lontane e meno fortunate. In questa Chiesa, Giovanni crebbe, respirò un'at- mosfera, e nutrì la vocazione sua e quella dei suoi giovani.
Nel dicembre del 1864 a Valdocco giunge il grande missionario della Nigrizia, Daniele Comboni. È’ circondato di entusiasmo. Egli parla e «i giovani sentivano nascersi in cuore gagliardissimo desiderio di accompagnarlo». Durante una ricreazione, Comboni si rivolse a un prete salesiano e l'invitò a partire con lui per l'Africa. Gli rispose: «Veda, Padre, se il mio Superiore me lo permette, io prendo il breviario e la sua benedizione, e parto subito». Comboni contò molte volte quell'episodio, specialmente dopo che quel prete fu veramente partito, non per l'Africa ma per l'America del Sud, con il permesso e la benedizione di don Bosco. E concludeva dicendo: «L'opera di don Bosco, che ha gente simile, non può che fare molto del bene» (MB 7,825s).
Il primo sogno missionario
Nel 1872 tutto il Piemonte cattolico vive giornate di grande entusiasmo per il cinquantesimo dell'Opera della Propagazione della Fede. A Torino giungono tutti i Vescovi del Piemonte, e il Papa manda una sua lettera personale.
E proprio durante questo tempo, una notte di don Bosco è rigata da un nuovo, misterioso sogno. Condenso il suo racconto, contenuto in MB 10,54-55: «Mi pareva di essere in una regione selvaggia e sconosciuta. Era un immensa pianura alla quale facevano da confine lontanissime montagne scabrose. Turbe di uomini percorrevano a cavallo quella pianura: quasi nudi, statura straordinaria, colore tra il bronzo e nero. Vestivano lunghi mantelli di pelli di animali. Per armi avevano lance e fionde.
Ed ecco spuntare all'estremità della pianura molte persone: erano missionari che venivano a predicare la religione di Gesù. I barbari, però, appena li videro, si avventarono contro e li uccisero.
Ma ecco in lontananza un altro drappello di missionari. Si avvicinavano ai selvaggi con volto allegro, preceduti da una schiera di ragazzi. Mi avvicinai: erano i nostri salesiani! "Vengono a farsi uccidere!" pensai rabbrividendo. Invece i barbari abbassarono le armi e accolsero i nostri con segni di cortesia. I Salesiani si inginocchiarono, e anche i selvaggi si inginocchiarono. Allora uno dei salesiani intonò Lodate Maria, o genti fedeli... E quelle turbe continuarono il canto, in maniera così fragorosa che mi svegliai».
Dopo il sogno don Bosco stette zitto, e nei ritagli di tempo cercò sugli atlanti «l'immensa pianura alla quale facevano da confine lontanissime montagne». Si soffermò sull'Etiopia, sulle pianure della Cina, su quelle dell'India, dell'Australia. C'era però sempre qualche particolare che non quadrava. Dov'era la terra del sogno?
La terra del sogno è la Patagonia
Nel dicembre 1874, sulla sua scrivania, giunse una lettera di monsignor Aneyros, arcivescovo di Buenos Ayres. Proponeva a don Bosco di mandare missionari in Argentina per dedicarsi prima di tutto ai numerosissimi emigrati italiani, che mancavano di ogni assistenza religiosa. E poi per spingersi a sud, nella Patagonia sconfinata, dove le tribù degli indios Araucani non avevano mai sentito parlare di Gesù Cristo.
Don Bosco consultò febbrilmente atlanti e carte geografiche. La Patagonia! Era proprio quella la immensa pianura bordeggiata da lontane e scabre montagne. Era la terra delle tribù libere e selvagge che usavano lancia e fionda. Lì si era posato il dito di Dio.
Nel gennaio del 1875 don Bosco diede il grande annuncio ai Salesiani e ai giovani. «Io ascolto la voce che viene da lontano e grida: "Veniteci a salvare!" Sono le voci di tante anime, che aspettano una mano benefica, che li metta per la via della salvezza...»
Quasi tutti risposero entusiasti: «Don Bosco, sono pronto a partire!». Don Bosco, però, non voleva mandare in America le «scartine», ma il meglio della Congregazione. Sarebbero state undici le spedizioni organizzate da don Bosco, ma nessuna fu preparata con l'entusiasmo, la febbre e l'impegno della prima.
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Giovanni Cagliero alla testa dei missionari
Dopo averci pensato a lungo, decise che alla testa dei missionari sarebbe partito don Giovanni Cagliero, il ragazzino che tanti anni prima l'aveva accompagnato sul pulpito a Castelnuovo, e che aveva fatto di don Bosco il suo idolo. Al «suo» don Bosco non aveva mai negato niente: aveva studiato lettere, musica, teologia, aveva dato esami e fatto scuola, aveva lavorato in oratori vicini e lontani, era diventato salesiano e prete, tutto come gli aveva indicato don Bosco. E sempre con energia ed entusiasmo. Nella preghiera che recitava al mattino appena sveglio, diceva: «Vi adoro, mio Dio. Vi ringrazio di avermi fatto cristiano e salesiano».
A 37 anni era diventato una delle due giovani colonne della Congregazione: Michele Rua, l'ombra silenziosa e fedele di don Bosco, e Giovanni Cagliero, la mente entusiasta e il braccio forte di don Bosco. Tutto l'avvenire dei Salesiani, umanamente parlando, gravava sulle loro spalle. Cagliero, laureato in teologia e professore dei chierici, insuperabile maestro e compositore di musica, sembrava indispensabile all'Oratorio.
Eppure una sera don Bosco l'avvicinò e gli disse:
- Vorrei mandare uno dei nostri preti più antichi ad accompagnare i missionari in America. Uno che si fermi là tre mesi, finché siano bene a posto, che li consigli con sicurezza nei momenti più difficili.
- Se don Bosco pensa e me - rispose calmo Cagliero -, io sono pronto.
- Va bene. Allora preparati (MB 11,372).
Quei «tre mesi» si sarebbero trasformati in trent'anni. Cagliero sarebbe diventato, per i suoi meriti missionari, il primo Vescovo e il primo Cardinale salesiano.
Un altro prete di valore che partiva era don Fagnano. Aveva un cuore pieno di sogni e una volontà indomabile. Era stato soldato di Garibaldi. Si affezionerà appassionatamente agli indios della Terra del Fuoco, distrutti dalle malattie e dalle armi dei bianchi, e darà la vita per loro.
Gli emigrati, poi gli indios
Il piano di lavoro per i missionari fu tracciato con molta chiarezza. Dapprima si sarebbero occupati degli emigrati. (Sei anni dopo, al re e alla regina d'Italia che visitavano la Calabria, il presidente dell'Associazione di Cosenza avrebbe detto in pubblico discorso: «Vedrete gli addobbi ufficiali...: ma voi abbassate gli occhi, e v'accorgerete di passare in mezzo a mortifere paludi, a pestiferi stagni, ove il contadino si ammala e muore senza soccorsi, ove l'agricoltura langue e le bonifiche sono di là da venire. La nostra Calabria sarebbe terra immensamente ricca, ma sì per la malaria, sì per le cattive amministrazioni dei municipi e delle province, la miseria ha invaso queste contrade un dì prospere, e il popolo emigra in massa nelle Americhe...» (AL GR 182 s). Secondo le statistiche del Clough, dal 1871 al 1880 ogni anno emigravano 98 mila italiani. Nel decennio seguente, 165 mila ogni anno (p. 182). Per l'Argentina partivano quasi 40 mila italiani all'anno.
Mentre s'impegnavano per gli emigranti, a piccoli gruppi sarebbero partiti per la terra degli indios, la Patagonia.
L'addio ai missionari avvenne l'11 dicembre 1875, nel Santuario di Maria Ausiliatrice. Tra una folla fittissima, don Bosco parlò con voce a tratti commossa:
«Vi raccomando con insistenza particolare la posizione dolorosa di molte famiglie italiane... Andate, cercate questi nostri fratelli, che la miseria e la sventura portò in terra straniera...
Nelle regioni che circondano la parte civilizzata vi sono grandi tribù selvagge... Tra queste genti voi pianterete il regno di Dio...» (MB 11,385ss).
Un foglietto scritto da don Bosco
Quella stessa sera, don Bosco accompagnò i missionari in partenza al porto di Genova. Salirono sulla nave il giorno 14, e don Bosco era tutto rosso per lo sforzo di trattenere la commozione. Quando la sirena diede il segnale della partenza imminente, don Cagliero intonò il più antico canto alla Madonna dell'Oratorio, quello che don Bosco aveva sentito nel sogno delle missioni: Lodate Maria, o genti fedeli...
Nel nome della Madonna si era iniziato l'Oratorio. Nel suo nome si iniziavano le missioni salesiane, che lentamente si sarebbero estese a tutta l'America del Sud, all'Asia, all'Africa...
Ogni partente portava con sé un foglietto scritto da don Bosco: il suo testamento per i missionari salesiani di allora e di sempre:
«Cercate anime, non denari, né onori, né dignità.
Prendete speciale cura degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri.
Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni, e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini.
Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi. Il bene di uno sia il bene di tutti. Le pene e le sofferenze di uno siano pene e sofferenze di tutti.
Nelle fatiche e nei patimenti, non dimenticate che abbiamo un gran premio preparato in Cielo. Amen» (MB 11,408).
64. La Patagonia sognata
«La Boca» come Valdocco
Attraverso le lettere che sollecitava continuamente, don Bosco seguiva con commozione affettuosa le vicende dei suoi missionari.
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Gli si riempirono gli occhi di lacrime quando lesse, nella prima lettera di don Cagliero, che a Buenos Ayres venivano circondati benevolmente dai giovani, per lo più italiani, ma che quei giovani, alla richiesta di fare il segno di croce, guardavano meravigliati, non comprendendo cosa volesse dire. Alla domanda se andavano a Messa alla domenica, rispondevano di non sapere quand'era domenica. Il quartiere «La Boca», popolato di miseri immigrati italiani, era la fotocopia della periferia di Torino quando don Bosco vi era arrivato con il suo Oratorio. E don Cagliero ripeteva esattamente ciò che don Bosco aveva fatto allora: parlava, domandava, si interessava, giocava con loro, faceva scuola di lettura e di aritmetica.
Don Bosco mandò laggiù altri gruppi di missionari, anche giovanissimi, perché capiva che là era la nuova frontiera della sua Congregazione.
16 aprile 1879. Da Buenos Ayres parte la prima spedizione missionaria verso le terre degli indios, all'estremo sud. Nel sogno, a don Bosco quelle terre erano sembrate vicine alla città. Ci volle invece un viaggio di 1300 chilometri, percorsi a cavallo e su carri traballanti, in compagnia dei soldati che andavano laggiù a costruire una linea di fortini.
La Patagonia raggiunta nel giorno dell'Ausiliatrice
La grande notizia, attesa dai Salesiani e dai loro amici, fu data dal Bollettino Salesiano di ottobre: «LE PORTE DELLA PATAGONIA APERTE ALLE MISSIONI SALESIANE». La recava una lunga e pittoresca lettera di don Costamagna, che fu letta golosamente da giovani e adulti. Riporto i brani principali:
«Partimmo dal Carrhue sul finire di aprile, un po' sul carro e il più a cavallo, camminando ora tra l'avanguardia, ora tra la retroguardia di un piccolo esercito...
Passammo nella fortezza di Puan e Forte Argentino: fortezze terribili... che i nostri Piemontesi di Gianduia non penerebbero a prendere a pomi cotti. Colà battezzammo un'ottantina di pargoletti e ragazzini. Seguimmo quindi la via del deserto in compagnia non solo dell'esercito, ma di frazioni di alcune tribù di Indi...
L'undici di maggio, dopo essere passati per valli e monti, lagune e torrenti, arrivammo finalmente al Rio Colorado. Sulla sua sponda celebrammo la S. Messa...
In seguito battezzammo una quarantina di bambini e ragazzini sopraggiunti con altre truppe, e ci disponemmo al passo del Rio. Guadammo come tutti gli altri, cioè inginocchiati sul dorso del cavallo che nuotava, ed afferrandoci con ambe le mani alla sella...
Ed ecco che il 23 di maggio, verso le 4 di sera sento dire che si è perduto il sentiero, quel sentiero appunto che dal Rio Colorado ci doveva condurre al Rio Negro (il confine della Patagonia). Non potei più resistere... Ben presto udii le voci: “Abbiamo ritrovato un sentiero”.
Non avevo sperato invano. Al mattino, 24 maggio (festa di Maria Ausiliatrice, la più cara al cuore di ogni Salesiano), alzatomi all'albeggiare, e scossa la brina che era caduta su quello che io dovevo chiamare mio letto, riscaldatomi ad un buon fuoco, montai a cavallo allo spuntar del sole, ed ora trottando ora galoppando per circa 40 miglia (circa 64 chilometri), giungevo a Choele-Choel; ed alle 4 e 34, precisamente nell'istante in cui il sole si nascondeva dietro la Cordigliera delle lontane Ande, io metteva piè a terra; e sulla sponda del Rio Negro, che è quanto dire sulle porte della Patagonia, intonava dal fondo del mio cuore l'inno di grazia alla nostra cara Madre Maria Ausiliatrice... che precisamente nel giorno della sua festa conduceva questo povero Salesiano sul luogo della Missione da tanti anni sospirata...» (BS 1879, 10,2ss).
La guerriglia degli Araucani
Alla foce del Rio Negro, un fiume immenso, si erano aggrumati due nuclei di capanne, che sarebbero diventate città: Patagònes e Viedma. Don Fagnano, parroco di Patagònes, aiutato da quattro Salesiani e quattro FMA, dovette pensare alla Pampa, il territorio a nord del Rio Negro, vasto come l'Italia Settentrionale. Parroco di Viedma fu don Milanesio, al quale fu assegnata tutta la Patagonia, grande come l'Italia dal Po alla Calabria. Lì vivevano gli indios Araucani, visti in sogno da don Bosco, maltrattati e perseguitati dai bianchi. Don Milanesio e i Salesiani divennero i loro difensori, i loro avvocati presso il Governo centrale argentino.
A tratti si accendeva la guerriglia rabbiosa, in cui gli indios si scatenavano contro le fazendas dei bianchi, e subivano come reazione devastazioni e massacri.
Quando l'ultimo capo araucano, Namuncurà, si decise a trattare la pace (1883), scelse come mediatore don Milanesio.
L'abbraccio del giovane vescovo
8 ottobre 1884. Una lettera con i sigilli rossi del Vaticano giunge a Valdocco. Porta la notizia che il Papa ha nominato don Giovanni Cagliero «vescovo della Patagonia». E’ uno dei momenti più felici per don Bosco. L'antica visione dei giganti color di rame attorno a un ragazzo moribondo non era stata l'illusione di un mo- mento di stanchezza. Si avverava.
Cagliero fu consacrato nel Santuario di Maria Ausiliatrice, tra una folla traboccante di ragazzi e di gente. Al termine, il giovane vescovo (46 anni) si diresse verso sua madre, vecchietta bianca di 80 anni, che un giorno lontano l'aveva «regalato» a don Bosco. L'abbracciò con tenerezza. Poi cercò con lo sguardo il «suo» don Bosco. Era in un angolo del presbiterio, con la berretta in mano. Il vescovo non si vergognò di mettersi a correre: gli gettò le braccia vigorose al collo. In quell'abbraccio forte e delicato c'era il suo «grazie».
L'ultimo sogno missionario
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Nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1886, mentre mons. Cagliero era tornato in Patagonia, don Bosco ebbe l'ultimo sogno missionario. Lo raccontò, con la voce ormai ridotta a un'ombra, a don Rua. Lo condenso da MB 18,72. «Da una vetta spinsi lo sguardo in fondo all'orizzonte. Vidi una quantità immensa di giovanetti, che corsero intorno a me e gridarono:
- Ti abbiamo aspettato, ti abbiamo aspettato tanto. Una pastorella ci disse:
- Spingete lo sguardo lontano. Che cosa vedete?
- Io leggo "Valparaiso" - disse un fanciullo.
- Io leggo "Santiago" - disse un altro.
- Io leggo "Pechino" - disse un altro ancora.
- Ora - disse la pastorella che guidava un immenso gregge
- tira una sola linea da Pechino a Santiago, e fai centro in mezzo all'Africa. Cosa vedi?
- Dieci centri di stazioni missionarie.
- Ebbene, questi centri daranno moltitudini di missionari per provvedere a queste terre. Poi vedi quegli altri dieci centri fino a Pechino? Anche quelli formeranno i missionari per queste terre. Là c'è Hong-Kong, là Calcutta. Avranno case, studi e centri di formazione.
- Ma come fare tutto questo? Le distanze sono enormi. I Salesiani pochi.
- Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e i figli loro».
Pare incredibile, ma se oggi si prende una carta geografica e si tirano quelle linee, quel sogno si vede già realizzato al 50 per cento. E il resto sta realizzandosi proprio in questi anni.
Commentandolo con don Lemoyne, don Bosco con voce «tranquilla ma penetrante» disse: «Quando i Salesiani saranno nella Cina e si troveranno sulle due sponde del fiume che passa nelle vicinanze di Pechino!... Gli uni verranno dalla sponda sinistra..., gli altri dalla sponda destra... Oh! quando gli uni andranno incontro agli altri per stringersi la mano... Quale gloria per la nostra Congregazione... Ma il tempo è nelle mani di Dio!» (MB 18,74).
65. La morte annunciata
«Io, don Berto, testimonio»
La mortalità dei preadolescenti, negli ultimi decenni del 1800, era ancora molto alta.
Don Gioachino Berto, segretario di don Bosco per più di vent'anni, ha testimoniato: «Egli predisse, assai prima che accadesse, la morte di quasi tutti i giovani (che morirono nell'Oratorio), notando il tempo e le circostanze del loro passaggio all'altra vita. Una volta o due ne avvertì chiaramente il giovane. Sovente lo fece custodire da un buon compagno; talora ne disse in pubblico le iniziali del nome. Queste predizioni, per quanto ricordo, posso assicurare che ebbero tutte il loro pieno compimento. Qualche rarissima eccezione vi fu, ma tale che servì di conferma dello spirito profetico di don Bosco. Io, don Berto, testimonio oculare e auricolare, scrivo queste cose» (MB 5,387).
Per don Bosco la morte era l'incontro con Dio. Bisognava arrivarci ben preparati, perché Egli ci avrebbe giudicati.
Sapere il momento della nostra morte, quindi, era per lui un favore grande: ci si poteva preparare ed essere sicuri del Paradiso.
Ma come reagivano i ragazzi a queste previsioni? C'è una testimonianza ingenua e fresca che ce lo racconta. Una testimonianza poco conosciuta, firmata da Natale Brusasca.
«Giunse la sera del 31 dicembre»
«Il giorno 24 ottobre 1876 io entravo nell'Oratorio di S. Francesco di Sales per compiervi gli studi. Avevo undici anni compiuti, e attendevo il giorno del Santo Natale per compiere i dodici. Rimasi colpito in modo meraviglioso dalla vita che si faceva all'Oratorio. Mi incantava la bontà di tutti i superiori e professori, l'allegria dei compagni, la magnificenza della chiesa di Maria Ausiliatrice. Mi pareva di essere entrato in un paradiso terrestre.
Passarono i primi due mesi e giunse la sera del 31 dicembre 1876. Io avevo già conosciuto e preso grande affetto a tutti i superiori dell'Oratorio, ma non avevo ancora imparato a conoscere don Bosco, che già a quel tempo non poteva più trattenersi a lungo in mezzo a noi ragazzi. (In novembre era stato a Genova, il 1° gen- naio sarebbe partito per Roma).
Quella sera, dopo le orazioni, acclamato da tutti gli alunni dell'Oratorio, studenti e artigiani, salì la cattedra, quel buon prete sorridente; ma, dico la verità, io non capivo perché si facessero a lui tante ovazioni. Anzi, io pensavo tra me: "Perché non si applaude egualmente don Lazzero, don Durando e gli altri superiori, quando ogni sera ci vengono a parlare? Non sono egualmente buoni, come quel prete che sorride con tanta grazia?" Avendo io fatto queste osservazioni ad un mio vicino, egli mi disse:
- Tu sei nuovo, non conosci ancora don Bosco. Egli è il superiore di tutti i superiori della Casa, il fondatore e quindi il padrone di tutto l'Oratorio.
Ed io: - Anche della chiesa?
- Anche della chiesa... L'ha fabbricata lui!...
Fui subito convinto... e confuso.
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Intanto era cessato il battimani e sentii la voce di don Bosco che diceva tra le altre cose:
- Questa è l'ultima sera del 1876. Mentre voi dormirete comincerà il 1877, ed io son venuto per darvi la strenna...
Qui tutti i compagni ricominciarono a battere le mani, io invece pensavo tra me: - Che strenna ci darà?... Dei soldi no, perché il regolamento proibisce di tenerli; dunque dei libri! - E così pensando, guardavo se vicino alla cattedra ci fosse qualche catasta di libri; ma non vedendo nulla, conclusi tra me e me che ci avrebbe regalato una bella immagine ciascuno. S'era di nuovo fatto un silenzio religioso, e la voce chiara, insinuante di don Bosco, continuava:
- Procurate di fare sempre santamente le vostre Confessioni e Comunioni, perché di tutti voi che siete qui presenti in questo momento e che sentite le parole di don Bosco, alcuni passeranno all'eternità durante l'anno 1877 e non si troveranno più qui l'ultima sera dell'anno che sta per cominciare. Di voi, otto debbono morire nel 1877... e poi altri ancora; e qualcuno di questi comincia con la lettera B...»
«Guarda, guarda dove sono capitato!»
«A questo punto io cessai di seguire il discorso di don Bosco!... Per me, Brusasca, ce n'era d'avanzo. La mia povera testa si trovò subito in confusione... Avrei preferito essere al mio paese nativo, e mi posi a fare questi ragionamenti:
"Guarda, guarda, in che collegio mi ha messo mio padre!... ed io ci stavo tanto volentieri... ed avevo fatto amicizia con questi superiori... Però buoni!... Dunque io debbo morire!... Io mi chiamo Brusasca!... Basta!... Domani scriverò a mio padre che mi venga a prendere, perché.. perché io non voglio più stare all'Oratorio... sì, gli scriverò..."
Ma ecco subito un altro pensiero:
"Don Bosco disse che devono morire parecchi dei presenti, ma non disse che sarebbero morti nell'Oratorio; dunque, sebbene ritorni al mio paese, io morrò ugualmente, perché egli ha detto che sarebbe morto qualcuno della lettera B... Che debbo dunque fare?... Dovrò scrivere?... Dovrò fuggire? Dovrò restare?..."
A questo punto del mio soliloquio si rinnovarono gli applausi e don Bosco discendeva dalla cattedra. I giovani, parte si ordinavano per andare nei dormitori, e parte, come una fiumana, affluivano verso don Bosco. Io domandai al mio vicino:
- Dove vanno?
Ed egli: - Vanno a domandare a don Bosco se sono essi che devono morire.
- Ah! sì!?... Allora ci vado anch'io.
E pensava: "Voglio restar l'ultimo e aspetterò, dovessi aspettare fino a domani, perché non voglio che gli altri sentano ciò che don Bosco dirà a me
Mi posi in coda alla lunga fila di coloro che dicevano una parola a don Bosco e ne avevano sottovoce la risposta».
«Vorrei sapere se devo morire!»
«Intorno a don Bosco non v'erano che alcuni superiori... Mi avvicinai anch'io e don Bosco, sorridendo, mi domandò:
- E tu che vuoi?
Mi feci vicino più che potei e gli dissi:
- Vorrei sapere se io devo morire... - Come ti chiami?
- Io mi chiamo Brusasca Natale!... -Bene!... Sarai amico di don Bosco? - Si, ma devo morire?
- Sta' allegro, e procura di far sempre bene le tue Confessioni e le tue Comunioni... Sta' allegro e va' a dormire!
Gli baciai la mano, e né allegro, né scontento, mi recai in dormitorio. Non nascondo che quella sera avevo un po' di paura di morire nel nuovo anno: ma in breve mi sentii rassicurato pensando alle parole "Sta' allegro!", e tornai più allegro e più felice di prima».
Amico di Cornelio Baldomero
«La vita dell'Oratorio era tanto varia, ed io così giovane, che non pensavo più alla strenna di don Bosco e alla lettera B...
Io vivevo nell'Oratorio i giorni più felici, benché non pensassi, come avevo promesso, a farmi vero amico di don Bosco. Eppure egli pensava anche a me. Vedeva con piacere che i superiori si servivano di me, fornito di bella voce, per cantare le lodi della Madonna, mi conosceva personalmente, e a quando a quando mi parlava. Insomma aveva presa, come detta di cuore, la mia parola di essergli amico, mentre, quella sera, io avevo detto un si solo nel desiderio di affrettare la sua risposta che mi togliesse dall'incertezza in cui ero, nel timore di dover morire!
E morì realmente qualcuno della lettera B! Briatore Giovanni, Bagnati Antonio, Boggiato Luigi, Becchio Carlo...
Fin dai primi mesi del 1877 avevo avuto la fortuna di essere stato scelto per la scuola superiore di musica,
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che doveva eseguire la gran Messa del Rossini...
Tra gli altri io guardavo con stima affettuosa un giovanetto che si chiamava Cornelio Baldomero. Era assai buono, ma di poco ingegno, e il M°. Dogliani l'aveva fatto segretario della scuola di musica, affidando a lui le chiavi dell'armadio musicale. Io lo stimavo assai, e quando non potevo passare la ricreazione col M0. Dogliani o con don Lazzero, ero sempre con Baldomero.
Ricordo che, un giorno, udimmo le voci dei nostri compagni che gridavano: Viva don Bosco! Viva don Bosco! Baldomero mi disse:
- Andiamo a baciare la mano a don Bosco.
Don Bosco veniva verso di noi, circondato e pigiato in mezzo a una gran turba di giovanetti. Egli era sorridente ed aveva una parola per ciascuno.
Noi due ci avvicinammo a lui, ed egli, il buon Padre, ci salutò con uno sguardo sorridente. Baldomero baciò l'a mano destra ed io la mano sinistra di don Bosco, e le nostre dita si trovarono confuse tra le mani di don Bosco.
Si attraversò l'estremo angolo del cortile, fino alla scala che guida alla camera di don Bosco. Il tempo della ricreazione volgeva al suo fine, ed egli, salutati ad uno ad uno gli altri giovani, restò in ultimo con noi due, Baldomero alla destra ed io alla sinistra. Salimmo alquanto incomodamente le scale... Quando egli apparve in mezzo a noi due sul balcone, tutti i giovani, con la testa rivolta in su, gridarono: - Viva don Bosco! -. E don Bosco, fatto un saluto colla mano a tutti i giovani, si rivolse a me e disse:
- Tu discendi e va' in cortile.
Gli baciai la mano. Sentivo in cuore un 'invidiuzza per Baldomero. Ma stimando assai l'amico. Fui contento che don Bosco gli avesse fatto quella preferenza. Tuttavia, pieno di curiosità di sapere perché don Bosco l'avesse trattenuto, mi fermai ad attenderlo.
Finalmente lo vidi discendere, gongolante di gioia, con una bellissima immagine di Maria Ausiliatrice in mano, mentre suonava la campanella della scuola. Il dialogo fu quindi breve e rapidissimo.
- Che ti ha detto don Bosco?
- Mi ha dato questa immagine...
- Oh! come è bella!... ma ci voleva tanto tempo per darti un...
- Mi ha anche confessato.
- E mi ha detto tutti i peccati!
- Che cosa?... a me non li ha detti mai!
- Come sono contento!... Basta, andiamo a scuola.
Don Bosco partiva (partì il 18 dicembre 1877) per Roma e... Baldomero, che fino a quel giorno era stato sanissimo, alcuni giorni dopo (si era già al principio del 1878) era costretto ad andare in infermeria».
Mentre il campanello ci chiamava
«Ricordo che nel momento che si doveva andare a scuola di musica, egli mi chiamò, mi diede le chiavi dell'armadio, e mi disse di avvertire il M0 Dogliani che lui non stava troppo bene.
Feci la commissione, e dopo cena salii in infermeria per vedere l'amico. Egli mi disse:
- Caro Brusasca, non sto bene, e l'infermiere è andato a prendermi il letto in camerata per farmi restare qui in infermeria.
Gli feci coraggio, e, venuto il momento di recitare le orazioni, pregai per il mio amico e andai a letto.
La mattina seguente, verso la fine degli studi, e precisamente mentre suonava il campanello che ci chiamava alla santa Messa, entrò nel salone il nostro catechista don Mosè Veronesi, e con voce rotta dalla emozione ci disse: - Cari giovani, in questo momento è volata al cielo l'anima di Baldomero Cornelio, dopo aver ricevuto i Santi Sacramenti... Quelli che possono, facciano la santa Comunione per lui, tutti gli altri recitino bene il santo Rosario. Il Signore disporrà che la carità che noi usiamo agli altri, un giorno da altri venga usata per noi... L'effetto di quelle parole fu profondissimo in tutti. I confessionali vennero assiepati e la Comunione fu veramente generale. La feci io pure; ma all'orecchio mi risuonavano sempre le parole di don Bosco: - Di voi, otto debbono morire nel 1877, e poi altri ancora; e qualcuno di questi comincia con la lettera B...
Io continuai ancora lungo tempo a suffragare l'anima dell'amico. La sua scomparsa mi impressionò assai più di tutte le altre morti. Mi è sempre rimasta la certezza che il carissimo Padre, illuminato dal Signore che prima del suo ritorno (da Roma) il buon Cornelio Baldomero sarebbe passato all'eternità, lo volle egli stesso con paterna carità preparare al gran passo.
Così egli mi assista dal Cielo... nell'ora mia!».
Sacerdote Natale Brusasca. Chioggia, 2 novembre 1916, (Bolì. Salesiano 1916, p. 358).
66. Un commerciante, un negoziante, un marchese: i cooperatori
«Portavo in mano un po' di merluzzo»
«Io ho bisogno di tutti», disse più di una volta don Bosco (MB 18,42). E a tutti quelli che l'aiutavano dimostrava riconoscenza.
Nel 1876, mentre si trovava a Chieri, vide Giuseppe Blanchard, il giovanottino che tanti anni prima l'aveva sfamato con pane e frutta (v. p. 64). E lo stesso Blanchard a raccontare, da povero contadino, quell'incontro: «Don Bosco non si dimenticò; non arrossì di quanto io gli voleva fare quand'era giovane e così a disagio. Io
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l'aveva perduto di vista, e se l'avessi anche incontrato forse non avrei più osato né salutano né avvicinarmi, tenendo per fermo di non essere riconosciuto. Quanto m'ingannava! Un dì lo incontrai in Chieri, mentre egli in mezzo a molti preti venuti a riverirlo, stava per entrare nella casa già Bertinetti, dove egli era alloggiato, ed appena mi vide, lasciò la compagnia e mi venne a salutare. "Oh Blanchard, e come va? - Bene, bene, signor Cavaliere..." Io intanto cercavo di sbrigarmi perché mal in arnese, e con il mio pranzo tra le braccia, non osava discorrere così alla domestica con don Bosco, che mi pareva diventato un gran che. Portavo in una mano un po' di merluzzo, maccaroni, e dall'altra una bottiglia di vino. Ma don Bosco mi disse: "Non vuoi più bene ai preti? - Oh sì! che voglio sempre bene ai religiosi, ma in questo arnese non oso fermarmi". Allora don Bosco mi soggiunse: "Mio caro, ricordo che mi hai tolto tante volte la fame, e sei stato nelle mani della divina Provvidenza uno dei primi benefattori del povero don Bosco!". E qui rivolto a tutti quei preti, che lo accompagnavano, disse a mio riguardo:
"Ecco uno de' miei primi benefattori ».
Faceva militarmente il catechismo
Da don Calosso che gli regalò l'ultimo anno della sua vita, al banchiere Cotta che gli saldava le fatture, la sua vita e le sue opere furono nutrite dal lavoro e dal sacrificio di moltissime persone.
Per più anni, nelle feste e in tutti i giorni della quaresima - ricorda Bonetti - don Bosco doveva fare catechismo a classi affollatissime di artigiani (il numero consueto per ogni classe era di 70 alunni). Era solo. Ma puntualmente arrivavano il commerciante Gagliardi, che chiudeva per un paio d'ore la sua bottega, il conte Cays, che lasciava il Parlamento Subalpino, alcuni negozianti di Porta Palazzo, il Marchese Domenico Fassati ufficiale emerito dell'esercito. Don Bosco assegnava ad ògnuno una classe. Il Marchese - ricorda sempre Bonetti - «assuefatto all'ordine e da buon soldato disponeva i suoi giovanetti in modo di averli tutti sotto gli occhi... Quantunque tenesse un aspetto serio e da militare, i giovani lo amavano tanto... Soleva dire che niuna serata anche la più brillante tornavagli di tanta soddisfazione, quanto una mezz'ora di catechismo fatta ai giovani dell'Oratorio» (CL 464s).
I rimproveri e i biglietti da mille di don Cafasso
Ogni tanto nel cortile dell'Oratorio arrivava don Cafasso, il prete mezzo gobbo e tutto santo che l'aveva accompagnato nei primi, incerti anni di Torino. Camminavano in su e in giù. Don Cafasso rimproverava don Bosco: «Hai troppi monelli. Prendine di meno e curali di più». Don Bosco allargava le braccia: «E gli altri dove li mando? In prigione?». Discutevano a lungo, poi don Cafasso gli porgeva una busta, e se ne andava svelto coi suoi passettini storti. Nella busta c'erano i biglietti da mille per finire di pagare la chiesa di S. Francesco di Sales, per comprare altri terreni, per le macchine dei laboratori e della stamperia (cf MB 4,587 ss).
Lui, tutta questa gente che gli dava una mano a tirar via dalla strada e a fare del bene ai ragazzi, li chiamava cooperatori. La parola può piacere o non piacere, ma ciò che hanno fatto è più grande di un monumento.
Macché confraternita!
Li voleva unire in una grande famiglia, e nel 1874 tracciò il disegno di una Unione di san Francesco di Sales. I direttori salesiani si dimostrarono poco entusiasti. Dissero che sarebbe stata una confraternita in più. Don Bosco quasi si arrabbiò: «Voi non capi-te. Ma vedrete che questa Unione sarà il sostegno della nostra So- cietà» (MB 10,1309).
Don Bosco aveva lo sguardo lungo. Vedeva che non solo la sua opera, ma tutte le opere della Chiesa, dalle parrocchie alle associazioni per gli operai, andavano avanti perché c'era gente che in silenzio faceva del bene, senza aspettare ricompense se non da Dio. Occorreva unire insieme questi veri cristiani.
Lo disse e lo scrisse: «Una cordicella sola è debole, ma unitela ad altre, e difficilmente si rompe. Così un buon cattolico: se è solo, facilmente è vinto dai nemici del bene; ma se è incoraggiato e aiutato da altri, forma con loro una grande forza e riesce a fare tanto bene» (MB 11,536).
Dopo i Salesiani e le FMA, i Cooperatori furono il terzo ramo della famiglia salesiana. Don Bosco volle per loro un programma semplice e sodo: fare del bene a se stessi con una vita cristiana impegnata, aiutare le opere salesiane, mettersi a disposizone dei parroci e dei Vescovi per fare il bene insieme.
Furono moltissimi già durante la vita di don Bosco. Oggi esistono in tutto il mondo. Il bene che hanno fatto e che fanno è quasi invisibile e quasi infinito.
67. Gli ex- allievi lo ricordavano così
Li portava nel cuore
Gli ex-allievi don Bosco li portava nel cuore.
I giovani a cui aveva sorriso e parlato, a cui aveva procurato il pane e l'amicizia con Dio, viaggiando li cercava. Dietro volti adulti, induriti e consumati dalla vita, cercava il volto di un antico ragazzo. Quando lo trovava, era una festa.
Anche gli ex-allievi portavano don Bosco nel cuore, insieme a ricordi delicati, indimenticabili.
Molti di quei ricordi andarono perduti. Ma altri, grazie a Dio, sono rimasti.
Nell'ottobre 1916 il Bollettino Salesiano rivolse un appello: chi conservava ricordi di don Bosco (a distanza di 28 anni dalla sua morte) li inviasse. Sarebbero stati pubblicati.
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Risposero gente semplice, preti, suore, ma soprattutto ex-allievi. In tanti di quei «ricordi» si delineano sfumature sconosciute, atteggiamenti dimenticati di quella persona umanissima che fu don Bosco. Per dieci anni, da quel momento, il Bollettino ebbe una rubrica attesissima: Fatti e detti di Don Bosco.
Ne ho scelto un piccolo ventaglio. Alcuni (quelli del medico Bestente, del ragazzino Brusasca) li ho inseriti nel corso nella narrazione. Gli altri li metto qui.
«Gioca al lotto, ti do i numeri»
«(...)Don Bosco mi ebbe nell'Oratorio per un anno e mi fu padre spirituale per parecchi anni.
La prima voce di vocazione al Sacerdozio la ebbi da lui. I miei buoni genitori mi presentarono a lui pregandolo ad accettarmi all'Oratorio. Essi avrebbero pagato la pensione per me, a patto che io fossi libero di compiere, in città, studi di preparazione per impieghi governativi. Rispose:
- Don Bosco non accetta ragazzi che escano di casa, per il pericolo che, ritornando, non portino libri o giornali o idee mondane. Ciò detto fissò su di me il suo sguardo, stette un po' in silenzio, e infine mi disse:
- Se tu mettessi l'abito da chierico, ti potrei accettare.
Queste parole ebbero un effetto magico. Da quel punto non ebbi più in mente altro disegno, fuori di quello di farmi prete. E fui accettato da don Bosco. Feci la seconda rettorica all'Oratorio sotto la guida dei chierici Francesia e Rua; indi vestii l'abito clericale ed entrai in Seminario.
Ricordo che una domenica sera, dopo le funzioni, lo vidi in cortile, seduto a terra circondato da quattro o cinque ragazzi. Teneva in mano il suo fazzoletto, che era sempre bianco. L'aveva aperto, indi raccoltolo fra le mani, lo palleggiava delicatamente dalla destra alla sinistra. Noi stavamo silenziosi. Ed egli dopo qualche istante:
- Se avessi dodici giovani, dei quali potessi disporre a mio talento, e potessi maneggiarli come faccio con questo fazzoletto, vorrei arrivare in capo al mondo!
Ricordai i dodici apostoli del Divin Salvatore, e, confesso la mia temerità, mi parve che don Bosco avesse detto troppo. Invece era profeta.
(...) La vigilia del mio possesso di parrocchia, andai a chiedergli la benedizione. Si raccolse, com'era solito fare sempre prima di aprir bocca, e poi lentamente e con un'espressione profonda mi disse queste testuali parole:
- Ti raccomando particolarmente i poveri, i vecchi, gl'infermi e, come è ben naturale, ti raccomando anche la gioventù.
E mi benedisse.
Pochi mesi dopo tornai a lui. Si trovava a Valsalice. Mi domandò se le cose andavano bene. Gli risposi:
- Per grazia di Dio, sì, ma ho un fastidio.
- Quale?
- Ho trovato 52 mila lire di debito (Circa 115 milioni del 1986).
Ed egli, sorridendo e con grande bontà:
- T'insegno io il metodo di pagarle. Gioca al lotto!
Sorrisi io pure. E lui:
- Non vuoi giocare al lotto?
- Giocherò - risposi - se lei mi dà i numeri.
- Sì che te li do -. Mi tenne sospeso, indi insistette:
- Ma li giocherai davvero?
- Sì, glielo prometto.
- Bene, i numeri sono questi: Fede, speranza, carità! Se vuoi un quaterno, aggiungi: Perseveranza.
Il consiglio, datomi da altri, mi sarebbe parso una canzonatura. Ma era don Bosco che parlava, e l'accettai con venerazione.
E subito mi sentii tranquillo, sereno, pieno della miglior volontà di accendere sempre più la fede, la speranza e la carità prima nel mio cuore, poi in quella dei miei parrocchiani. Fatto sta che perseverando nel cercare la gloria di Dio e il bene delle anime, in due anni, dico due anni, saldai tutto il debito.
Nel darne la lieta notizia ai parrocchiani, narrai loro il colloquio con don Bosco, e consigliai a tutti i numeri di don Bosco, dicendo che erano infallibili».
Teologo Domenico Muriana, curato di S. Teresa, Torino (BS 1916, 41).
«Lo hanno beatificato il Cottolengo?»
«Era l'autunno del 1865, io avevo compiuto 8 anni e don Bosco, con una squadra dei suoi birichini, preceduti dalla banda musicale, attraversava Chieri, diretto ai Becchi per la festa del S. Rosario.
Giunto col suo piccolo esercito in via Moreto 10, ordinò un alt ed entrò in casa mia. Io stavo su una panchettina, occupato nello scrivere i compiti di scuola sopra una sedia. (Fu) festa per i miei genitori e per mio fratello Domenico, allora chierico, che era stato nell'Oratorio e che don Bosco aveva sempre guardato con predilezione. Non appena ebbe salutati tutti con quel suo fare gioviale e dignitoso, fissò nei miei occhi stralunati i suoi occhi scrutatori, e:
- Come ti chiami? – mi chiese.
- Agostino - gli risposi.
- Oh! che bel nome! E che scuola fai?
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- Terza elementare.
- Bene, bene. Continua a studiare, e appena avrai la promozione alla quarta, verrai con me all'Oratorio, dove ti troverai con tanti amici, che ti vorranno bene... Tu potrai continuare i tuoi studi e poi vedremo che cosa vuole da te il Signore.
Quelle parole le ricordo io e le ricorda la mia sorella maggiore, tuttora vivente, la quale domandò a don Bosco se non avrebbe aperto anche una casa per ragazze, per fare (come diceva essa) un reggimento di Suore; e don Bosco a sorridere e a risponderle:
- Si, sì, a suo tempo, ma non per te!
E aveva ragione. Nel 1868 mia sorella andava a marito. (...)
Terminata la terza elementare e promosso alla quarta, nell'agosto del 1866 a nove anni d'età io entrai nell'Oratorio, dove feci gli studi ginnasiali, e donde uscii nell'agosto del 1872, per vestir l'abito chiericale. Quando feci il mio ingresso all'Oratorio, la mamma, che aveva personalmente conosciuto il canonico Cottolengo, fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, (...)mi affidò l'incarico di domandare a don Bosco se sarebbe avvenuta, e presto, la beatificazione del Cottolengo.
Beatificazione! Parola ebraica per un fanciullo di nove anni; quindi si può immaginare come la ripetei cento volte per non dimenticarla. Arrivato all'Oratorio e presentatomi per la prima volta a don Bosco, con tutta semplicità gli dissi:
- La mamma m’incarica di domandarle se avverrà, e presto, la beatificazione del Cottolengo.
- Sì, sì - mi rispose don Bosco -. Ma né la tua mamma né io la vedremo. Tu la vedrai!
Quante predizioni in queste poche parole! Quando la mamma venne a trovarmi, le notificai la risposta avuta da don Bosco. (...) Mia mamma morì nel 1870, don Bosco nel 1888.
Trovandomi a Giaveno nel gennaio del 1892, fui colpito da risipola facciale. In pochi giorni, sempre con la febbre altissima, la malattia mi ridusse in fin di vita. Il prevosto, don Giorgio Bernero, cominciò a prepararmi al gran passo. Alle pie esortazioni del prevosto, io non ebbi che una sola risposta: "Ma l'hanno già beatificato il Cottolengo?" A così inaspettata e incomprensibile risposta, il prevosto rimase ancor più persuaso dell'imminente mio pericolo (...)
Non appena ricevuto Gesù in Sacramento, mi addormentai, e mi risvegliai senza febbre e con tutti i segni di una cominciata convalescenza. Nel tempo della convalescenza, il prevosto mi parlò dei vaneggiamenti avuti durante la malattia, e della domanda: "Ma l'hanno già beatificato il Cottolengo?".
A tale dichiarazione (...) raccontai al caro prevosto il fatto, ed egli capì che quanto avevo detto nel delirio della febbre non era che un ricordo della predizione di don Bosco.
Guarii perfettamente. (...) Andai da don Lemoyne per raccontargli quanto era avvenuto tra me e don Bosco nel 1866, e nella malattia del 1892. Sono lieto d'aver (...) portato il mio contributo alla documentazione della santa vita di don Bosco».
Canonico Agostino Parigi. Moncalieri, 31 gennaio 1918 (BS 1918, 47s).
Ho portato a spalle don Bosco
«Era il giugno del 1879. Mentre tornavo dalla scuola di musica, vidi in una camera un pianoforte. Invece di recarmi nella sala di studio, senza badare al disturbo che avrei arrecato ai giovani, cominciai a toccare i tasti. Passò don Bosco. Mi sorprese, e, senza che me ne avvedessi, mi prese per le orecchie, ma in modo così delicato che avrei desiderato ben più a lungo quel castigo. Fu lui il primo a parlare. Ricordo che tra l'altro mi disse:
- Non ti dico male perché suoni, ma perché suoni fuor d'ora, essendo tempo di studio. Del resto, son ben lieto di saperti amante della musica. I musici devono avere, secondo me, un luogo privilegiato in cielo. Procura dunque di essere un buon musico in terra, ma con l'intenzione ferma e risoluta di essere poi musico anche in paradiso!
Nel settembre del medesimo anno, mentre mi trovavo a San Benigno per fare gli Esercizi Spirituali, incontrai don Bosco sulla scala che portava al corridoio del piano superiore. Era seduto sopra un gradino, e da tutto l'insieme manifestava la grande stanchezza che gli aveva impedito di continuare la salita. Si era accasciato sulla scala, aspettando rassegnato che qualcuno passasse per aiutarlo. La Provvidenza dispose che passassi io. Mi pregò di aiutarlo a salire. Debbo dire quanto volentieri mi sia prestato a quella carità?
Essendo troppo difficile sollevarlo solo per le braccia, preferii caricarmelo sulle spalle. Si rassegnò. E in quel tratto, che non fu per me di Via Crucis, con tutta soavità e dolcezza mi disse:
- Il Cireneo fu ben più fortunato di te. Egli sollevò Gesù, portandogli per un poco la sua croce. Ma tu che cosa porti? Un povero peccatore... Però se lo fai per amore di Dio, ne avrai lo stesso un bel premio perché, non devi dimenticarlo mai, Gesù considera come fatta a se stesso qualunque cosa che facciamo al nostro pros- simo per suo amore».
Canonico Giuseppe Laguzzi. Castelferro (Alessandria) (BS 1917, 144).
«Era sempre con noi»
«Cari, indimenticabili anni 1866-67-68-69, passati all'Oratorio, all'ombra del Santuario di Maria Ausiliatrice, in continua compagnia di don Bosco. Essendo allora poche le case (salesiane), tolte rare e brevissime assenze, egli era sempre con noi. Con noi alla chiesa, con noi alla ricreazione; e com'era dolce, ogni sera, recitare le orazioni davanti alla statuetta della Madonna sotto il noto porticato (...).
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Lasciando l'Oratorio, stavo per entrare nel Seminario Diocesano. Dopo avermi confessato:
- Mi potresti servire la messa? - mi disse -, potrebbe forse essere l'ultima...
- Troppo onore - gli risposi -, ma l'ultima spero di no.
E non lo fu davvero, perché tante altre ancora gliene servii da seminarista e da sacerdote. Celebrata la Messa:
- Inginòcchiati - mi disse -, voglio anche darti la mia benedizione.
E dopo avermi benedetto, tenendo e premendo la sua santa mano sul mio capo:
- Ricordati, Luigi, se coll'aiuto di Dio diventerai sacerdote, cerca il bene delle anime e non la ricchezza del denaro.
Quelle parole, pronunziate con soave accento e accompagnate dal suo sguardo penetrante, mi scossero l'animo e mi si stamparono in cuore, così che non le ho mai dimenticate. Esse furono per me un programma. (...)».
Luigi Spandre, Vescovo di Asti (BS 1916, 41).
68. Lo ricordavano così - Il
Una nonna e una nipotina
«Mi trovavo a Vercelli con la mia nonna. Festeggiando a Torino lo sposalizio di Umberto I e la regina Margherita (1868) ci recammo anche noi alle feste (...) La nonna mi condusse da don Bosco, dal quale aveva già ricevuto consigli e favori. Dopo avergli parlato si chinò verso di me e mi disse all'orecchio:
- Baciagli la mano, che è un santo!
Sorpresa a tale invito, e temendo, come era solita, che la nonna mi burlasse, dissi francamente:
- Ma i santi non sono in paradiso?
Don Bosco, sorridendo, rispose:
- Hai ragione. I santi sono in paradiso; e se uno vi tenesse già un piede, coll'altro potrebbe ancora cadere e restar fuori!
E mi benedisse e mi regalò una coroncina coi grani celesti, e disse alla mia nonna:
- Questa bambina si farà religiosa.
(...) Dopo d'allora varie peripezie attraversarono la mia esistenza e non dimenticai mai le parole di don Bosco. Nel 1871 mi trovavo con la mamma a Palermo, e, dovendo tornare con lei in Piemonte, c'imbarcammo sul bastimento "Messina". Ed ecco, sul principio del viaggio, si sollevò una furiosa burrasca e la macchina si ruppe. Pareva tutto perduto, ma ricordando la profezia di don Bosco, ebbi sempre la speranza di salvezza. Entrai, più tardi, tra le Figlie di Maria Ausiliatrice. Ero novizia a Nizza Monferrato nel 1881, quando fui lieta di poter conferire col nostro Padre, al quale manifestai la mia gioia di farmi religiosa; ma dissi anche che temevo molto che i miei cari non potessero conseguire la vita beata. Don Bosco mi rispose:
- Il Signore non vi ha chiamata a farvi religiosa solo per salvare l'anima vostra, ma anche quella dei vostri parenti sino alla quarta e quinta generazione, e tutte quelle che volete; purché perseveriate nella vocazione.
E mi regalò tre medaglie per i parenti.
Toccai con mano la verità delle parole di don Bosco, poiché il nonno, allora di oltre 90 anni, morto poco dopo di un colpo, libero pensatore e vissuto lontano dalla Chiesa, ricevette prima di morire i Sacramenti; come fece anche la mia carissima mamma.
Un altro ricordo di don Bosco.
Nel 1887, trovandomi a Torino, ebbi la consolazione di recarmi con altre suore forestiere ad augurargli buon onomastico. Ci era stato imposto di non farlo parlare, per ordine del medico; e siccome non l'avevo più visto dal 1881, ero persuasa che non mi avrebbe conosciuta. Invece, rivolgendosi a me senza guardarmi, mi chiamò per nome...»
Suor Elisa Marocchino, FMA, Saronno 15 ottobre 1924 (BS 1926, 313).
Come lo vide la baronessa Olimpia
La baronessa Olimpia Savio di Berustiel Rossi era nata nello stesso anno di don Bosco, e mori un anno dopo di lui. Aveva una splendida villa a Sassi Torinese, ed era religiosa e ospitale. Nelle sue Memorie dedica due pagine a don Bosco. Un ritratto insolito.
«Ho conosciuto don Bosco, un fac-simile del teologo Cottolengo e dell'abate Saccarelli. Di lui si vanno raccontando fatti meravigliosi e inesplicabili...: muti che parlano, storpi che si rizzano, ciechi che vedono e infermi che d'un tratto risanano, appena da lui raccomandati a Maria Ausiliatrice e benedetti nel di Lei santo nome.
Miracolo incontestabile e permanente è quello ch'ei fa di dar ricovero e nutrimento a un migliaio di poveri orfani, tolti dalla strada, educandoli e addestrandoli in vari mestieri. Egli non ha il menomo reddito, non possiede, non può far conto su altro che non siano... i soccorsi della carità. (...)
Lo trovai in una povera stanzetta, nuda del tutto: un piccolo letto, un grande scrittoio affollato di carte, con sopra un grande Crocifisso d'avorio.
Don Bosco è di mezza età, magro, gentile di modi, semplice di abito, di contegno e di parole. (...) Il conte X, che lo ama molto e che (lo) vorrebbe un po' più sostenuto onde la di lui salute non ne decada, sapendolo in urgenza di una somma per soddisfare gli operai del tempio (di Maria Ausiliatrice), gli disse, che se voleva
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pranzare in famiglia da lui, ogni volta che ci andasse avrebbe trovato un biglietto da cento (100) sotto il tovagliolo, e tanti fino al valore di lire 1200 (circa 3 milioni del 1986). Don Bosco se ne dolse; ma gli operai aspettavano, e gli fu forza cedere. (...)
Pregai don Bosco di venire un giorno tutto intiero da noi, un giorno all'aperto, alla vista del cielo, al calore del sole, alle fragranze dei fiori. Promise di venire tra la Trinità e il Corpus Domini (indicazioni di tempi da par suo...).
Don Bosco fu con noi dalle 4 (del pomeriggio) alle 9. Per la prima volta in quell'anno egli sentiva la gioia di essere all'aperto, in piena campagna, onde la prima sensazione che egli ebbe, sceso di carrozza ai piedi del viale, fu quella di guardare con amore ai grandi alberi che lo fiancheggiavano: "Che belle piante! quanto verde! Oh la buon aria
A tavola fu gaio, semplice, e ci lasciò fare fino a ripetere certa panna montata intorno a una pasta di marrons glacés, dicendo sorridendo:
- Se mi pigliano per la gola, sono capace di tutto.
Il Benedicite (la preghiera prima del pasto) detto da lui con voce lenta, in attitudine fervorosa, trasformò una prosaica necessità del corpo in una poetica elevazione dell'anima. (...)
Dopo pranzo, seduti all'aperto, don Bosco ci narrò alcuni fatti miracolosi e recenti. Vedendolo così ad animo aperto, osai dire come egli dovesse avere rivelazioni speciali e sovrannaturali rapporti con Dio. Egli eluse l'inchiesta, dicendo però:
- Sbaglierebbe di molto chi volesse attribuire all'uomo ciò che è di Dio; e se qualcuno si volgesse a don Bosco per la menoma delle grazie, sarebbe cosa vana, tanto come la chiedesse ad una di queste piante. Loro al pari di me, creature inette, implorano dall'alto le rugiade; perché noi siamo atomi mossi da Lui e nel suo ambiente, come il pesce è nel mare» (BS 1918, 142).
«Non sempre una grazia è una grazia»
«Ricordiamo un fatto che udimmo dalla nostra antica Superiora, la compianta Madre Giovanna Francesca Bolognesi.
Qualche anno dopo il suo matrimonio col marchese Orazio Ristori, dolenti di non avere ancora un erede, si decisero i due coniugi di portarsi insieme a raccomandare questo loro desiderio alle preghiere di don Bosco. Fecero il viaggio da Genova a Torino e furono accolti da don Bosco colla solita grande bontà. Ma quando vennero al punto che più loro premeva, grande fu lo sgomento d'entrambi, del marchese soprattutto, nell'udire da don Bosco queste semplici parole:
- Non sempre ciò che domandiamo come grazia è una grazia.
La nostra compianta Madre ebbe più tardi da costatare che questa risposta era stata ispirata a don Bosco da Dio, perché rimasta vedova non tardò ad abbracciare la vita religiosa (...)».
Sr. Paola D. Ramognino, Superiora della Visitazione in Genova. 25 aprile 1917 (BS 1917, 262).
Benedizione sui bachi da seta
«Si era nel 1882 e contavo 12 anni. Ricordo benissimo che in casa si era tutti in faccende per l'allevamento dei bachi (da seta). Il lavoro, straordinario e pesante, ci pareva leggero nella speranza di un buon guadagno. Ormai si pregustava la serenità del riposo, perché i bachi, belli e robusti, cominciavano a salire per fare il boz- zolo. Ma che è, che non è? Quanti salgono, dopo brev'ora, cadono tramortiti e muoiono.
Allarmata, ma piena di fede, la mamma manda il fratello Paolo, che aveva due anni più di me, a Valdocco, per esporre a don Bosco il grave inconveniente, che minacciava di mandare a vuoto tante fatiche, e per pregarlo di mandarci una benedizione. Il fratello corre all'Oratorio, e appena poté entrare da don Bosco:
- Padre - gli dice - la mamma la prega di benedire i bachi, perché son giunti al tempo di fare il bozzolo, e invece cadono e muoiono tutti quanti.
Al racconto di mio fratello, don Bosco si mette a sorridere, e ammirando la nostra fede, pone la mano sulla testa di Paolo e gli dice prontamente:
- Sta' tranquillo. Va' a casa, che non cadranno più.
In quel medesimo istante i bachi cessavano di cadere. In casa subito si notò il fatto, e subito si disse: "Ecco, don Bosco li ha benedetti, perché non cadono più". Difatti, poco dopo, ritornava mio fratello e ci confermava la notizia. (...) E si fece un bel raccolto di bozzoli».
Maddalena Cantoni - Torino, 25 giugno 1923 (BS 1924, 52).
«Vorrei la forza sufficiente per essere missionario»
«Giuseppe Raffaele Crimont, studente gesuita, a 22 anni fu colpito da un gravissimo esaurimento nervoso. Per un mese intero passò le notti insonni. I medici non gli davano più di tre settimane di vita. Una pia signora di Lilla, la signora Decosser, domandò al Superiore di curare l'ammalato nella propria casa, come aveva curato e guarito il proprio figlio gesuita, Luigi Decosser, in uguale pericolo di morte. Ma tutte le cure materne non riuscirono a restituire la salute al giovane suddiacono, di 25 anni.
In quel tempo, 1883, don Bosco, quasi sfinito e parzialmente cieco, faceva un viaggio attraverso la Francia per trovare fondi per la Basilica del Sacro Cuore in Roma. La signora Decosser decise di ricorrere a lui per la salute di Giuseppe Raffaele.
Il mattino dopo il suo arrivo a Lilla, don Bosco celebrò la Messa nella chiesa delle Dame del Ritiro. La chiesa
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era gremita, e Giuseppe Crimont assisteva don Bosco, la cui semicecità gli rendeva necessario l'aiuto di un altro durante tutta la Messa. "Che Messa!
- disse poi Giuseppe Crimont -. Era la Messa di un santo. Il giorno dopo don Bosco disse la Messa nella cappella dell'Adorazione. Dopo averlo assistito, quanto rientrò gli parlai. Gli dissi che ero un giovane gesuita in cerca di salute e che desideravo domandargli un favore. Mi domandò che cosa volessi e io risposi:
- Desidero la forza sufficiente ad essere inviato nelle missioni: desidero essere missionario.
- Figlio mio - replicò don Bosco affabilmente -, lei riceverà questa grazia. Pregherò Dio a questo scopo, ogni giorno, nel ringraziamento dopo la S. Messa.
Lo credetti. Ricuperai la mia salute; e alcuni mesi dopo ero mandato (...)a proseguire gli studi per diventare prete. Durante la mia permanenza udii parecchi particolari sulle missioni delle Montagne Rocciose, e dopo la mia ordinazione, nel 1888, fui mandato dai miei Superiori nelle Missioni presso gli Indiani. Più tardi, nel 1894, fui trasferito in Alaska".
Padre Crimont fu consacrato vescovo nel 1917».
(Relazione di M.S. Pine in Baltimore Catholic Review, ripresa da BS 1919, 223-4).
«Il novanta per cento»
«Ricordo che alla fine del 1886, essendo soldato a Torino e sentendomi chiamato allo stato ecclesiastico, mi feci raccomandare dal mio parroco a don Bosco. Mi presentai con una lettera del mio parroco. Il segretario mi ammise alla presenza di don Bosco. Quale impressione mi fece! Seduto nella sua cameretta col volto sorridente, con la voce affievolita, ma sempre chiara, paterna, amorosa;
- Siedi! - mi disse. (...) Finita la lettura, e inteso che si trattava della mia vocazione, mi guardò con uno sguardo dolce, penetrante, poi scandendo le parole con soavità mi disse:
- Bravo! Sono contento! Contento perché sei soldato, sei già caporale, conosci la vita, e ciò nonostante sei deciso ad avviarti alla vita sacerdotale. Perché, vedi, io ritengo che dei giovani che abbracciano lo stato ecclesiastico, solo il venti per cento arriva alla meta, quando cominciano nell'età ancora puerile. Invece di quelli che l'abbracciano ad età avanzata riesce, si può dire, il novanta per cento. Farò di tutto per aiutarti.
E mi affidò a uno studente di teologia, perché nelle ore che avrei avute libere mi iniziasse allo studio del latino».
(Relazione di don Francesco Campora a don Pietro Martinetti, parroco di Carbana) (BS 1918, 24).
69. Il ragazzino con le ginocchia nella sabbia
Dietro un povero con l'ombrello aperto
Nell'ottobre del 1886 entrò a Valdocco un ragazzino di Pontecurone, figlio di un povero selciatore di strade. Si chiamava Luigi Orione.
Quando aveva solo dieci anni, per aiutare la famiglia poverissima, aveva lasciato la scuola e si era andato a inginocchiare vicino al papà, nella sabbia umida, a mettere l'una accanto all'altra le pietre che selciavano le strade (a quel tempo sostituivano l'asfalto). Bisognava ordinarle bene, e spingerle nel terreno con piccoli colpi di un martello di legno.
Era un lavoro pericoloso per tutti, specialmente per i ragazzi, perché l'umidità della sabbia dai ginocchi saliva in tutto il corpo, e faceva ammalare e morire di artrite. Eppure bisognava farlo per tirare avanti la famiglia. Anche quando pioveva, e attraverso le pietre ruscellava l'acqua, rannicchiato sotto un grande ombrellone, Luigi Orione metteva le pietre nel terreno e le picchiava delicatamente col martello di legno.
Un giorno, mentre lavorava così sotto l'ombrello, si fermò vicino a lui un mendicante smunto e tremante. Mentre l'acqua gli rigava la faccia, tese la mano e disse:
- La carità, per amor di Dio.
Luigi, 10 anni, fu come ipnotizzato da quella miseria. Si alzò, andò a prendere il panino che aveva ravvolto nella giacca perché non si bagnasse, e lo diede a quel miserabile. Poi gli tenne l'ombrello aperto sulla testa, mentre il povero mangiava, e siccome mangiando il povero aveva ripreso ad andare per la sua strada, Luigi si mise a seguirlo sempre tenendo l'ombrello aperto. Aveva fatto cento metri, quando il padre gli gridò:
- Luigi! Ma dove vai?
Il ragazzino fu come ridestato da quel richiamo, e chiedendo scusa al mendicante tornò indietro. - Ma dove stavi andando? - gli domandò il padre irritato.
Luigi non rispose. Non sapeva. Ma dietro quei sotto-poveri sarebbe andato per tutta la vita.
Tra il vecchio prete e il ragazzo era scattata una scintilla
Siccome era molto buono, il parroco l'avevà fatto accettare dai francescani di Voghera. Ma si era ammalato e aveva dovuto tornare a casa. Allora il parroco si era rivolto a don Bosco, e Luigi era stato accettato a Valdocco.
Quando Luigi arrivò, don Bosco stava ormai vivendo gli ultimi bagliori della sua vita. Consumato dai viaggi e dai debiti, scendeva raramente tra i suoi ragazzi. Ma ogni ora che riusciva a passare con loro era un soffio di vita che tornava in lui. Camminando adagio scherzava, domandava, rispondeva, s'interessava di tutti. Aveva un sorriso e un amore che nessuno avrebbe mai dimenticato.
Luigi rimase affascinato, incantato da don Bosco. Appena lo vedeva da lontano, lo salutava gridando,
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agitando il suo berretto, e gli correva vicino. Tra le centinaia che si strigevano attorno a don Bosco, disputandosi i posti più vicini, Luigi Orione riusciva sempre ad arrivare in prima fila. Lo fissava, gli sorrideva. Tra il vecchio settantunenne e il ragazzino di Pontecurone era scattata una scintilla che avrebbe bruciato nel cuore di Luigi per tutta la vita.
Don Bosco scherzava con lui. Gli domandava se la luna del suo paese era più grande di quella di Torino, e vedendolo ridere gli diceva in piemontese: «T'ses prope 'n fa fioché» (Sei proprio «uno che fa nevicare», cioè un sempliciotto).
Aveva un grande desiderio, Luigi: confessarsi da don Bosco. Ma don Bosco era alla fine delle sue forze (mancavano 14 mesi alla sua morte), e confessava solo i ragazzi più grandi che stavano per diventare salesiani.
Cosa fece Luigi per ottenere un posto nelle file di quelli che avevano diritto a confessarsi da don Bosco? Non lo sappiamo. Forse regalò a qualcuno la sua merenda. Ad ogni modo ebbe quel sospiratissimo posto, e decise di prepararsi seriamente.
«Luigi, dammi i tuoi peccati»
Entrò nella chiesa di Maria Ausiliatrice, prese uno dei cartelli appesi vicino ai confessionali (che allora esistevano, ed elencavano tutti i peccati possibili per aiutare la gente a fare un buon esame di coscienza). Per essere sicuro di confessarsi bene, ricopiò tutti i peccati, si accusò di tutto. Riempì complessivamente tre qua- dernetti di peccati. Tra il resto si accusava di «aver negato il giusto salario agli operai» e di avere «oppresso i deboli». Non capiva cosa volesse dire, ma meglio accusarsi di tutto, così era sicuro che Dio l'avrebbe perdonato. A una sola domanda rispose recisamente di no: «Hai ammazzato?» «No, scrisse, questo no».
Coi quadernetti ben stretti in tasca andò alla stanza di don Bosco, attese il suo turno, e s'inginocchiò accanto al seggiolone. Don Bosco lo guardò, gli sorrise con amore e con un pizzico di allegria:
- Bravo, Luigi. Sono contento che sei venuto. E adesso dammi i tuoi peccati.
Luigi cadde dalle nuvole. Come sapeva don Bosco che... Ad ogni modo tirò fuori il primo quadernetto. Don Bosco lo prese, lo stracciò in minutissimi pezzi, come coriandoli, e lo gettò nel cestino. Poi sempre sorridendo: - E adesso dammi anche gli altri -. Luigi tirò fuori anche gli altri due. Fecero la stessa fine. A questo punto don Bosco gli sorrise con un affetto che Luigi non avrebbe mai dimenticato, e disse:
- La tua confessione è fatta. Non pensare mai più a quello che hai scritto. E ricordati che noi due saremo sempre amici. Sempre amici.
Quell'amicizia di un vecchio prete che stava ormai andando verso Dio, Luigi Orione la custodì nel cuore come il più grande tesoro. Quando seppe che stava agonizzando, offrì seriamente a Dio la sua vita in cambio di quella del suo amico.
Quando, dopo una notte passata a pregare e a piangere sulla tomba di don Bosco, capì che lui non lo voleva salesiano, ma a capo di un'altra Congregazione per i ragazzi sotto-poveri, gli obbedì con il cuore sanguinante. E tra i ragazzi poverissimi dei suoi oratori dirà decine di volte:
«Camminerei sui carboni ardenti per vedere ancora una volta don Bosco e dirgli grazie».
70. In Francia e in Spagna a elemosinare
A tu per tu con il Papa
La devozione al Cuore di Gesù stava crescendo in tutto il mondo.
Ogni nazione costruiva un tempio a questo simbolo dell'amore, per porre una barriera all'odio che si stava scatenando in guerre violente tra nazione e nazione, tra classe e classe.
La Francia aveva quasi terminato il bellissimo tempio di Montmartre, che diverrà uno dei monumenti più ammirati di Parigi.
Solo a Roma non si riusciva a far niente. Papa Leone XIII si era impegnato di persona, si era rivolto ai vescovi e ai cristiani di tutto il mondo. Ma la chiesa dedicata al Sacro Cuore era ferma alle fondamenta. Non c'erano soldi.
- C'è un solo uomo capace di portarla a termine - gli disse il cardinale Alimonda.
- Chi?
- Don Bosco (MB 14,575).
Chiamato dal Papa, don Bosco arrivò a Roma. Aveva 65 anni e affogava nelle spese. Stava costruendo due chiese (a Torino e a Vallecrosia), e tre istituti (a La Spezia, Nizza, Marsiglia).
Leone XIII gli confidò il suo avvilimento nel vedere che la chiesa voluta da lui stava fallendo.
- Mi dicono che se l'affido a voi, vi impegnerete fino in fondo.
- Il desiderio del Papa per me è un comando.
- Ma io non posso darvi denari.
- Li manderà il Signore. Lei mi dia solo la sua benedizione, e mi permetta di costruire accanto alla chiesa un Oratorio e una casa per ragazzi poveri (MB 14,577).
Don Bosco non lo lascia trasparire, ma sa che su di lui grava l'ombra pesante di diffamazione verso il suo Arcivescovo; sa che la sua Congregazione ha bisogno assoluto della stima del Papa, e sebbene logoro di forze, accetta.
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Viaggio in Francia
Cominciò una nuova gara di moltiplicazione tra don Bosco e Dio. Don Bosco moltiplicò i suoi sforzi, le sue fatiche. Quella chiesa che avrebbe ingoiato un milione e mezzo di lire (circa 4 miliardi di oggi) lo obbligò negli anni del declino fisico a fatiche disumane. E Dio moltiplicò i frutti tra le sue mani.
Chi lo seguì in questa lunga impresa scrisse: «Era una pena vederlo salire e scendere scale per chiedere elemosine. Sovente, invece di denaro, riceveva dure umiliazioni. Pati tanto che qualche volta, nell'intimità, a chi dei suoi, vedendolo incurvato, gli chiedeva come mai si piegasse così nella persona, rispondeva scher- zando: "Ho la chiesa del Sacro Cuore sulle spalle". Già avanti negli anni, malandato in salute, posso testimoniare che tale opera logorò gran parte delle sue forze» (MB 15,422 - 17,527).
Quando vide che gli sforzi compiuti in Italia non bastavano, disse a don Rua: «Partiamo per la Francia».
Fu un viaggio che durò quattro mesi, dal 31 gennaio al 31 maggio 1883. Quando parti il suo corpo era logoro. La sua vista era peggiorata assai: dall'occhio sinistro non ci vedeva praticamente più. Andò di città in città chiedendo l'elemosina per la chiesa del Papa.
Entrò in Francia a Nizza, e raggiunse Parigi con una salita lenta, che durò due mesi e 19 giorni. Si fermò nelle città di Tolone, Marsiglia, Avignone, Lione, Moulins.
Nessuno, tanto meno don Bosco, aveva previsto l'emozione straordinaria, l'entusiasmo, l'affollamento di gente, l'incandescenza di fede che la presenza di «quel povero prete di campagna» provocava di giorno in giorno.
Cinque settimane a Parigi
Nella Parigi raffinata e permalosa, abituata a vedere con noncuranza le più celebri persone del mondo, qualcuno temeva il fiasco. Tra il resto, i giornali in quei giorni parlavano pessimamente dell'Italia, perché aveva rotto un'alleanza politica con la Francia.
I Parigini, invece, accolsero l'apostolo dei ragazzi emarginati con un fervore incandescente. Vi rimase cinque settimane, e furono cinque settimane di assedio entusiasmante e pesantissimo. «E’ un santo», dicevano. E lui sorrideva, scuotendo la testa.
«Ascolta con uguale attenzione e uguale pazienza un operaio e un principe», scrivevano i giornali. E lui: «Davanti a Dio, chissà chi è il più nobile».
«Ricordi la strada che conduce a Morialdo?»
I Parigini, i ricchi e i poveri, ricevettero molto da don Bosco, e gli diedero molto. Ricevette biglietti di banca, monetine, monete d'oro, perfino gioielli. Ci fu un momento in cui non sapeva più dove metterli.
Poi il ritorno in Italia. Sul treno che li riportava a Torino, don Bosco e don Rua tacevano. Ricordavano quelle giornate come un sogno, come qualcosa di impossibile. A un tratto don Bosco ruppe quel silenzio, e adagio disse a don Rua:
- Ricordi la strada che conduce da Buttigliera a Morialdo? Là a destra c'è una collina, e sulla collina una casetta. Quella povera casa era l'abitazione mia e di mia madre. In quei prati io ragazzo portavo al pascolo due vacche. Se tutti quei signori sapessero che hanno portato in trionfo un povero vaccaro dei Becchi... (MB 16, 257).
Un re a Barcellona
Nel 1886, ad appena due anni dalla sua morte, le strettezze lo spinsero ad un ultimo viaggio: in Spagna. Scrive don Lemoyne:
«Il suo arrivo a Barcellona fu degno di un re.
Vi erano rappresentanti delle Autorità civili, il Vicario Generale per il Vescovo assente, il Rettore dell'Università e la più illustre delle Cooperatrici Salesiane, Donna Dorotea da Chopitea... Don Bosco, nel salutare l'insigne benefattrice, le disse: - Oh, signora Dorotea! Ogni giorno io pregava Iddio che mi facesse la grazia di conoscerla prima di morire!
Dopo si recò ai Talleres Salesianos (Scuola professionale salesiana) di Sarnà. L'anno prima quei giovanetti gli avevano inviato il disegno di una macchina a vapore con l'iscrizione Torino Barcellona. Era un gentile invito e un ardente desiderio che quei
cari fanciulli avevano raccomandato a Dio con novene, digiuni, privazioni. E l'8 aprile 1886 finalmente, vedendosi esauditi, fecero al Santo un'accoglienza indimenticabile ».
Il 3 maggio, nella villa Marti-Codolar, circondato dai suoi collaboratori e da tanti ragazzi, don Bosco posò per una fotografia che risultò splendida. E l'unica di cui ancor oggi possediamo il negativo su una perfetta lastra di vetro.
A Barcellona, don Bosco ricevette il dono più favoloso che mai gli fosse stato fatto: la più alta collina tra quelle bellissime che circondano la città, chiamata Tibidabo.
Ritornò lentamente (il treno lo stancava moltissimo) verso la sua Italia. L'ultimo ritorno. Pensava alla sua vita. Dirà: «Tutto è opera della Madonna. Tutto viene da quell'Ave Maria detta con fervore e retta intenzione insieme con un ragazzo, quarantacinque anni fa, nella chiesa di S. Francesco d'Assisi» (MB 17,510).
71. «Davanti agli occhi il primo sogno»
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Il Papa chiama ancora
Nella primavera del 1887, la Chiesa del Sacro Cuore affidata dal Papa a don Bosco è terminata. In quei muri ci sono sette anni di vita del prete di Valdocco: lavoro, stenti, salute bruciata.
Ora il Papa, felice che l'impresa sia finalmente terminata, vuole che don Bosco scenda a Roma per l'inaugurazione. Un viaggio in ferrovia, nelle sue condizioni di salute, sarà un massacro. Ma un desiderio del Papa è sempre stato un comando, e lo è anche ora.
I Salesiani organizzano per il loro Padre un viaggio a piccole tappe, con molte soste presso le case salesiane che sorgono lungo il percorso. Per la prima volta fanno violenza alla povertà di don Bosco: lo costringono a sedersi in una carrozza di prima classe.
Alla stazione di Arezzo, con il berretto rosso in mano, gli corre incontro il capostazione. Lo abbraccia:
- Don Bosco, non si ricorda di me? Io ero un ragazzaccio a Torino, per le strade, senza papà né mamma. Lei mi raccolse, mi istruì, mi volle bene. Ora, se ho una bella famiglia e questo posto, lo devo a lei.
- Bravo, bravo, sono contento. E tu prega per il povero don Bosco (MB 18,311).
Le scarpe grosse sui tappeti preziosi
Arriva a Roma il 30 aprile. I chierici del Seminario Lombardo vogliono sentire una sua parola, e vanno a trovarlo. Don Bosco guarda quei giovanottoni forti com'era lui tanti anni fa, pronti a entrare nel campo del Signore. Non ha più il fiato per dire tante cose. Riesce a dire una frase sola;
- Pensate sempre a ciò che di voi potrà dire il Signore, non a quello che di voi, in bene o in male, diranno gli uomini (MB 18, 329).
Il Papa lo invita in Vaticano. Mentre sale lo scalone tutto curvo, un gradino alla volta, le guardie svizzere scattano sull'attenti. Don Bosco sorride:
- State pur comodi. Non sono un re. Sono un prete tutto gobbo.
Leone XIII lo riceve nel suo studio, lo fa sedere accanto a sé. Siccome è una giornata frescolina, gli stende sulle ginocchia una pelliccia di ermellino. Don Bosco, con le sue scarpe grosse da contadino sui tappeti preziosi, è un po' impacciato. Poi mormora:
- Sono vecchio, Padre Santo. Questo è il mio ultimo viaggio e la conclusione di tutto per me... C'è tanto da fare per i giovani poveri, ma ho dei buoni aiutanti che lavorano già al mio posto - e ammicca verso don Rua (MB 18,330 ss).
La consacrazione della nuova chiesa viene compiuta il 14 maggio.
Il giorno, dopo, sostenuto da don Rua e da don Viglietti, don Bosco scende nella chiesa per celebrare la Messa all'altare di Maria Aiuto dei Cristiani. La folla si accalca attorno all'altare.
Ed ecco, appena cominciata la Messa, don Bosco scoppia a piangere. Un pianto lungo, irrefrenabile, che accompagna quasi tutta la Messa. Don Rua e don Viglietti sono impressionati, tra la gente c'è un silenzio teso, che quasi si tocca.
Alla fine della Messa, don Bosco dev'essere quasi portato di peso in sacrestia. Ha il volto tutto pieno di lacrime. Don Viglietti gli sussurra:
- Don Bosco, ma perché?
E lui:
- Avevo dinanzi agli occhi, viva, la scena del mio primo sogno, a nove anni. Vedevo e udivo mia mamma e i miei fratelli discutere su ciò che avevo sognato... (MB 18,340s).
In quel lontano sogno, la Madonna gli aveva detto: «A suo tempo tutto comprenderai». Ora, guardando indietro nella vita, gli pareva proprio di comprendere tutto. Valeva la pena fare tanti sacrifici, tanto lavoro, per far del bene e salvare l'anima di tanti ragazzi.
72. La luce e il buio
Una candela che si andava spegnendo
Nel settembre 1887 erano riuniti nella casa di Valsalice, sulla collina torinese, i direttori delle opere salesiane. C'era anche don Bosco, ma improvvisamente si sentì male. Febbre alta, violenti mali di testa. Fece di tutto perché nessuno se ne accorgesse. Salutò ad uno ad uno quei suoi ragazzi ormai fatti uomini, diventati «don Bosco» in tante città italiane e estere, che ripartivano.
Ma quando abbracciò don Paolo Albera, superiore delle Case salesiane in Francia, il suo «Paolino», non poté trattenere la commozione:
- Anche tu te ne vai. Mi abbandonate tutti. Mi lasciate qui solo.
Si mise a piangere in silenzio. Era un pover'uomo stanco e ammalato, che dopo tanto lavoro sentiva la solitudine fasciarlo a poco a poco. Anche don Albera si lasciò vincere dalla commozione. Allora don Bosco si fece forza:
- Non ti rimprovero mica, sai. Tu fai il tuo dovere. Ma io sono un povero vecchio... Pregherò per te, che Dio ti accompagni.
Rientrò a Valdocco il 2 ottobre. I ragazzi lo accolsero con il loro entusiasmo, Luigi Orione agitò da lontano il berretto e gli corse incontro gridando:
- E a Valsalice, la luna era più grande che a Valdocco?
Risero insieme. Lo accompagnarono festosi fino alla scala che portava alla sua camera. I più grandi lo
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aiutarono a salire i gradini, uno ad uno. Dalla ringhiera salutò con la mano i ragazzi. Disse:
- State allegri! -. Gli risposero in coro:
- Viva don Bosco!
- Era una candela che si andava spegnendo. Don Rua, che non lo perdeva mai di vista, spedì un telegramma urgente a monsignor Cagliero, al di là dell'Atlantico: «Papà è in stato allarmante. Vieni subito».
Il vescovo si inginocchiò e disse: «Mi confessi»
Non esistevano aerei, a quel tempo, e la nave impiegò due mese a traversare l'oceano. Giovanni Cagliero, vescovo, arrivò a Valdocco la sera del 7 dicembre. Attraversò il cortile, i ragazzi tentarono di fargli festa, ma lui aveva il volto fisso lassù, alle finestre dietro le quali don Bosco si stava spegnendo.
L'arrivo del «suo» Giovanni fu come una boccata d'ossigeno. Lo abbracciò. Mormorò:
- Stai bene? -. Era sempre lui che preveniva, non per gentilezza, ma perché ci teneva tanto, con amore, alla salute dei suoi figli.
- Si, don Bosco, io sto proprio bene. Ma lei come sta?
Non attese la risposta. Quella faccia incredibilmente invecchiata, consumata, parlava da sé.
Passarono la serata insieme. Il Vescovo gli raccontò tante cose delle missioni, dei salesiani che lavoravano laggiù, degli indigeni che avevano salvato e battezzato a migliaia. E a un tratto, come quando era ragazzo gli chiese:
- Don Bosco, mi confessi.
Il Vescovo si inginocchiò davanti al vecchio prete, e si confidò come un bambino con sua madre.
Le ultime cinque frasi
Giornate discrete si alternavano a crisi lunghe, violente, in cui la febbre saliva a vertici preoccupanti.
Vicino a Natale occorreva scrivere ai principali benefattori. Ci pensò don Rua. Ma don Viglietti, che faceva da segretario e da infermiere a don Bosco, gli suggerì:
- Se la sente di scrivere alcune frasi su qualche immaginetta? I benefattori ne saranno molto contenti.
Don Bosco, appoggiando le mani su una tavoletta di legno, scrisse venti frasi. Le ultime cinque hanno un profumo di eternità:
«Chi salva l'anima, salva tutto. Chi perde l'anima perde tutto».
«Chi protegge i poveri, sarà largamente ricompensato al divin Tribunale».
«Che grande ricompensa avremo di tutto il bene che facciamo in vita!»
«Chi fa bene in vita, trova bene in morte».
«In Paradiso si godono tutti i beni, in eterno».
Fu l'ultima frase che don Bosco scrisse, con grafia quasi ormai incomprensibile.
«Bisogna imparare a vivere e a morire»
Tutte le notti veniva a vegliarlo Pietro Enria, il ragazzino rimasto orfano nel colèra del 1854, che don Bosco aveva preso con sé e aveva sempre considerato come un figlio. Pietro doveva a volte fargli i servizi più umili che si devono prestare a un malato. E don Bosco:
- Povero Pietro. Abbi pazienza.
- Oh, don Bosco, io darei la vita per la sua guarigione. E non soltanto io, sa? Siamo in molti che le vogliamo bene.
- L'unico distacco che proverò nel morire - riuscì a rispondergli don Bosco - sarà quello di dovermi separare da voi.
La febbre è quasi sempre alta, il respiro affannoso. Nel grande cortile affollato di ragazzi si sente un silenzio insolito. Anche i più piccoli guardano a quella finestra, dove il loro grande amico sta morendo.
Con la fine dell'anno, sembra che arrivi inesorabilmente anche la fine di don Bosco. Al termine di una giornata spossante, don Bosco fa chiamare don Rua e monsignor Cagliero. Li prende per mano, come un papà stringe la mano ai figli maggiori, e dice adagio:
- Vogliatevi bene come fratelli. Amatevi, aiutatevi, sopportatevi a vicenda. L'aiuto di Dio e di Maria Ausiliatrice non vi mancherà...
Nella notte chiede ad Enria un sorso d'acqua. Poi gli dice:
- Bisogna imparare a vivere e a morire.
«Dite ai miei ragazzi...»
L'inizio di gennaio porta una ripresa insperata. Ma sono pochi giorni, stroncati da un rapido peggioramento. Don Lemoyne gli suggerisce:
- Pensi a Gesù sulla croce. Anche lui soffrì senza potersi muovere.
- Sì, è quello che faccio sempre.
Gli ultimi giorni furono cancellati da un lungo sonno.
Le ultime parole che riuscì a dire furono:
- Facciamo del bene a tutti, del male a nessuno. Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso Andò verso Dio all'alba del 31 gennaio 1888.
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Ma il buio era ancora tanto
A quell'ora nelle grandi città italiane, ai cancelli delle officine, migliaia di ragazzini si mettevano in fila sotto lo sguardo dei sorveglianti, per iniziare la loro giornata lavorativa. Le feroci leggi economiche continuavano a spingere i ragazzi nelle fabbriche e nelle miniere. I padroni potevano ingaggiare per il lavoro notturno i ragazzi di 12 anni, per il lavoro in miniera fanciulli di 10 anni, per le fabbriche bambini di 9. Era stato decretato dalla legge «umanitaria» del 1886, che permetteva una giornata lavorativa di 12-14 ore. (Solo verso il 1900 la legge limiterà il lavoro dei minori di 15 anni a 11 ore).
In quella stessa giornata ai porti di Genova, Napoli e Palermo gruppi silenziosi di emigranti salirono sui bastimenti con fagotti e bambini: alcuni dei 160 mila emigranti che ogni anno scappavano dall'Italia in cerca di una incerta «fortuna» al di là del mare.
In quegli stessi giorni, nelle gole delle Ande, tribù decimate di indios Araucani si arrampicavano verso le regioni gelide, per salvarsi dai fucili dei bianchi che davano loro la caccia.
Sulla terra era passato un santo. Un lampo di luce si era acceso in un angolo del mondo. Ma il buio era ancora tanto.
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