Io vorrei incorniciare le domande del bambino nel contesto relazionale della famiglia in cui queste domande cadono. Non ci sono infatti tanto domande pericolose o risposte sbagliate, ma c'è un clima in cui il domandare e il rispondere favoriscono il dialogo e la maturazione del bambino oppure un clima che tende a non favorirlo inserendo nella dinamica dialogica genitore-figlio del materiale spurio.
del 18 novembre 2008
Introduzione
 
Il clima del domandare/rispondere
 
Io vorrei incorniciare le domande del bambino nel contesto relazionale della famiglia in cui queste domande cadono. Non ci sono infatti tanto domande pericolose o risposte sbagliate, ma c'è un clima in cui il domandare e il rispondere favoriscono il dialogo e la maturazione del bambino oppure un clima che tende a non favorirlo inserendo nella dinamica dialogica genitore-figlio del materiale spurio.
Salvador Minuchin [1] ha parlato di famiglie invischiate e disimpegnate. Chiama invischiata la famiglia dove si tende ad annullare le distanze: ciascuno deve essere “dentro” l’altro, in una relazione affettiva fusionale, deve conoscere l’altro in tutto ciò che fa e che pensa: «se tu hai i tuoi segreti, le tue autonomie, i tuoi distacchi, chi sono io?».
Nella famiglia invischiata i membri si sentono fratelli se non ci sono barriere tra loro, se la parola “insieme” diviene esaustiva di tutto l’arco dell’esperienza vitale. In breve, in questo tipo di famiglia fare cordata indica uniformità e soggezione al gruppo.
Ma non c’è nessuno che possa abitare così contiguo ad un altro (nemmeno tra coniugi!) da non aver bisogno di una distanza bonificata: «tu puoi arrivare fin qui e non oltre», da dover rinunciare alla propria autonomia. Nella stagione della famiglia con bambini, (magari il primo!) la madre (e in generale i genitori) sembra prolungare oltre il tempo della gestazione la fusione tra lei e il feto e non accetta quella gradualità di distacco per cui il figlio è 'anche' del marito, dei parenti, del sistema medico sanitario… di Dio! In questo clima i genitori si fanno carico in modo ansioso del suo sentire, e del suo crescere e del loro desiderio onnipotente di non fargli subire traumi.
Esempio. Proprio qui a Parma durante il convegno dell'anno scorso una maestra di scuola elementare ci ha portato una sua esperienza significativa: un genitore arriva da lei infuriato perché nell'avvicinarsi della Pasqua ha parlato in classe della crocifissione di Gesù 'traumatizzando' la sua bambina che aveva scoperto, grazie a questo racconto, la morte… proprio così, la morte. Questo padre eroicamente voleva imporre alla maestra il suo modello; lui infatti diceva di aver rassicurato la figlia dicendole che lui non sarebbe morto mai! E voleva che la maestra si impegnasse a non traumatizzare di nuovo la sua piccola con… la verità.
La fusionalità insegna infatti che solo il noi è salvifico, al punto di non pensare che il figlio sia anche di Dio, o almeno della Vita.
Voi capite che se questo è il clima in cui cade la domanda del bambino - che ha sia il sapore del domandare per conoscere sia il clima del domandare affettivo - la risposta relazionalmente scorretta fa aggio sul contenuto della domanda, al punto che, qualsiasi cosa il genitore risponda ci sarà unica l'indicazione percepita: 'non ti devi allontanare da me', 'chiedi a me, io so sempre qual è il tuo bene', 'solo in casa tua troverai la risposta vera'.
L'ansia di sanare il gap generazionale renderà più difficile al genitore di cogliere la domanda: ad esempio il genitore fornisce una soluzione chiedendo ansiosamente al bambino se è questo che voleva sapere, oppure chiede al bambino di ripetere e precisare la domanda fino a mettergli in bocca le parole per una riformulazione 'a misura di adulto', oppure cerca di convincerlo che la sua risposta risponde alla domanda originale… Una tale relazione creerà un bambino sempre più dipendente, incapace di gestire in proprio nemmeno una sua domanda!
Questo bambino sarà poi rimproverato di farsi carico dei suoi compiti, dei suoi amici ecc.
Sempre S.Minuchin disegna i tratti della famiglia disimpegnata come opposti a quelli della famiglia «invischiata»: in tale famiglia i legami sono distanti, freddi e formali; ogni intimità è minacciosa, ciascuno si fa i fatti propri, il mondo interno di ciascuno è irraggiungibile dall’altro. In breve: Intimità e solidarietà sono parole straniere in questa famiglia in cui ci si può sforzare di fare un minimo di cordata solo in vista di un utile comune.
Rispetto al ciclo di vita della famiglia che stiamo prendendo in considerazione, una famiglia disimpegnata può esporre precocemente il bambino ad un'autonomia che è solitudine e iperresponsabilizzazione.
Voi capite che se questo è il clima in cui cade la domanda del bambino, di nuovo, la risposta relazionalmente scorretta fa aggio sul contenuto della domanda e produce una risposta che, verbalmente, potrebbe essere: «Capirai quando sei grande» oppure il semplice commento al limite del non verbale: «Boh!». Ma più che la risposta verbale sarà quella non verbale a risultare nel complesso squalificante: «Smettila di dire sciocchezze!»; «non è che io non so rispondere, ma la domanda non ha senso!»; nel minimo, l'adulto non entra in empatia con lo stato d'animo del bambino che pone la domanda, o con la ricaduta pragmatica sul suo io, lasciato solo con la sua domanda. Il bambino si sentirà inadeguato: «È colpa mia, sono stupido», «ci sono domande che non si devono fare», eccetera. Difficilmente il bambino attribuirà all'adulto la responsabilità di un atteggiamento non accogliente, ma solo ed esclusivamente a se stesso. Difficilmente capirà che gli è stata chiesta un'autonomia prima del tempo e che ciò costituisce una frustrazione più grande delle sue spalle.
Tra invischiamento e disimpegno è possibile una navigazione accettabile? Siamo cioè alla ricerca di una situazione cioè in cui la meraviglia dell'adulto davanti a queste domande si accompagni ad un rispetto per il bambino, rispetto per l'adulto che è in lui come direbbe E.Berne o, per dirla con un linguaggio cristiano, per la persona del bambino. Direi che questa navigazione equilibrata può esprimersi con le parole del Talmud: 'Insegna alla tua lingua a dire: non so. Altrimenti rischi di mentire'. Il piccolo psicologo di cui abbiamo parlato in questi anni e che è prevalente nella nostra cultura spinge il genitore più sul modello invischiato che su quello disimpegnato, fornendo soprattutto al figlio motivi perché lo ritenga un bravo genitore.
Chi talvolta accetta di deludere il figlio, di dire: «non so» mette invece le premesse per una relazione che non mostri al figlio sempre e solo la superiorità e la potenza del genitore e sarebbe davvero accogliente e costruttiva. Andiamo ora alla ricerca di una simile navigazione lontana dal rischio invischiante o di un circolo disimpegnato.
[1] Minuchin S. (1974), Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma 1976.
Gilberto Gillini, Mariateresa Zattoni
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