Non possiamo trasformare noi stessi; possiamo soltanto essere trasformati, ma lo possiamo solo quando lo vogliamo con tutte le nostre forze. Un pezzo di materia non ha il potere di trasformarci. Ma se noi crediamo che tale potere derivi dal volere di Dio e per questo motivo lo facciamo entrare in noi, compiamo realmente un atto di accettazione nei confronti della trasformazione che ci siamo augurata, e per questo fatto essa discende dal cielo nell'anima.
del 05 settembre 2011
 
Caro amico,
troverete in questo scritto alcune riflessioni sui sacramenti; qualche vostra affermazione sulla comunione mi ha fatto pensare che avrebbero potuto avere qualche interesse per voi. Non ho nessun diritto, evidentemente, di avere una mia teoria sui sacramenti. Ma proprio per questo motivo, qualora fosse errata, ho l’obbligo di manifestarla. Spetta ad altri scoprire che osa valga e donde provenga.…           La natura umana è tale che un desiderio dell’anima, finché non è passato attraverso la carne per mezzo di azioni, movimenti, atteggiamenti che gli corrispondono naturalmente, non diventa realtà per l’anima stessa, ma rimane un fantasma e non agisce su di lei.          Su tale disposizione naturale è fondata la possibilità di un certo controllo di se stessi attuato per mezzo della volontà e tramite il legame naturale fra questa volontà e quella dei muscoli. Ma se l’esercizio della volontà può, in una misura d’altronde limitata, impedire all’anima di cadere nel male, non può di per se stesso aumentare nell’anima la proporzione del bene rispetto al male. Se non si ha sufficiente denaro a disposizione nel portafogli, bisogna andare a cercarne di più in una banca. Non è a casa propria che lo si troverà, visto che lì non c’è.          Il bene che non abbiamo in noi stessi non possiamo procurarcelo, qualsiasi sforzo di volontà facciamo. Non possiamo far altro che riceverlo. Lo riceviamo infallibilmente ad una sola condizione: che lo desideriamo. Ma non deve trattarsi del desiderio di un bene parziale. Solo il desiderio del bene puro, perfetto, totale, assoluto, può mettere nell’anima un po’ più di bene di quanto essa ne possieda. Quando un’anima si trova in questo stato di desiderio, il suo progresso è proporzionale all’intensità del desiderio e al tempo. Ma solo i desideri reali hanno efficacia. Anche il desiderio del bene assoluto è efficace in quanto, e soltanto in quanto è reale. Ma, dato che i movimenti e le attitudini del corpo possono trovare un oggetto di desiderio solo sulla terra, come potrebbe questo desiderio realizzarsi attraverso la carne? È impossibile.          È certo che se tale possibilità, indispensabile alla salvezza, è irrealizzabile umanamente, deve esistere però una possibilità soprannaturale. Per tutto ciò che concerne il bene assoluto e il contatto con esso, la prova della perfezione (a volte erroneamente chiamato prova ontologica) è non solo valida, ma l’unica valida: essa deriva immediatamente dal concetto stesso di bene. Tale prova sta al bene come la dimostrazione geometrica sta alla necessità. Affinché il desiderio del bene assoluto passi attraverso la carne, è necessario che un oggetto di quaggiù sia a titolo di segno e per convenzione il bene assoluto in rapporto alla carne. Che questo oggetto sia il bene assoluto in rapporto alla carne, non significa che sia un bene della carne. Esso è il bene assoluto dello spirito in rapporto alla carne.          Una convenzione relativa alle cose di questo mondo può essere conclusa e ratificata fra gli uomini, o fra un uomo e se stesso. Una convenzione relativa al bene assoluto non può essere ratificata che da Dio (questa idea della ratifica divina si trova nel canone della messa e precede immediatamente la consacrazione. Una ratifica divina implica necessariamente una rivelazione diretta di Dio e forse implica necessariamente l’incarnazione.          Possono essere segni di Dio soltanto le cose che sono state stabilite da Dio. Per una convenzione stabilita da Dio tra Dio e gli uomini, un pezzo di pane significa la persona di Cristo. Per il fatto che una convenzione ratificata da Dio è infinitamente più reale della materia, la realtà del pane, pur rimanendo, diventa semplice apparenza nei confronti della realtà infinitamente più reale di quanto costituisce il suo significato. Nelle convenzioni stabilite tra gli uomini il significato di una cosa ha una realtà minore della materia che la compone. In una convenzione stabilita da Dio avviene il contrario. Ma il significato divino supera infinitamente il grado di realtà rispetto alla materia di quanto non faccia la materia sul significato umano.          Se si è convinti che il contatto con il pezzo di pane sia un contatto con Dio, attraverso questo contatto con il pane il desiderio di contatto con Dio, che era solo una velleità, passa attraverso la prova del reale. Per questo fatto, e dato che in questo campo desiderare è l’unica condizione per ricevere, si crea fra l’anima e Dio un contatto reale.          Nelle cose terrene la credenza genera l’illusione; è solo nei confronti delle realtà divine e nel momento in cui un’anima rivolge a Dio la sua attenzione e il suo desiderio, che la credenza genera una realtà; e questo avviene per effetto del desiderio. La credenza produttrice della realtà è la fede.          La grazia è nello stesso tempo quanto vi può essere di più esterno e di più interno. Il bene infatti non ci viene dal di fuori: penetra in noi soltanto quel bene a cui acconsentiamo. Il consenso diventa reale solo nel momento in cui la carne lo rende tale con un gesto.          Non possiamo trasformare noi stessi; possiamo soltanto essere trasformati, ma lo possiamo solo quando lo vogliamo con tutte le nostre forze. Un pezzo di materia non ha il potere di trasformarci. Ma se noi crediamo che tale potere derivi dal volere di Dio e per questo motivo lo facciamo entrare in noi, compiamo realmente un atto di accettazione nei confronti della trasformazione che ci siamo augurata, e per questo fatto essa discende dal cielo nell’anima. Per questo il pezzo di materia ha la virtù supposta.          Il sacramento corrisponde in modo perfetto al doppio carattere dell’operazione della grazia, insieme subita e acconsentita, e alla relazione del pensiero umano con la carne. Esiste una doppia condizione per questa virtù della fede nel meccanismo soprannaturale del sacramento. Innanzitutto è necessario che l’oggetto del desiderio non sia altro che il bene unico, puro, perfetto, totale, assoluto e per noi inconcepibile.          Molte persone pongono la parola Dio come etichetta su una concezione che la loro anima ha fabbricato o che ha loro fornito l’ambiente circostante. Ci sono molte concezioni di questo genere, le quali sembrano più o meno simili a quella vera di Dio, ma che l’anima può pensare senza aver orientato l’attenzione fuori di questo mondo.          In tal caso il pensiero, per quanto in apparenza occupato da Dio, continua a muoversi nei confini di questo mondo, e le sue convinzioni, secondo la legge del mondo, fabbricano illusioni, non verità.          Questo stato non è tuttavia senza speranza, poiché il nome di Dio e quello di Cristo hanno di per sé un potere tale che possono con il tempo far uscire l’anima da questa situazione e trascinarla verso la verità. La seconda condizione è che la fede in una certa identità del pezzo di pane e di Dio abbia penetrato totalmente l’essere al punto d’impregnare non solo l’intelligenza, che in questa circostanza non ha nessun compito particolare, ma tutto il resto dell’anima: l’immaginazione, la sensibilità, la carne stessa, oserei dire. Quando esistono queste due condizioni e l’atto di accostarci al pane eucaristico sta per sottomettere il desiderio di Dio alla prova del reale, nell’anima avviene senza dubbio qualcosa.Finché un desiderio non ha contatto col reale, non suscita nell’anima alcun conflitto.          Per esempio, se un uomo desidera sinceramente esporsi alla morte in qualità di soldato per il suo paese e se non può nemmeno cominciare ad attuare tale desiderio (supponiamo per esempio che sia mezzo paralizzato), il suo desiderio non sarà combattuto nell’anima dal timore della morte. Ma se un uomo, che ha la possibilità sia di partire sia di rinunciarvi, decide ed ottiene di poter partire, allorché sì troverà nel cuore della battaglia o parteciperà ad una missione estremamente pericolosa, o starà per essere ucciso, è quasi certo che in un qualsiasi momento della sua marcia verso il dovere la paura della morte si leverà nella sua anima e sarà nello stesso tempo combattuta. L’istante in cui nasce un tale sentimento non si può fissare, è determinato dal temperamento di ciascuno e dalla natura della sua immaginazione. Solo quando ci si avvicina a questo momento, il desiderio di esporsi alla morte diventa reale.          La stessa cosa avviene a proposito del desiderio di un contatto con Dio: finché tale desiderio non è reale, lascia l’anima tranquilla. Ma, quando sussistono le condizioni del sacramento e il sacramento sta per realizzarsi, l’anima si spezza in due. Una parte di essa aspira al sacramento, e questa aspirazione può anche essere momentaneamente impercettibile alla coscienza: è la parte della verità nell’anima, poiché «colui che fa la verità va verso la luce».          Ma tutta la parte mediocre dell’anima sente ripugnanza per il sacramento, lo odia e lo teme molto più di quanto un animale fugga con orrore la morte che incombe su di lui; infatti «chiunque compia cose mediocri odia la luce». In questo modo si ha la separazione tra il grano buono e la gramigna.          Cristo ha detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada». E san Paolo: «La parola di Dio è viva ed efficace più di qualunque spada a doppio taglio e penetra fino a separare l’anima e lo spirito, lo scheletro e il midollo, e a distinguere i sentimenti e i pensieri del cuore».          La comunione diventa allora un passaggio attraverso il fuoco, che brucia e distrugge una parte delle impurità dell’anima. La comunione seguente ne distrugge un’altra. La quantità del male contenuto in un’anima è limitata, mentre il fuoco divino non si spegne mai. Così, alla fine di tale meccanismo, nonostante le più gravi cadute (a meno che non si tratti di tradimento e di rifiuto deliberato del bene o che la morte non sopravvenga accidentalmente prima della fine) il passaggio allo stato di perfezione è infallibile.          Quanto più è reale il desiderio di Dio e di conseguenza il contatto con Dio attraverso il sacramento, tanto più violento è il ritrarsi della parte mediocre dell’anima: ritrarsi che è paragonabile al movimento della carne viva che si tira indietro nel momento in cui la si espone al fuoco. Secondo i casi, esso si colora di repulsione, o di odio o di paura.          Quando l’anima si trova nello stato in cui l’accostarsi al sacramento diventa più penoso di una marcia verso la morte, essa è giunta al limite al di là del quale il martirio è facile. Nel suo sforzo disperato di sopravvivere e di sfuggire alla distruzione del fuoco, la parte mediocre dell’anima inventa febbrilmente, per difendersi, degli argomenti. Li prende in prestito dovunque, senza distinzioni, anche dalla teologia e da tutti quegli avvertimenti sui pericoli di un sacramento ricevuto indegnamente.          A condizione che tali pensieri non condizionino la scelta dell’anima, questo tumulto interiore è infinitamente benefico. Infatti, quanto più è violento il movimento interiore del ritrarsi, della rivolta e del timore, tanto più è certo che il sacramento sta per distruggere una parte rilevante di male nell’anima e sta per avvicinarla di molto alla perfezione.          «Il chicco di senape è il più piccolo dei semi». L’atomo impercettibile di bene puro, posto nell’anima dal movimento di desiderio verso Dio, è questo seme. Se non verrà strappato da un tradimento volontario e consapevole, con il tempo nasceranno da esso infallibilmente dei rami, su cui si poseranno gli uccelli del cielo. Cristo ha detto: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che getta il seme nella terra; che dorma o vegli, di notte o di giorno, il grano germoglia e cresce senza che lui stesso sappia come. Spontaneamente la terra fruttifica: prima l’erba, poi la spiga, poi il grano maturo nella spiga. E quando il grano è maturo, quell’uomo impugna la falce, perché è ora di raccogliere la messe» (Mc 4,26).          Quando l’anima ha varcato quella soglia con un contatto reale con il bene puro (un segno certo di questo contatto è forse il tumulto interiore che si scatena nell’anima di fronte al sacramento), non le è chiesto niente altro se non l’attesa immobile. Attesa immobile non significa assenza di attività esteriore. L’attività esteriore, per quanto rigorosamente imposta dagli obblighi umani o dagli ordini particolari di Dio, fa parte di questa immobilità dell’anima; restare al di qua o andare oltre impedisce allo stesso modo l’attesa immobile.          Un’attività esattamente conforme a quanto è comandato è una condizione per l’attesa dell’anima, così come per un ragazzo che studia, l’immobilità del corpo è una condizione per l’attenzione. Ma, come l’immobilità fisica, essendo qualcosa di diverso dall’attenzione, è di per sé stessa inefficace, così gli atti prescritti all’anima giunta a questo stato sono di per se stessi inefficaci. La persona davvero attenta non ha bisogno di costringersi all’immobilità per suscitare in sé l’attenzione; anzi, dal momento in cui il suo pensiero si applica ad un problema, sospende naturalmente, automaticamente i movimenti che non agevolano tale applicazione. Allo stesso modo gli atti prescritti nascono automaticamente da un’anima nello stato di attesa immobile.          Finché la perfezione è lontana, essi sono spesso mescolati a sentimenti di pena, di dolore, di fatica, ad una apparente lotta interiore, a cadute spesso gravi; tuttavia, finché non è avvenuto nell’anima un tradimento consapevole, c’è nel loro compimento un carattere irresistibile. L’uomo non può dispensarsi dall’ubbidire a certi comandi; comunque, non è perché agisce che diventa degno d’essere amato da Dio.          «Chi di voi, avendo uno schiavo che lavora o sorveglia le bestie, quando torna dai campi gli dice: “Vieni svelto e stenditi per mangiare”? Non gli dirà piuttosto: “Preparami il pasto, cingiti e servimi finché mangio e bevo e poi mangerai e berrai tu stesso”? Ed avrà forse gratitudine per lo schiavo perché ha eseguito gli ordini? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quanto vi è stato comandato dite: “Siamo servi inutili: abbiamo fatto ciò che dovevamo fare”» (Lc 17,7).          Lo schiavo che beneficia dell’amore, della gratitudine e perfino dei servizi del suo padrone, non è quello che lavora o miete, ma un altro. Non è che si debba scegliere fra due modi di servire Dio. I due schiavi rappresentano l’anima sotto due rapporti diversi, o meglio due parti inseparabili della stessa anima. Lo schiavo che sarà amato è colui che sta in piedi, immobile, vicino alla porta, sveglio, attento, in attesa, preoccupato di aprire non appena sente bussare. Né la fatica, né la fame, né le sollecitazioni, né gli inviti amichevoli, le ingiurie, i colpi o i lazzi dei suoi compagni, né le voci che possono circolare intorno a lui, secondo le quali il suo padrone sarebbe morto o irritato contro di lui e deciso a fargli del male, niente insomma lo distoglierà minimamente dalla sua immobilità attenta.          «Siate simili a degli uomini che attendono il padrone che torna da nozze, affinché quando egli arriverà e busserà voi possiate aprirgli subito. Felici quei servi, che al suo ritorno il padrone troverà svegli. In verità vi dico che egli, li farà sedere alla sua tavola e passerà davanti a loro per servirli».Lo stato di attesa così ricompensato è ciò che ordinariamente chiamiamo pazienza.Ma il termine greco hupomoné è infinitamente più bello e ricco di un significato diverso; indica un uomo che attende senza muoversi, a dispetto di tutti i colpi e le percosse con cui si cerca di smuoverlo:                         karpophoroûsin en hupomonê «Porteranno frutto nell’attesa».Simone Weil
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