Come far sì che diventi spontaneo cercare in ciascuna identità religiosa una ricchezza?
Rieccola, puntuale come ogni anno, la polemica sulle feste di Natale nelle scuole. Presepe sì, presepe no, Babbo Natale sì, Gesù bambino no. Il tutto all'insegna di grandi paroloni come "rispetto dell'altro", "difesa della propria identità", "laicità", "integrazione", e chi più ne ha più ne metta. Provare a dire qualcosa su questo tema non è facile, si rischia di lasciarsi trascinare a discutere le ragioni dell'una o dell'altra fazione.
Vorrei provare a svincolarmi dalle polarizzazioni e collocare la riflessione nell'ambito che le è proprio, la scuola, ragionando non sui massimi sistemi ma a partire dalla sua concretezza. La concretezza di una classe reale, quella in cui c'è Andrea che va a catechismo e che ha avuto l'"impegno per la settimana" di regalare un'immaginetta con Gesù bambino a tutti i suoi compagni, c'è il suo vicino di banco musulmano che a mensa mangia cose diverse e ha la mamma che lo viene a prendere velata, c'è Sara, la fila dietro, che non festeggia il compleanno perché è Testimone di Geova e c'è la bambina al primo banco che di Dio ha a mala pena sentito parlare due o tre volte. È a partire da questa concretezza che ci si deve chiedere quale dev'essere il compito della scuola laica rispetto al tema della diversità religiosa, quali obiettivi si deve porre.
Di che cosa hanno bisogno questi ragazzi? Di un crocifisso appeso a un muro che ricordi loro la cultura religiosa predominante? Oppure hanno bisogno che la scuola non si occupi per nulla di quel dato di fatto così evidente rappresentato dalla diversità religiosa, annacquando ad esempio il Natale con alberelli e pupazzi di neve?
Credo che, a fronte di un contesto in cui un ragazzo si ritrova ogni giorno a stare fianco a fianco con coetanei di altre appartenenze religiose, la scuola non possa esimersi dal compito di prendere in considerazione questa diversità, di farsene carico, aiutando i ragazzi a starci dentro in modo positivo. Quell'idea di laicità per la quale la scuola, in nome del rispetto, non deve sporcarsi le mani col religioso ha dei limiti evidenti. Confonde il rispetto con la neutralità, quando invece rispetto non significa preoccuparsi di non interferire con la libertà dell'altro, ma riconoscere l'altro a partire dal mio preciso punto di vista, dando a lui spazio dentro di esso e non accanto ad esso. Non solo, in modo ancora più inquietante, ritiene che il segno della diversità sia un'offesa per l'altro e dunque si pone come obiettivo quello di eliminare tutto ciò che ricorda che siamo diversi, falsificando la realtà sotto il manto di un'uguaglianza del tutto finta.
La diversità, sia essa religiosa, culturale, fisica, intellettuale, e di qualsiasi altro tipo, non va negata, appiattita, rimossa. Va invece guardata in faccia e conosciuta. Perché solo così potrà allora anche essere apprezzata e finalmente considerata non un ostacolo ma una ricchezza. Questo credo debba essere l'obiettivo della scuola in un contesto segnato dalla presenza di così grandi diversità: aiutare i ragazzi a conoscere il diverso, a capire il senso che per l'altro ha ciò che lo rende diverso, fino a condurli a riconoscere che in quella diversità c'è una singolarità ricca di pregi e potenzialità. Che può quindi avere un suo posto nel mondo. Questo è rispetto.
Vorrei una scuola così. Dove non si discuta se fare o no il presepe, se mettere o no il crocifisso, ma ci si preoccupi di fare sì che i bambini musulmani della classe conoscano e apprezzino la religione dei compagni cristiani, che i bambini che non hanno mai sentito parlare di Dio tornino a casa e spieghino ai loro genitori che cosa festeggiano Fatima e Mohamed il giorno della Festa del Sacrificio. Ed allora certo che ai bambini cristiani non solo lascerò, ma chiederò di fare il presepio, così che possano spiegare agli altri cosa rappresenta per loro la festa del Natale. E la stessa cosa farò per le festività musulmane. Così come chiederò a Sara, il giorno del suo compleanno, di spiegare al resto della classe perché non festeggia; aiutandola se serve, perché non venga considerata semplicemente diversa, ma anche lei possa essere apprezzata e avere spazio accanto alle altre.
Gabriele Cossovich
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