La strage di Utoya: cosa resta un anno dopo. Pensare di reggere il mondo e la storia con le sole forze umane è una «metafisica sciocchezza», sentenziava il filosofo Max Scheler. Forse è sull'onda di tale convinzione che Ivar avrà pensato spesso a Anders Behring Breivik, il killer che gli ha rubato amici e complicato la speranza.
Siamo come gabbiani, il cui destino – scriveva Vincenzo Cardarelli – è vivere «balenando in burrasca». E noi cristiani, sulle orme di Gesù che ha accettato il rischio del sangue e l’alfabeto della miseria, sappiamo che nel momento massimo dell’oscurità può splendere una stella che addita il cammino.
Per Ivar Benjamin Oesteboe quella di domani, 22 luglio, è una data malefica: giusto un anno fa, un killer aprì il fuoco nell’isola di Utoya dove un gruppo di ragazzi era impegnato in un campus estivo, tra politica e natura: probabilmente stavano riflettendo sul futuro del pianeta, sul possibile protagonismo giovanile in politica, sull’organizzazione della speranza per la loro nazione. C’è anche una giovinezza che continua a crederci, a investire, a immaginare uno stile diverso di essere e di esserci dentro le loro esistenze. Sessantanove suoi amici sono caduti sotto la furia omicida.
Per uno strano destino – che spesso altro non è che il vestito indossato dal buon Dio quando decide di viaggiare in borghese per le strade del mondo – Ivar è scampato alla strage; non sempre scampare, però, significa sentire il cuore battere di gioia. C’è chi esce con una forza in più come Viktor Emile Frankl, c’è chi avverte la colpa di non essere morto pure lui come Primo Levi; e c’è chi come Ivar ha deciso di tornare a vivere nel nome degli amici. Perché nessuno muore se vive nel ricordo di chi resta.
Pensare di reggere il mondo e la storia con le sole forze umane è una «metafisica sciocchezza», sentenziava il filosofo Max Scheler. Forse è sull’onda di tale convinzione che Ivar avrà pensato spesso a Anders Behring Breivik, il killer che gli ha rubato amici e complicato la speranza. E in quei giorni bui gli ha scritto una lettera: «Tu crederai forse di aver vinto (…) – scrive Ivar all’assassino –. A Utoya, in quella calda giornata di luglio, tu hai creato alcuni fra i più grandi eroi che il mondo abbia mai prodotto, hai radunato l’umanità intera».
Non c’è la collera del mondo adulto e non s’avverte nemmeno l’ingenuità del mondo infantile: è la voce di un’anima giovane che trova il coraggio di riorganizzare la speranza nel cuore dei sopravvissuti. È una pagina di quel quinto Evangelo che ogni uomo è chiamato a scrivere e che racconta di chi ha contemplato in anteprima il prodigioso duello tra la Vita e la Morte, scorgendo la forza del Bene non soccombere del tutto: «Io non sono arrabbiato – conclude il ragazzo –. Io non ho paura di te. Non ci puoi colpire, noi siamo più grandi di te. Noi non risponderemo al male con il Male, come vorresti tu. Noi combattiamo il Male con il Bene. E noi vinceremo».
La morte dei suoi compagni in quei giorni veniva raccontata da loro stessi “in diretta” su Twitter e Facebook. L’ultimo grido d’aiuto l’hanno lanciato su queste piattaforme virtuali mai così apportatrici di speranza concreta. «Ti voglio bene», ha scritto una ragazza alla madre qualche istante prima di morire. La prima sparatoria avvenne a due passi dal Nobel Peace Center, dedicato ai grandi uomini che negli anni hanno ricevuto l’ambito riconoscimento; la seconda in un’isola popolata da giovani storie assetate di sano protagonismo. Contro la pace e contro la giovinezza: certi simboli, letti a posteriori, quando vengono attaccati hanno un che di malefico.
A un anno dalla strage, però, ciò che rimane è il profumo di quel messaggio di speranza perché – come canta Eros Ramazzotti – «ogni bufera può strappare un bel fiore però non l’intera primavera, non può raderla al suolo non può». E da qui riparte la vita: aggrappandosi a un raggio di Luce tratteggiata con colori giovani, in perpetuo volo. Come i gabbiani di Cardarelli.
Don Marco Pozza
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