Le persone che Dio chiama non presentano sempre qualità eccezionali. Sono di provenienza sociale e culturale le più diverse. Anche le esperienze che hanno alle spalle non si assomigliano. In loro possiamo perfino trovare difetti, momenti di resistenza e di pigrizia. Hanno però tratti comuni...
del 15 febbraio 2008
LETTURE
GEN 12,1-4A
DAL SALMO 32
2 TM 1,8B-10
 
Le persone che Dio chiama non presentano sempre qualità eccezionali. Sono di provenienza sociale e culturale le più diverse. Anche le esperienze che hanno alle spalle non si assomigliano. In loro possiamo perfino trovare difetti, momenti di resistenza e di pigrizia. Hanno però tratti comuni. Si sono lasciate affascinare da Dio e dalla sua parola. Non senza fatica, si sono aperte alla ricerca e all’ascolto di Dio. Da lui si sono fatte illuminare per guardare i problemi e le necessità del popolo. Hanno messo con generosità la loro vita al servizio dei fratelli, per aiutarli a fare esperienza di Dio e della sua salvezza. (CEI, Catechismo dei giovani/1, pag. 246)
 
 
 
ANNUNCIARE
 
La Parola di Dio di questa domenica ci presenta la Quaresima come un itinerario di cambiamento e di trasformazione che conduce all’approdo pasquale. Il volto del Cristo trasfigurato di fronte ai suoi discepoli indica la meta del cammino, ma anche la sua modalità: è il Signore che, appropriandosi gradualmente del credente, lo rende simile a sé (Vangelo). La parola del Vangelo è lo strumento privilegiato con il quale Dio opera tale novità di vita nel cuore dell’uomo (2ª lettura). Il brano liturgico tratto dal libro della Genesi (12,1-3) fa parte di un insieme più grande (11,27–12,9) che costituisce la presentazione di Abramo, primo dei patriarchi, all’inizio del ciclo che lo riguarda. Il nostro testo racconta succintamente l’avvenimento della sua chiamata che segue alla dispersione causata dalla costruzione della torre di Babele. Nella prima parte (12,1) troviamo il comando di Dio, mentre nella seconda parte (12,2-3) una serie di promesse. Attorno ad Abramo dovrà ricostruirsi l’unità dell’umana famiglia, dispersasi a motivo della colpa. Inoltre, come le nazioni sono costrette a migrare da Babele, così il patriarca dovrà andarsene dal suo paese. Nel caso di Abramo non si tratta però di una dispersione, ma di una chiamata diretta a partire.
Il comando del Signore è forte e perentorio (12,1). Anzitutto la particolare costruzione usata nell’ebraico indica che Abramo deve andarsene da solo («vattene») – anche se il contesto successivo sembra smentirlo (12,5) – o che almeno la responsabilità della decisione ricade tutta su di lui. Ciò che il patriarca deve lasciare è dapprima indicato con «patria». Abramo abbandona la sua terra per diventare un nomade a tutti gli effetti, in quanto non avrà mai fissa dimora nella terra che Dio gli promette. Con un movimento progressivo si passa poi, tra le cose alle quali il patriarca è costretto a rinunciare, alla parentela o clan, ed infine alla casa paterna. Tale progressione intende sottolineare il rilevante prezzo dell’obbedienza di Abramo. Per questo il Nuovo Testamento farà di lui il prototipo dell’uomo di fede (cfr Rm 4; Gal 3; Eb 6) e nelle tradizioni ebraica e cristiana, e per certi versi anche in quella islamica, egli sarà considerato il «padre dei credenti». In effetti, nel testo della Genesi, Abramo ci è presentato come un uomo che abbandona quanto ha di più caro per andare verso una terra lontana che neppure conosce. Siamo di fronte alla scandalosa scommessa della fede che diventa affidamento totale alla Parola di Dio, pur senza vedere niente di quanto il Signore stesso indica. La serie successiva è grammaticalmente subordinata, con valore consecutivo («cosicché»), al comando iniziale di partire (12,2-3). È l’aspetto complementare dell’abbandono proprio della fede, il centuplo promesso rispetto a quanto lasciato.
D’altronde, tra gli elementi della lista spicca quello ripetuto del benedire, così da poter parlare di una serie di sette benedizioni impartite da Dio ad Abramo. Così sospeso tra l’uomo vecchio che ha abbandonato e l’uomo nuovo che non è ancora pienamente diventato, il credente è invitato a essere un nomade, con una fede in continuo movimento, in obbedienza alla Parola che lo chiama inesorabilmente ad uscire da sé per accogliere l’iniziativa sempre nuova e trasformante del Signore.
 
CELEBRARE
 
In questo tempo quaresimale a tutti noi pellegrini sulla terra, è rinnovata la grazia di camminare alla luce del Vangelo («O Dio… che hai dato a noi la grazia di camminare alla luce del Vangelo », Colletta alternativa) e come ad Abramo anche a noi, oggi, il Signore indica la via verso la terra della sua benedizione («Vattene dal tuo paese, dalla tua patria verso il paese che io ti indicherò», 1ª lettura): lì, sul suo monte santo, il velo dei nostri occhi cadrà e potremo contemplare sull’albero della Croce la gloria del Figlio dell’uomo («…E fu trasfigurato davanti a loro», Vangelo).
 
In ogni liturgia, Dio ci fa dono della sua benedizione: Egli è il Dio benedicente e benedetto che annulla l’antica maledizione di Adamo, per condurci nella terra promessa. La parola benedicente è la voce di Dio che all’origine del mondo chiama alla vita ogni cosa (be-reshit), che crea cose “buone”. La sua “benevolenza” si estende su tutte le creature, in particolare sull’uomo e sulla donna fatti a immagine e somiglianza di Dio: «E vide che era cosa molto buona» (Gn 1,31). La benedizione di Dio si estende ad Abramo, Isacco, Giacobbe, fino a raggiungere Israele, figlio scelto e amato da Dio, per fargli dono di una terra, ricca di doni e di ogni bontà. Infine, nella pienezza dei tempi, il Padre, ha donato a noi il suo Figlio, in Lui la maledizione del peccato è cancellata e su tutti noi è stata riversata la pienezza di «ogni grazia e benedizione del cielo» (Canone romano).
Lo stupore e la consapevolezza di essere gli eredi della sua benevolenza, genera nel cuore della Chiesa la: bene-dizione. Il verbo ebraico solitamente utilizzato per benedire Dio è brk da cui berakah, tradotto in greco con la parola euloghìa o eucharistia: rendimento di grazie. Nella celebrazione eucaristica, Dio ci fa dono della pienezza della sua benedizione, donando a noi il suo Figlio Unigenito: Egli ci benedice, quando ci convoca in assemblea, quando ci fa dono della sua presenza (il Signore sia con voi…), quando rinnova le sue promesse (Liturgia della Parola), quando versa per noi il «calice della benedizione» (preghiera eucaristica), quando ci invia ad annunciare il suo Vangelo (benedizione finale). E noi, grati e riconoscenti della sua infinità bontà, compiamo l’opera per cui siamo stati creati: «È cosa buona e giusta renderti grazie sempre e in ogni luogo» (preghiera eucaristica). Ogni volta che compiamo l’azione di rendimento di grazie, ci riconosciamo figli amati e benedetti da Dio e siamo da questo gesto trasformati in un «sacrificio vivente gradito a Dio» (Rm 12,1), la nostra esistenza si trasfigura in una benedizione vivente. «Diventerai una benedizione…»
 
 
Preghiamo con la liturgia
 
¬´Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe,
Dio della vita e delle generazioni,
Dio della salvezza,
compi ancor oggi le tue meraviglie,
perché nel deserto del mondo
camminiamo con la forza del tuo Spirito
verso il regno che deve venire».
(Colletta feriale, n. 25)MT 17, 1-9
 
 
Testimonianze di una vita nuova
 
Dima è una giovane palestinese e lavora a Ramallah, vicino a Gerusalemme, in una casa che la Caritas affitta per accogliere gli anziani soli della città. Ma non è un “pensionato”, è un appartamento, abbastanza grande, un po’ adattato, con un piccolo giardino. Gli anziani che incontriamo sono rimasti soli perché le giovani generazioni, appena possono, emigrano all’estero in cerca di lavoro. Dice Dima: «Il nostro è un Centro Anziani, ogni mattina il nostro pulmino fa il giro per raccogliere i più malandati o i più lontani e alla sera li riporta a casa. Ma durante la giornata non è che noi prestiamo i servizi di cui tutti più o meno hanno bisogno. In questa casa loro vivono insieme, il mio compito è quello di far sì che i servizi se li rendano, per quanto possibile, fra di loro, o con la rete di conoscenze che già hanno in città. Insomma il mio servizio è chiedere che loro si rendano servizio, interveniamo solo quando non ce la fanno…». Ed ecco l’anziano professore di inglese che insegna le basi o almeno alcune parole essenziali ai suoi coetanei, o l’ex cuoca che suggerisce la variante di una ricetta in cucina. Poi c’è chi è un po’ meno anziano, e che aiuta nella fisioterapia quello che ne ha bisogno, c’è un vecchio maestro in cravatta che corregge la fitta corrispondenza che tutti hanno con i figli lontani. «Eh sì, dice, vi sono alcuni deboli in ortografia e poi devo sempre correggere gli stessi errori!». E mi mostra dei fogli, scritti in arabo, con le correzioni in rosso. Sembra chiedermi conferma che alcuni suoi allievi sono un po’ distratti e io infatti gliela do, dopo aver controllato gli incomprensibili ricami della sua scrittura… «Le persone anziane non hanno bisogno di molta assistenza – dice Dima – hanno però bisogno di sentirsi utili, e questo è possibile anche a chi non ha più nessuno. Li mettiamo insieme, gli chiediamo loro di darsi da fare e sono i primi a prendersi amabilmente in giro sugli acciacchi dell’età. Il mio servizio? Meno ne faccio, più aumenta il buonumore!».
Un operatore Caritas
 
 
Gli saremo Testimoni
 
Dal martoriato Medio Oriente ci arriva questa esperienza di valorizzazione delle persone nel territorio, soprattutto anziani soli, che rischiano di sentirsi inutili. Ecco un modo di “abitare il territorio” da cui possiamo prendere esempio. Non è necessario organizzare grandi cose, basta tenere gli occhi aperti: accorgersi del vicino solo, degli anziani in parrocchia, dei disabili, non per fornire loro servizi, ma per coinvolgerli in un progetto in cui ciascuno possa dare il proprio contributo. Insieme sarà possibile crescere, tutti, nella carità.
 
 
 
Preghiamo insieme intorno alla tavola
 
Ti preghiamo per le
persone che abitano con
noi questo territorio:
aiutaci a condividere
insieme le gioie e le fatiche
di tutti i giorni.
Conferenza Episcopale Italiana
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